Cuddly or cut-throat capitalism: Choosing models in a globalised world | vox:
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lunedì 24 marzo 2014
martedì 5 febbraio 2013
Il liberismo yankee come patrimonio dell’ umanità
[attenzione: post con link!]
Il cuore tenero dei “sinceri democratici” di tutto il mondo avanzato è in tumulto, una preoccupazione non da poco lo tormenta: l’ asperrima diseguaglianza sociale che regna nella superpotenza americana.
Il fenomeno diventa di giorno in giorno più sgradevole e la risonanza internazionale di un movimento come Occupy Wall Street sta lì a testimoniarlo.
Certo che a ben vedere si tratta di un allarmismo non sempre facile da spiegare: la povertà negli USA è meno diffusa e meno severa rispetto a quella che riscontriamo in molti altri paesi del mondo. Le diseguaglianze sono certamente elevate per un paese ricco ma non possono essere definite “estreme” se si prende a riferimento lo standard internazionale.
Sfortunatamente, le preoccupazioni “progressiste” promuovono poi politiche che, pur volte in buona fede (?) a ridurre la povertà in USA, rischiano di aumentarla nel resto del mondo.
Il fenomeno per cui ridurre il numero dei poveri incrementerebbe la povertà globale getta il neofita nello sconcerto pur essendo noto da tempo agli studiosi. Vediamo allora meglio il meccanismo sottostante che favorisce un effetto tanto perverso.
Gli USA sono sempre stati uno dei paesi più innovativi del pianeta, da sempre esportano tecnologia ovunque. Cio’ è dovuto, almeno in parte, alla cultura della competizione sfrenata e al sistema economico liberista che regna laggiù. Il welfare striminzito consente una bassa tassazione e la bassa tassazione assicura che i benefici per chi lavoro sodo, prende rischi e intraprende, siano maggiori che altrove. La deregolamentazione dell’ economia, inoltre, garantisce l’ assenza di rendite di posizione per chi si afferma. Insomma, non è consentito riposarsi sugli allori; qualsiasi persona di talento puo’, se è in grado di farlo, partire con la sua impresa e ribaltare lo status quo.
Al contrario, l’ imprenditore che “osa” ed è fortunato non è certo ricompensato a dovere in quei paesi che scelgono di dirottare gran parte della ricchezza prodotta verso “i meno fortunati”, oppure che ingessano i loro mercati infarcendoli di regole, le quali finiscono – senza volerlo (oppure volendolo?!) – per ostacolare i processi di distruzione creativa messi in moto dagli innovatori.
Ora, non voglio dare giudizi su quale sia la politica migliore, ognuno faccia come crede, voglio solo formulare ipotesi che trovo sensate, per esempio questa: puo’ darsi che addolcire le spigolosità di una società competitiva migliori il benessere di un certo numero di americani ma rende senz’ altro più costoso sperimentare in vari campi vari: dalla scienza al business, dalle arti alla robotica…
La sperimentazione e le innovazioni che ne conseguono generano enormi e durature “esternalità positive” poiché possono poi essere copiate ovunque a basso costo e arricchire così la vita di molti uomini sparsi sull’ intero pianeta. Ci sono e ci saranno sempre tentativi di contenere l’ effetto positivo delle innovazioni in modo da compensare più adeguatamente l’ innovatore, ma si tratta di tentativi falliti e destinati perlopiù a fallire anche in futuro: non esiste un diritto o una tecnologia per trattenere e rivendere la gran parte della ricchezza e delle opportunità prodotte. Cio’ significa che da sempre l’ innovatore è anche benefattore netto per l’ umanità.
