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lunedì 29 luglio 2024

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lunedì 6 novembre 2017

L’omaggio di un anticomunista viscerale

L’omaggio di un anticomunista viscerale

Cosa vi passa per la mente quando pensate allarivoluzione russa di ottobre, quella di cui ricorre proprio in questi giorni il secolare anniversario?
Difficile farsi un’idea di eventi tanto grandiosi. Tuttavia, poiché è noioso e difficile entrare nello specifico, posso comunque riferire la cornice entro la quale mi viene spontaneo pensare a certi movimenti della storia.
Visto che è giusto giocare a carte scoperte, dirò di sentirmi da sempre un “anticomunista viscerale” e di considerare l’evento festeggiato come una delle più grandi sciagure attraversate dall’umanità moderna. Probabilmente la più nefasta in assoluto.
Ancora oggi sono in pochi a conoscere le malefatte dei regimi comunisti, e sono in molti – troppi – a considerare il comunismo un ideale che non siamo stati abbastanza virtuosi da praticare.
La colpa sarebbe insomma dell’uomo, non dell’insanguinata ideologia.
***
Nel ventesimo secolo l’Unione Sovietica batte tutti per numero di civili sterminati. Segue la Cina.
Nella classifica dei macellai del novecento, tra i primi 10 paesi,  ben 5 sono comunisti. Fonte R.J. Rummel “Death by Government“.
La turpe graduatoria in sintesi: Unione Sovietica, Cina comunista, Germania nazista, Cina nazionalista, Giappone Imperiale, Cambogia dei Khmer Rossi, Turchia dei giovani turchi, Vietnam comunista,  Polonia, Pakistan sotto Yihya Khan. Eccetera. Ci sono altre classifiche con variazioni minime, a volte viene fuori un documento e Mao fa il “grande balzo” passando in testa. Quel che conta però è la sostanza difficilmente scalfita.
Ma c’è un’altra cosa che conta: di questi massacratori, solo i nazisti godono dellareputazione che  meritano. Peccato.
Vediamo più nel dettaglio quali sono stati i più macroscopici atti criminali compiuti dai regimi comunisti, e chi ne fu il responsabile.
In genere si pensa che quando arrivano i rossi a tremare debbano essere i borghesi e le classi abbienti.  Nei fatti sono stati i contadini e la popolazione rurale a soffrire più soprusi.
Molto comune anche la pratica della pulizia etnicanei confronti di minoranze considerate “sleali” verso la rivoluzione. I comunisti hanno una passione per le “colpe collettive”.
Ma la pratica dello sterminio poteva interessare anche i “compagni” rivali. I socialisti se le sono sempre date di santa ragione tra loro.
Si può discutere a lungo se sia più immorale uccidere per l’etnia o per l’ appartenenza ad una certa classe sociale (e dopo lo faremo), di sicuro quando un bambino deve morire perché i suoi genitori sono ebrei o perché suo padre possiede un paio di mucche, fare differenze è un atteggiamento a dir poco gretto.
Come uccidevano i comunisti? Le loro morti erano di tre tipi.
Primo, morti dovute alle condizioni estreme del lavoro condotto in schiavitù nei campi di concentramento.
Secondo, morti per carestia indotte.
Terzo, morti per esecuzioni dirette.
I campi di concentramento hanno assunto fin da subito un ruolo centrale nei regimi rossi. Lavori molto dispendiosi come scavare canali, abbattere foreste,  estrarre minerali dal sottosuolo diventano alla lunga mortali se abbinati a condizioni climatiche estreme, scarse razioni di cibo e vestiario inadeguato.
Ai tempi di Lenin il tasso di mortalità nei campi era tra il 10 e il 30%, il che significava per chi vi entrava una vita media di 5, 6 anni. Auguri. Ma forse crepare era meglio.
Possiamo considerare queste morti alla stregua diassassinii?
Al processo di Norimberga Adolf Eichmann parlava di “naturale diminuzione” dei prigionieri, e i suoi giudici si affrettavano a rubricare tali morti come assassinii nazisti. Con un imputato diverso sulla sedia, ecco che si tergiversa.
Il campo di concentramento  è stata  un’ arma che i comunisti hanno perfezionato, esteso ed esportato. Ma la pratica veramente originale in cui furono maestri fin dall’inizio e di cui hanno detenuto il monopolio quasi assoluto è stata la morte percarestia indotta.
