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martedì 16 novembre 2010

Libri che leggono altri libri

Ci sono alcuni libri che, per me, hanno un doppio valore.

Primo, perchè mi piacciono e godo nel leggerli.

Secondo, perchè mi hanno fatto riscoprire altri loro "fratellini" che dapprima mi avevano deluso.

**

Quello che a molti capita con i Promessi Sposi a me capitò con Mobydick.

Ripensando a quell' avventura direi che il "senso del dovere" è una qualità preziosa per il cittadino. Ma non per il lettore.

E' il "senso del dovere", prima ancora della scuola in sè, a rovinarci molte esperienze di lettura.

Per un malinteso senso del dovere, diversi anni fa, presi in mano Mobidick. Ma di mano mi scappò, tant' è che cadde in terra. Lo raccolsi ma cadde di nuovo.

Il Capolavoro non si lasciava impugnare. Come mai?

Sarà perchè quando i capolavori sono tali all' inizio della lettura anzichè alla fine, non si riescono mai a stanare e restano celati dietro spesse cortine.

A nulla valgono torrenziali prefazioni, scrupolose note a piè di pagina, efficaci sintesi, originali percorsi critici. Sempre sfuggenti restano.

Si direbbe persino che chi ci incoraggia verso di loro tema in segreto che anche noi si possa partecipare al godimento della bellezza.

Quasi che la bellezza del capolavoro sia una torta data da dividere tra tutti. Per ciascuno che si aggiunge al tavolo la fetta si assottiglia.

Nel frattempo Achab correva dietro la balena cumulando frustrazioni e io correvo dietro ad Achab ancora più deluso.

In quelle condizioni cosa potevo fare? Mi dibattevo goffamente...impigliato nelle gomeme, ancorato dalle ancore, arpionato come un San Sebastiano, bloccato sulle sartie preda delle vertigini.

Reso così il contesto, si puo' ben capire perchè arrivai in fondo alla mia impresa "doverosa" con spirito loffio e felicemente dimentico di tutte le pagine che mi lasciavo alle spalle.

Ascoltavo distratto le urla di Achab in attesa della mia liberazione e la mia liberazione arrivò con l' ultimo rigo dell' ultimo capitolo.

***

Quindici anni dopo, aggirandomi per librerie ormai lettore anarcoide privo di ogni "senso del dovere" e governato solo da istinti e curiosità transuenti, feci il mio incontro con la corrente pulsante del fantasmagorico "battezzatore" caraibico Derek Walcott.

E' stata questa specie di "Oh Capitano, mio Capitano" che mi ha istruito su come cavalcare la salsa onda oceanica. Che mi ha insegnato a domarne la veemenza e a gridare con la giusta impostazione di voce: "all' abbordaggio!!"

L' incessante filo di febbre che gli accende la pupilla, il suo verso informe, opulento e dilagante, mi ha convertito definitivamente alle sproporzioni della Parola Epica.

Una parola gremita di ambizioni e che deve uscire sbrodolante dalla conchiglia delle labbra...ormai quella lezione mi si è fissata in testa con la solidità di una paranoia.

Non pensavo che alla mia età potesse nascermi dentro questo ulteriore piccolo "io", un fratellino. Non te l' aspetti davvero di germogliare ancora in tempo di morte.

Grazie a lui ho toccato con mano la dismisura di una lingua inventata apposta per nominare esseri che oltrepassano le nostre facoltà.

...Le Balene Bianche, tanto per dirne una.



Tutto cio' ha avuto parecchie conseguenze.

Per esempio: con uno spintone selvaggio sono stato ributtato a bordo del Pequod. Si (ri)salpa e si guadagna all' istante il mare aperto. Ma questa volta sento l' odore pungente di ogni alga nel cervello.

La mia astenia di fronte alle pagine di Mobydick è un ricordo del passato.

Sotto la paterna scorta dell' Omero negroide che mi siede accanto, trovo il coraggio per riprendere in mano il Grande Classico. E il Grande Classico si ridesta dal torpore prendendomi saldamente tra le sue bibliche mani.

I libri di Walcott, tutti insieme, fanno ressa intorno spiegandomi per filo e per segno ogni paragrafo del Mobydick. L' egida della sua vasta mano negra si posa sul mio capino e io mi sento onniscente: capisco tutto. Lo capisco subito.

Ormai mi hanno talmente "introdotto" che Achab è per me come un Fratello della Costa con cui spartire il bottino; la portentosa schiena del Capodoglio, invece, mi è talmente familiare che l' accarezzo con lo sguardo come fosse il mio pesce rosso vinto al luna park...

