Perché non sono più ambientalista
Non lo sono più perché è troppo difficile.
Fare l’ambientalista è tremendamente complicato, non ne azzecchi mai una. Se sei onesto hai continuamente la testa arrovellata da dubbi.
Come quando ho deciso di fare colazione a consumo-zero. Un bel bicchierone di latte freddo e via.
Poi uno pensa: ma per avere latte bisogna avere mucche, e le mucche, lo sappiamo, emettono parecchio metano (evito i dettagli). Il metano è un gas serra più potente dell’anidride carbonica. Per produrre 250 millilitri di latte bisogna tollerare l’espulsione di 7,5 litri di metano, che pesano circa 5 grammi ed equivalgono a 100 grammi di anidride carbonica. E questo senza contare tutto cio’ che occorre per fare il latte: foraggio per le mucche, trasporto, pastorizzazione… Era molto meglio puntare su una colazione diversa senza badare alla corrente elettrica. Si ma cosa? Il latte di soia? Il the? Io sono un ambientalista, mica un fachiro. E poi mi fa già male la testa.
Nemmeno il cheeseburger che mangiavo a pranzo si è rivelata una scelta felice. Così come la braciola di agnello a cena, perché anche gli ovini producono metano. Forse farei meglio a prendere del maiale oppure del pollo. O ancora meglio del pesce, specie quello che nuota vicino alla superficie: aringhe, sgombri o marlenghi. Ma dove li trovo i marlenghi? Certo, l’ottimo sarebbe la zuppa vegana, ma preferisco tagliarmi le vene.
Il chilometro zero è qualcosa su cui ho puntato a lungo, comprare prodotti locali riduce chilometri percorsi dal cibo per arrivare sui nostri piatti, ma spesso è una pratica controproducente. E’ sicuramente vero che trasportare cibo in giro per il mondo fa consumare energia, tuttavia l’impatto è inferiore a quanto si pensi, la maggior parte dei prodotti viene trasportata via nave (i consumi sono minimi), e quando viene caricata sugli aerei non sta su una bella poltrona con ampio spazio per le gambe e lo champagne gratis. Per esempio, la scelta di un nordico di consumare pomodori inglesi anziché spagnoli e di certo maldestra, l’anidride carbonica emessa dal viaggio del tir è completamente controbilanciata dal fatto che la Spagna e baciata dal sole mentre l’Inghilterra è baciata dalle serre..
Anche l’idea di evitare i sacchetti di plastica per la spesa mi sembra oggi un sacrificio decisamente dubbio. Il sacchetto è responsabile di solo un millesimo di emissioni di anidride carbonica rispetto al cibo che ci mettiamo dentro, forse valeva la pena di spendere altrove le proprie energie cognitive. Inoltre, questo risparmio non si avvicina neppure lontanamente a compensare la debolezza che mi concedo prendendo la macchina, nemmeno se avessi l’ibrido. D’altronde che faccio? Torno in bici carico di borse?
Non che muoversi in autobus migliori di molto la situazione. Nella mia città l’autobus trasporta in media 13 persone, le auto portano in media 1,6 persone e mettendo così meno anidride carbonica per km su passeggero. Certo, l’autobus viaggia lo stesso anche se non lo prendo ma allora non fatemi sentire in colpa se prendo l’aereo, tanto viaggerebbe lo stesso! In certi casi l’autobus può essere la scelta giusta, ciò non toglie che una settimana di autobus la compensi se non dimentichi di usare il coperchio bollendo le patate.
Ho lavato a mano i piatti per parecchio tempo prima di accorgermi che disprezzare la lavastoviglie è stato un gesto sciagurato, usando l’acqua calda ho inquinato molto di più. E d’altronde cosa vuoi? Che lavi con l’acqua gelata?
L’idea di installare un mulinello a vento sul tetto non è stata delle migliori, specie quando ho saputo che il risparmio energetico è compensato 5 volte evitando lo stand by del computer.
Ho fatto solo qualche esempio dei mille che potrei fare. Insomma, è un gran casino.
Non potrebbe essere tutto più semplice?
No, a meno che uno dedichi la propria vita a studiare le emissioni.
Il bello è che ci sono persone che trascorrono le loro giornate in ufficio a fare questo genere di stime. Lo fanno per professione, lo fanno per una clientela che spazia dalle banche alla Pepsi Cola.
E in effetti ci vuole un professionista per comprendere l’impatto ambientale, per esempio, di un cappuccino. Per farlo occorre una macchina espresso, uno strumento decisamente sofisticato composto da migliaia di pezzi sulla produzione dei quali occorre concentrare l’attenzione, ma anche una mucca, dei chicchi di caffè, di una tazzina di ceramica… Quanto inquina ciascuno di questi oggetti? Occorre sapere come sono stati costruiti e cosa è servito per costruirli! Ci sono migliaia di aspetti di cui tenere conto. Il bar che vi serve il cappuccino ha i doppi vetri? Il barista che vi serve il cappuccino è un pendolare? Quanti km percorre ogni giorno per andare avanti e indietro? Che automezzo usa? E che dire dell’ avanti e indietro dai campi del coltivatore di caffè? Un caffè nero filtrato sarebbe meglio dell’orrore di un latte di soia?