La collettivizzazione consisteva in estrema sintesi nel sequestrare il più possibile ai contadini per poi dare loro in cambio il meno possibile. Quando il contadino non sottostava le truppe governative passavano alle vie di fatto imponendo con la forza il “patto leonino”.
La carestia era l’esito naturale di queste pratiche. Allorché venne offerto soccorso internazionale per le popolazioni allo stremo, Stalin lo respinse. Con lui i morti di stenti furono circa 7 milioni. Pressappoco lo stesso numero di contadini ribelli moriva nei campi di concentramento siberiani.
La storia si ripetè in Cina con la collettivizzazione maoista, e rimane un triste leitmotiv di tutti i regimi comunisti del novecento.
Le carestie indotte erano chiaramente intenzionali, almeno nel caso di Stalin, in altri casi erano comunque il frutto come minimo di una malevole indifferenza.
Lenin, per esempio, intervenne solo quando gli effetti collaterali della carestia misero a rischio il suo regime.
Passiamo alle vittime di esecuzioni dirette: non possono essere paragonate per numero alle vittime dei campi e delle carestie, ma detto questo furono comunque sovrabbondanti. Non ci si risparmiò di certo.
A suo tempo Zinoviev, un alto ufficiale bolscevico,  parlò chiaro: “dei 100 milioni di abitanti della Russia Sovietica possiamo portarne con noi 90, per gli altri c’è poco da fare, occorre che siano annientati”.
Si può ben dire che Zinoviev non  parlasse  a vanvera, la sua minaccia trovò completaattuazione.
Da un lato il comunismo sovietico annientò molte vite, dall’altro fece in modo che la vita non fosse di molto preferibile alla morte. La libertà dimuoversi, anche all’interno dei confini nazionali, fu severamente limitata. La libertà di espressione, di coscienza e di religione è stata soppressa senza pietà.
I comunisti avversavano il principio della libertàeconomica, del diritto di proprietà e del diritto adintraprendere. Si tratta di attività  che oggi consideriamo a pieno titolo appartenenti alla libertà di espressione umana.
Possiamo affermare con una certa sicurezza che i regimi comunisti, ovunque siano intervenuti, abbiano sistematicamente soppresso qualsiasi tipo di libertà individuale. Solo la Società contava, per loro.
Distinguere tra comunismo e comunismo è spesso un sofisma, ma molti ci si sono messi di buzzo buono. Per costoro distinguere tra Lenin e Stalin,per esempioè operazione dovuta quanto decisiva!
Ancora oggi su Radio e TV notiamo la patetica presenza di commentatori che quando ti aspetti che pronuncino la parola “comunismo” regolarmente saltano fuori con la parola “stalinismo” 😦 Credono forse di cavarsela a così basso prezzo?
Due parole allora su  Lenin, il padre della rivoluzione che celebriamo.
Una serie di malori e la prematura morte nel 1924 gli regalò di fatto solo un quinquennio per operare a capo del regime. Ma gli bastò abbondantemente per anticipare tutte le mosse del suo vituperato successore.
Forse evitò giusto le purghe nei confronti dei colleghi rivoluzionari,  per il resto aprì con cura e dedizione tutte le strade poi percorse in modo trionfale da Stalin.
Anche a parole non faceva che considerarenecessario un massacro su larga scala affinché l’utopia si realizzasse appieno senza essere soffocata nella culla.
Perché mai non credere a quel che lui stesso disse? Malfidenti!
Il messaggio di Lenin in sintesi : “guerra ai kulaki senza pietà”; “morte ai nemici della rivoluzione”; “chiederemo ad ognuno : con chi stai in questa guerra: con noi o contro di noi? Se sarà contro lo metteremo al muro eliminandolo fisicamente affinché non sia di intoppo”.
Con un capo del genere immaginatevi la truppa.
Ma forse eravamo così vicini ad un evento bellico cruento che simili deliri potevano passare inosservati.
Ad ogni modo Lenin non fu un democristiano e passò ben presto dalle parole ai fatti. Per attuare il suo piano utilizzò tutte e 3 le armi di sterminio viste sopra.
La polizia segreta di Lenin- la Cheka – fu pioniera nello sviluppare il moderno campo di concentramento. La sua azione fu grande fonte di ispirazione che per i nazisti che non finirono mai di studiarlo e imitarlo.
A titolo indicativo, il numero di persone spedite al campo secondo Richard Pipes fu di 50.000 nel 1920 e di 70.000 nel 1923; inutile dire che la gran parte di costoro non sopravvisse.