Missione compiuta quindi: il Mobydick è letto con gusto, assimilato, metabolizzato e apprezzato.

Quindici anni e anch' io ho stanato l' abissale e maligna bellezza di questo grande libro/balena.

Valeva proprio la pena di aspettare per poter fare il viaggio più avventuroso con un compagno come il mitico Derek.

giovedì 20 dicembre 2007

La conversione dei Caraibi

Scrivo con la percezione dilatata che lascia l' incontro ancora fragrante con il verso di Walcott, vate antillano dalla scrittura ventilata che, senza fermarsi mai, ondeggia sulla pagina alla stregua di un palmizio caraibico. Il suo rigo sa farsi fungo allucinogeno dalle spore non omologate.


E ce ne sono tanti di righi salmastri in quel suo magistrale poemone dove con ricchezza immaginifica strabordante si mette in scena lo strazio di una conversione ai valori occidentali della sua gente. Uno strazio che ci fa leggere con la mandibola smollata.


Sono righi da cui non ci va di staccare gli occhi, li sorvegliamo anche allontanandoci da loro, anche quando sono diventati ormai niente più che un corteo di formichine nere in marcia verso una meta per cui abbiamo perso interesse.


Una ridda di righi rumorosi e itraprendenti, ognuno vuole proiettare il suo cinema, ognuno è disposto a tutto pur di dare sulla voce all' altro. Si affollano sgomitando davanti alla pupilla sconcertata del lettore.


Troppi forse per reggere la densità sonettistica a cui li sottopone il vate, per sopportare l' irruenza metaforica con cui carica ogni pagina al punto da renderci ponderosa la sfogliata. Pagine che ci spiace abbandonare alla loro sorte, meritevoli come sono di essere ulteriormente dissodate dal vomere di cento riletture.


Che rischio riversare tutte quelle calorie sul palato del degustatore bulimico! Si finisce prima per sorprenderlo, poi per deliziarlo, poi per inebriarlo, poi per stordirlo; infine per allucinarlo. Poi, per...per "dilatarlo". Scrivo dopo aver superato l' ultima soglia di quest' ultimo stadio. Ne tenga conto il perplesso che già scuote la testa.


Una poesia immersa nella piaga slabbrata e formicolante di cuori negri che stanno al mondo senza radici. Che hanno una loro economia nobilmente stagnante fatta di acque glauche arate dalle reti, di corde muschiose e barbute strattonate da muscoli guizzanti come delfini. Un economia dove il remo viene lasciato oziare a lungo. Un' economia accompagnata dal ritmo della bofonchiante abitudine figlia dell' esperianza.


Umanità ancora avvolta nel timore riverente verso un creato da ringraziare per le sorprese elargite ogni giorno che dio manda in terra.


Cuori negri sospesi tra la ritmica pace di onde benedicenti e l' anarchico frizzare della schiuma che si arriccia nella risacca.


Cuori babbuini tremanti come pioppi nell' aria in un timore della cui sacralità ci accorgiamo solo ora che barcolla, sbiadisce e cede a forze imperscrutabili che la estinguono.


In questa festa continua carica di infezioni contagiose, passa inosservato persino il trito stereotipo dell' umiliazione imposta dalla volgarità dei tempi.


Sia dannato chi lo risveglia menzionandolo quando pensa, così facendo, di agganciare un commento appropriato alla lunga teoria di versi ispirati che ci sfila di fronte prostandoci con la fatica che danno al palato i cibi resi squisiti dall' eccessivo sapore che li carica.


Le sete di fantastiche donne arroganti dalla bellezza ferina varcano un paesaggio talmente splendido che guardarlo ci affranca dalla macina della storia.


Una bellezza cresimata da Vescovi plenipotenziari, una sinuosità ciprigna fatta di bolle acquatiche, pronta a svanire come le meduse trasparenti.


Nello stesso momento in cui ringraziamo per tutto questo spettacolo, ecco che cominciamo a perderlo. Le mani, enormi come alberi, dei coralli ci congedano. La risacca è niente più che una bianca linea astratta. Perdiamo il legno rimpiazzato dai cementi, perdiamo la crudeltà delle razzie spinte via dalla tristezza della prostituzione, perdiamo il ballo della pupilla indagatrice sostituita dai torpori oculari indotti dalla soddisfazione materiale, perdiamo la freschezza dei fanghi a cui si preferisce il calore delle lamiere, perdiamo l' esaltazione di droghe misteriose per affogarci nell' alcol della grande distribuzione.