Tanto per tenere alta l’ attenzione, veniamo alla cronaca spicciola. In questo periodo si parla molto di crescita e in Italia non manca mai chi nei dibattiti alla TV si riempie la bocca con espressioni del tipo “bisogna far ripartire i consumi”, oppure “ci vuole una politica industriale adeguata”. Ma lo vogliamo capire o no che la “crescita” dipende solo dal grado di innovazione? O, in alternativa, dall’ imitazione parassitaria dell’ innovazione altrui. Proprio Domenica lo spiegavano bene sul Corriere due economisti:
… nel dopoguerra la politica industriale governativa fu un elemento sostanziale della nostra rinascita economica, tanto è vero che l’ IRI fu presa ad esempio da altri paesi come il Giappone che creò il MITI (ministero del commercio e dell’ industria)… ma si trattava di tempi molto diversi. Italia e Giappone erano all’ inizio della loro esperienza industriale, non era necessario inventare cose nuove, bastava importare tecnologia dagli Stati Uniti e riprodurla, possibilmente facendo meglio di chi l’ aveva inventata. Fu così per l’ acciaio: l’ impianto siderurgico di Taranto fu copiato dalle acciaierie texane di Houston e suscitò l’ ammirazione degli americani stessi… oggi crescere per imitazione non è più possibile perché siamo troppo vicini alla “frontiera tecnologica”… oggi si cresce innovando e non imitando, in questo contesto la mitica “politica industriale” serve a poco… come puo’ un funzionario di stato capire quali settori avranno successo? Vi immaginate quattro alti papaveri dell’ IRI che in un garage s’ inventano Apple? O un azzimato impiegato del Ministero che chiede udienza al suo capo per illustrargli il “progetto facebook”?…
La competizione all’ ultimo sangue e il liberismo selvaggio danneggeranno giusto qualche americano (200.000? 300.000?) ma le ricadute positive beneficiano più o meno direttamente milioni di persone in tutto il mondo, anche perché i benefici di un’ innovazione non si esauriscono alla produzione ma si accumulano riversandosi generosamente sulle generazioni future.
Purtroppo, una sempre maggiore fetta della spesa governativa americana viene oggi destinata alla redistribuzione verso i bisognosi, alla sanità, alla protezione sociale, alle pensioni, eccetera. L’ ingrigito Obama è la classica figura impiegatizia che incarna bene il crescente trend verso la spesa parassitaria. Questa spesa non investe sul futuro e non genera benefici a cui possa poi accedere il mondo intero. Si limita a premiare una ristretta cerchia di americani, e poiché si tratta di benefici che devono essere finanziati dalle tasse di altri americani, tutto cio’ si traduce in disincentivi al lavoro, all’ investimento e all’ innovazione.
E quando saremo tutti “parassiti” che succederà? A chi succhieremo il sangue? Da chi ci faremo “trainare”? La decrescita felice sarà a quel punto una necessità più che una scelta.
Morale, chiunque fosse interessato a combattere le diseguaglianze globali senza pensare che un manipolo di americani debba essere posto su un piano superiore rispetto a milioni di persone che hanno il solo torto di vivere fuori da quei confini, dovrebbe riflettere prima di augurarsi che gli USA s’ incamminino sul serio verso un modello di stampo europeo. Un’ economia di tipo “estrattivo” porterebbe con sé quella sclerotizzazione in cui il vecchio continente è incagliato da anni. Se cio’ accadesse, forse non sarebbe lecito parlare di “catastrofe americana” - su questo punto, sia chiaro, sospendo il giudizio - di sicuro sarebbe una catastrofe di portata globale.
Qualche anno fa si parlava di “locomotiva americana”, mi chiedo dove possa mai arrivare un treno (un mondo) fatto solo di vagoni. In questo senso gli “spietati conservatori” del Tea Party sono molto più compassionevoli degli illuminati progressisti di Occupy Wall Street. E sempre guardando le cose da quest’ ottica, spero che l’ UNESCO si decida quanto prima a dichiarare il laissez-faire-cut-throat a stelle e strisce Patrimonio dell’ Umanità intera.
P.S. Una trattazione scientifica di questi temi si trova qui.
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