Tra i prigionieri contiamo borghesi, contadini ma anche membri di altri “socialismi”   come per esempio i menscevichi o i socialisti rivoluzionari. Ben rappresentate erano anche le etnicità tradizionalmente ostili ai bolscevichi, come per esempio i cosacchi del Don. Nei periodi più duri il tasso di mortalità in questi campi si aggirava tra il 10 e il 30%.
Questa capillare organizzazione fu la base dello schiavismo stalinista.
Ma la grande maggioranza dei morti che Lenin ha sulla coscienza fu il frutto delle carestie indotte. Il capopopolo cercò sempre di presentare questi fatti come “eventi sfortunati“, la realtà era ben altra, ovvero un misto di stupidità e crudeltà.
Sequestrando l’intero frutto del lavoro nei campi e lasciando solo le briciole, era facile attendersi un drastico calo della produzione agricola. I sotterfugi utilizzati per nascondere parte della produzione, poi, furono usati a pretesto per violente azioni dimostrative che esacerbarono il conflitto. La lotta agli “evasori” era una cosa seria, molti nostri politici ne sarebbero estasiati.
La Cheka e l’esercito cominciarono a colpire duro i traditori, che di fatto erano il popolo delle campagne. L’esito di questa guerra ai contadini fu devastante.
Stime conservative delle vittime da carestia leniniana si aggirano intorno ai 3 milioni,  ma molte – probabilmente più attendibili – arrivano fino a 10.
Sotto il tallone di Lenin le vittime di esecuzioni diretta – grazie anche alla contiguità con il tempo di guerra – furono moltissime. Le esecuzioni sommarie dei cosiddetti “nemici di classe” diedero vita a quel funesto interregno che va sotto il nome di “terrore rosso”. Ogni rivoluzione ha il suo terrore, non dimentichiamocelo, ma quello leninista fu particolarmente duro e prolungato.
I morti ammazzati di questo periodo si aggirano tra i 100.000  e i 500. 000, sebbene  le caotiche condizioni  tipiche del tempo di guerra rendono piuttosto difficile questa macabra contabilità.
La messa a morte dei borghesi e degli zaristi era la norma, ma anche gli oppositori di Lenin pagarono un pedaggio durissimo, sebbene il meglio – dobbiamo ammetterlo – dovrà ancora venire.
A proposito, e il compagno Stalin?
Nessun essere umano ha ucciso quanto lui nel ventesimo secolo, e probabilmente nella storia dell’uomo.
Prese in mano il sistema concentrazionario già organizzato da Lenin e lo trasformò in un impero di morte trasferendo la gran parte delle operazioni nell’amena Siberia.
La lotta contro kulaki e borghesi fu nei fatti unordine amministrativo che trasferì con la forza un’ampia massa di uomini, donne e bambini dalle loro abitazioni ai campi di concentramento siberiani, dove erano destinati a lavorare fino alla morte. In pratica ad essere torturati fino alla morte.
Un contabile prudente potrebbe affermare che i campi di concentramento staliniani fecero un numero minimo di morti che si aggira intorno ai 10 milioni, considerando però che questa cifra può essere facilmente raddoppiata o triplicata senza perdere di credibilità.
Ma Stalin fu anche un tristo innovatore essendo il primo ad ordinare l’esecuzione in massa di “compagni comunisti” che sentiva come minaccia (era piuttosto suscettibile). Parlo delle purghe.
Dei 1966 delegati al congresso del 1934, ben 1108 furono arrestati nell’arco dei successivi 5 anni per “crimini contro la rivoluzione”.
Questo lo spiccio modo  di far politica tipico del compagno Stalin.
Ma il vero capolavoro di Stalin furono le carestie trasformate in arma politica tramite l’amplificazione del loro orrore.
Il principio era chiaro e in parte vi ho già accennato parlando di lenin: un certo ammontare di grano doveva essere trasferito all’autorità politicaindipendentemente dai bisogni dei contadini. Una legge del 16 ottobre 1931 proibiva poi la detenzione  di riserve per i bisogni personale prima che le soglie di collettivizzazione fossero raggiunte. Bastò mantenere elevate queste soglie per condannare a morte una moltitudine di famiglie.