Poi, in un soprassalto, allo scoccare di una scintilla, ci precitiamo verso l' incorruttibile che sentiamo abitare ancora la negra periferia. "Dov' è la nostra casa?". Via, via, il cuore sfinito dai libri reclama una nuova impraticabile libertà. Qesta nostra utopia - che è il nostro pio errore - saprà consolarci con l' allucinazione del verso che segue.Scrivo con la percezione dilatata che lascia l' incontro ancora fragrante con il verso di Walcott, vate antillano dalla scrittura ventilata che, senza fermarsi mai, ondeggia sulla pagina alla stregua di un palmizio caraibico. Il suo rigo sa farsi fungo dalle spore non omologate.


E ce ne sono tanti di righi salmastri in quel suo magistrale poemone dove con ricchezza immaginifica strabordante si mette in scena lo strazio di una conversione ai valori occidentali della sua gente. Uno strazio che ci fa leggere con la mandibola afflosciata.


Sono righi da cui non ci va di staccare gli occhi, li sorvegliamo anche allontanandoci da loro, anche quando sono diventati ormai niente più che un corteo di formichine nere in marcia verso una meta a cui possiamo disinteressarci.


Una ridda di righi rumorosi e itraprendenti, ognuno vuole proiettare il suo cinema, ognuno è disposto a tutto pur di dare sulla voce dell' altro. Ce ne sono proprio tanti.
Troppi forse per reggere la densità sonettistica a cui li sottopone il vate, per sopportare l' irruenza metaforica con cui carica ogni pagina al punto da renderci ponderosa la sfogliata. Pagine che ci spiace abbandonare alla loro sorte, meritevoli come sono di essere ulteriormente dissodate dal vomere di cento riletture.


Che rischio riversare tutte quelle calorie sul palato del degustatore bulimico! Si finisce prima per sorprenderlo, poi per deliziarlo, poi per inebriarlo, poi per stordirlo; infine per allucinarlo. Poi, per...per "dilatarlo". Scrivo dopo aver superato l' ultima soglia di quest' ultimo stadio. Ne tenga conto il perplesso che già scuote la testa.


Una poesia immersa nella piaga slabbrata e formicolante di cuori negri che stanno al mondo senza radici. Che hanno una loro economia nobilmente stagnante fatta di acque glauche arate dalle reti, di corde muschiose e barbute strattonate da muscoli guizzanti come delfini. Un economia dove il remo viene lasciato oziare a lungo. Un' economia accompagnata dal ritmo della bofonchiante abitudine figlia dell' esperianza.


Umanità ancora avvolta nel timore riverente verso un creato da ringraziare per le sorprese elargite ogni giorno che dio manda in terra.


Cuori negri sospesi tra la ritmica pace di onde benedicenti e l' anarchico frizzare della schiuma che si arriccia nella risacca.


Cuori babbuini tremanti come pioppi nell' aria in un timore della cui sacralità ci accorgiamo solo ora che barcolla, sbiadisce e cede a forze imperscrutabili che la estinguono.


In questa festa continua carica di infezioni contagiose, passa inosservato persino il trito stereotipo dell' umiliazione imposta dalla volgarità dei tempi.


Sia dannato chi lo risveglia menzionandolo quando pensa, così facendo, di agganciare un commento appropriato alla lunga teoria di versi ispirati che ci sfila di fronte prostandoci con la fatica che danno al palato i cibi resi squisiti dall' eccessivo sapore che li carica.


Le sete di fantastiche donne arroganti dalla bellezza ferina varcano un paesaggio talmente splendido che guardarlo ci affranca dalla macina della storia.


Una bellezza cresimata da Vescovi plenipotenziari, una sinuosità ciprigna fatta di bolle acquatiche, pronta a svanire come le meduse trasparenti.


Nello stesso momento in cui ringraziamo per tutto questo spettacolo, ecco che cominciamo a perderlo. Le mani, enormi come alberi, dei coralli ci congedano. La risacca è niente più che una bianca linea astratta. Perdiamo il legno rimpiazzato dai cementi, perdiamo la crudeltà delle razzie spinte via dalla tristezza della prostituzione, perdiamo il ballo della pupilla indagatrice sostituita dai torpori oculari indotti dalla soddisfazione materiale, perdiamo la freschezza dei fanghi a cui si preferisce il calore delle lamiere, perdiamo l' esaltazione di droghe misteriose per affogarci nell' alcol della grande distribuzione.


Poi, in un soprassalto allo scoccare di una scintilla, ci precitiamo verso l' incorruttibile che sentiamo abitare ancora la negra periferia. "Dov' è la nostra casa?". Via, via, il cuore sfinito dai libri reclama una nuova impraticabile libertà. Qesta nostra utopia - che è il nostro pio errore - saprà consolarci con l' allucinazione del verso che segue.