Questi professionisti devono comprare e consultare libroni enormi obsoleti dopo pochi mesi (ci sono miliardi di prodotti in giro, un cappuccino ne tira in ballo più di 2000).
Anche un professionista farebbe comunque errori. La discordia alligna ovunque: per alcuni le banane sono un alimento a bassa emissione di anidride carbonica, altri fanno invece notare che le banane sono un prodotto con un impronta di carbonio importante. Ho letto studi che suggeriscono che la carne, se lavorata nel modo giusto, potrebbe aggravare molto meno sul cambiamento climatico di quanto non faccio adesso.
Per ogni gesto quotidiano c’è una pila di tesi di ricerca da scartabellare, ed è impossibile che si riesca ad arrivare ad una conclusione certa anche perché l’aggiornamento richiesto è continuo: quel che valeva ieri non vale oggi. Se questo è vero per gli esperti figuriamoci per persone qualsiasi. Figuriamoci poi quanto sarebbero disposti ad accollarsi questo onere persone con una coscienza ambientale appena al di sotto di quella dei fanatici.
Ma il punto decisivo è un altro, ovvero che esiste un metodo semplicissimo per risolvere d’emblée tutto il problema: lacarbon tax.
Si dovrebbe imporre una tassa per tonnellata di carboniocontenuta in ogni combustibile fossile estratto sul proprio territorio, in questo modo il potenziale inquinante di qualsiasi oggetto viene a riflettersi sul suo prezzo. Una tassa di €50 sul carbonio farebbe aumentare il prezzo della benzina di circa €0,03 al litro, creando così un incentivo modesto a guidare meno e in modo più efficiente e a comprare auto con tasso di consumo minore. Il prezzo medio dell’energia crescerebbe, i pomodori spagnoli aumenterebbero di prezzo a causa del dispendio energetico necessario per spedirli via mare dalla Spagna, ma il prezzo dei pomodori nordici coltivati in serra aumenterebbe ancora di più! Tutto diverrebbe una mera conseguenza, un camionista che ignorasse il prezzo più alto del gasolio nel programmare le sue spese di spedizione finirebbe semplicemente fuori mercato.
Una volta al supermercato non dovrei più lanciarmi in calcoli arditi quanto complessi, mi basterebbe guardare al prezzo:quanto più dispendiosi saranno i pomodori in termini di emissione di anidride carbonica, tanto più il prezzo tenderà a salire. Non servirebbe più alcuna banca dati centrale, nessuna biblioteca con gli scaffali imbarcati da tomi assurdi. Guardo il prezzo e penso alla mia convenienza. Fine.
Ma i governi insistono sulle “regole” anziché sui prezzi, il frutto di questa scelta è molto spesso maldestro esattamente come il mio comportamento ai tempi in cui ero ambientalista e mi imponevo delle “regole”. Senonché, io imparo dai miei errori, mentre le normative di governo, per loro stessa natura, tendono a essere in qualche modo impermeabili alle opportunità di miglioramento. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi.
La soluzione del prezzo ha una natura evolutiva mentre la soluzione delle regole ha una natura progettuale. “L’evoluzione è più intelligente di noi”, diceva un tale, almeno quando i problemi da risolvere sono molto complessi, tipo quello ambientale. Quando un processo evolutivo viene lasciato libero di agire su un problema, spesso troverà soluzioni che nessun progettista in carne e ossa sarebbe in grado di immaginare. L’economia, ovvero il sistema dei prezzi, è per sua natura un ambiente evolutivo, gli imprenditori e gli ingegneri hanno una miriade di idee che aspettano solo il giusto scenario economico per essere applicate, i governi invece sanno molto poco di tutto questo.
Ma perché soluzioni tanto semplici non trovano accoglienza entusiasta da parte dell’ambientalista medio?
Mi sono fatto l’idea che gran parte del mondo ecologista sia disinteressato all’ambiente quanto piuttosto alla ricerca di una pseudoreligione anti-capitalista. E, in questo senso, l’origine ideologica di molti leader non fa che alimentare questo sospetto.
Se le cose stessero così i conti tornerebbero: il vero obiettivosarebbe quello convertirci a nuovi stili di vita, non di risolvere il problema del global warning. L’ecologismo diverrebbe solo uno strumento nelle mani di chi ha obbiettivi ideologici da perseguire.
Faccio l’esempio che da cattolico mi è più vicino, quello di Papa Francesco. Sua Santità nell’ultima enciclica ha invitato in modo accorato a prendersi cura del creato ma anche a diffidare di quelle “soluzioni che facciano leva sui prezzi”. Ma perché mai? Forse che dopo aver rinunciato alla conversione cattolica (vedi condanna del proselitismo) si punta su conversioni socialmente più “desiderabili”?
Naturalmente, una soluzione che punti sui prezzi non cambierebbe in nulla il nostro “stile di vita”, continueremmo a scegliere sulla base della nostra “convenienza” anziché sulla base della nostra “coscienza ecologica”. Questo, mi rendo conto, puo’ andar bene per chi ha come nemico il riscaldamento globale ma non per chi ha come nemico il capitalismo.