Le soglie più elevate non venivano riservate ai territori  più produttivi, come logico, ma a quelli politicamente ostili, a testimonianza che il piano fosse più politico che economico. Non ci fu alcuna carestia, tanto per dire, nella parte più ricca della Russia,  d’ altra parte a soffrire furono le regioni dell’Ucraina, le province della Volhynia e della Podilia. L’opera dello storico Robert Conquestillumina su questa orribile fase drammatica del comunismo sovietico.
Ci sono poi le deportazioni etniche, altra specialità dei compagni sovietici. Tra la popolazione di etnia tedesca espulsa dall’Europa dell’est dopo la seconda guerra contiamo oltre 2 milioni di morti. In questo caso Stalin condivide la responsabilità politica con i governi comunisti di Polonia e Cecoslovacchia. Per chi è avido di particolari rinvio all’opera dello storico Alfred Maurice de Zayas.
Nel frattempo, in patria, Stalin si stava dando molto da fare con le purghe interne: ci furono circa 1 milioni di esecuzioni nel periodo 1936-1939 ( grande terrore).  Stimando invece la sua azione complessiva su questo fronte arriviamo comodi alla cifra di 5 milioni. E la guerra era finita da mo’. Come concludere? Come minimo osservando che le correnti di partito sono una cosa seria quando parliamo di partito comunista.
Stalin fece fuori quasi tutti i suoi compagni della guerra civile: Trotsky, Zinoviev, Kamenev, Rykov, Tomsky e anche Kirov.
Il comunismo sì e forse dato una calmatanell’epoca post staliniana? In termini assoluti sì (non c’era più carne da macello dopo il passaggio di due tipetti come Lenin e Stalin. La pace regnava sul deserto). In termini relativi non direi.
Se paragonati al periodo zarista, personaggi comeKrushchev, Brezhnev, nonché gli ultimi leader rimangono pur sempre degli assetati di sangue.
I morti ammazzati tra il 1953 e il 1991 sono circa 100/200.000. La maggior parte ungheresi e cecoslovacchi che si opponevano all’ impero sovietico.
Il tasso di mortalità dei campi diminuiva passando dal 10-30% dell’ epoca staliniana al 5/6% dei tardi anni 50 per poi attestarsi sul 2/6 percento negli anni 60.
Possiamo ben dire che le condanne dell’Occidente contro la violazione dei diritti umani cominciarono quando il peggio era da tempo passato.
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Chi non ricorda la comica vicenda con cui quelli de “Il Manifesto” annunciarono la loro fuoriuscita dal PCI?
Lo ritenevano troppo vicino ai sovietici… mentre loro preferivano… la Cina :-).
Che dire allora degli idoli di Rossana Rossanda e Luigi Pintor? Che dire del compagno Mao?
Come macellaio se la vede con Stalin, e considerati i margini di errore non è detto che la spunti; di certo riesce a distanziare di diverse lunghezze il buon vecchio Hitler.
Per un quarto di secolo fu lo spietato tiranno della nazione più popolosa del mondo. Diciamo che aveva molta “carne umana” su cui esercitarsi.
Nei suoi campi di concentramento moriva ogni anno il 5-10% dei residenti. Era forse più ospitale di Stalin? No. Era più interessato a che i “lavori” venissero portati a termine. Senza contare le condizioni climatiche più favorevoli.
Nel conto complessivo delle vittime dei campi arriviamo comunque a 10 milioni di morti, una cifra del tutto ragguardevole.
Un ex prigioniero dei campi cinesi come Harry Wuha fatto molto per investigare la loro  storia segreta e la loro persistenza anche in era moderna. Nel suo lavoro più importante “Laogai: the chinese gulag“, Wu stima che ancora recentemente le persone costrette a lavori forzati toccassero i 16 20 milioni, sebbene ulteriori suoi approfondimenti ridimensionano questi numeri. Tra gli schiavi Wu considera che il 10% fossero oppositori politici.
La rivoluzione culturale su cui riponevano le loro speranze gli illusi de “Il Manifesto” consisteva essenzialmente nel distruggere la tradizione del passato, la vita famigliare, la proprietà privata, la privacy, ogni iniziativa personale e ogni tipo di libertà individuale. Poi cominciava il lavaggio del cervello. Lo racconta bene Rummel nel suo libro “China Bloody Century“.
Dal 1959 al 1963, circa 30 milioni di cinesi perirono in seguito alle carestie “artificiali”.
E quelli del Manifesto? Secondo loro carestie del genere non possono esistere in un paese tanto bene organizzato. Evidentemente non avevano letto ancora Laslo Ladani “The communist party of China and Marxism: 1921-1985”.
Mao intervenne in colpevole ritardo con la politica del “Grande Balzo in Avanti” che alleviò in effetti le sofferenze di molti. Ma non quella di chi non aveva più alcuna sofferenza da alleviare.
Ancora nel 1989, i comunisti cinesi sterminavano i contestatori di piazza Tienanmen in un numero che va dai 2 ai 12 mila. Un classico.
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Il comunismo non ha la sola caratteristica di aver inflitto immensi danni all’umanità ma di averlo fatto ovunque si sia proposto.
Fuori da Unione Sovietica e Cina, infatti, le cose non sono andate meglio.
I regimi comunisti di Polonia e Cecoslovacchia, immediatamente dopo la seconda guerra mondiale, presero spunto dal metodo-Stalin (d’altronde erano stati messi lì da lui e comandavano dei paesi satelliti). Il buon Stalin aveva dato l’esempio deportando interi popoli  considerati “sleali” come i tartari della Crimea, i ceceni, i tedeschi del Volga e molti altri ancora. Cecoslovacchia e Polonia si dettero da fare con i popoli di etnia tedesca presenti sui loro territori. Non facevano altro che spostarli come se fossero i pedoni di una dama continentale, intanto quelli, quasi per dispetto, crepavano come mosche. Un’unica pedante precisazione che però mi sembra valga la pena: in Cecoslovacchia questa gente rappresentava il 25% della popolazione e nella maggioranza era presente fin da prima della guerra.
Sul piano teorico le precedenti operazioni di Stalin avevano fissato un importante precedente per l’utilizzo del concetto di “colpa collettiva” da attribuire in base all’etnia o alla classe sociale. Si tratta di questioni approfondite nel lavoro di Robert Conquest: “The Soviet deportation of nationalities“.
In Vietnam il longevo dittatore Ho Chi Minh si dichiarava stalinista a parole e nei fatti.
Mentre  combatteva con i francesi, era impegnato contemporaneamente anche in una sporca guerra interna contro i nazionalisti non comunisti. Qui si dedicò al  massacro di interi gruppi di nazionalisti senza risparmiare parenti, amici, donne e bambini. Ma i nazionalisti non furono le sole vittime, tra i nemici di classe figuravano anche i trotzkisti non allineati all’ortodossia stalinista. Migliaia tra i più istruiti e brillanti vietnamiti furono spazzati via tra il 1945 e il 1947 affinché il partito potesse stabilire un potere assoluto sul paese. Lo studioso R. J. Rummel si è occupato di queste vicende nel suo “Death by government“.
Secondo lo storico Tallies tra il 1953 e il 1956 circa un milione di vietnamiti del nord scelsero la fuga a sud mentre un decimo di quel numero seguì liberamente il tragitto opposto.
Cambogia. In ogni altro paese con una popolazione di circa 7 milioni di abitanti un tristo figuro come Samrin sarebbe stato il più grande macellaio della storia. Tuttavia, le imprese di Samrin impallidiscono rispetto a quel che seppero fare le cosiddette forze di liberazione dei Khmer Rossi guidati da Pol Pot, il comunista più coerente che la storia di questa ideologia abbia conosciuto.
I Khmer Rossi portarono la visione totalitaria di Mao un passo oltre: in aggiunta a forzare i contadini verso la collettivizzazione delle fattorie e alla condivisione di tutto quanto fosse condivisibile (in un assurdo progetto a privacy zero), Pol Pot si prese la briga di deportare la popolazione urbana della Cambogia in queste comuni rurali da incubo.
Scrisse Lo storico Paul Johnson: “l’intento era quello di realizzare in poche settimane il cambiamento sociale che in Cina aveva avuto luogo in 25 infernali anni”.
Tutto il passato del paese doveva essere esorcizzato e distrutto, ciò era necessario per “costruire”l’uomo nuovo di cui parlava Marx nella sezione più delirante della sua opera. Ciò implicava lo sradicamento, attraverso il terrore ed ogni altro mezzo, del senso comune che la tradizione e le istituzioni consuete avevano inculcato nei cambogiani.
Jugoslavia. Il maresciallo Tito fu uno dei pochi comunisti jugoslavi  in esilio in Urss che riuscì a scampare le purghe staliniane. Sulla coscienza ha il sangue di molte vittime innocenti, la guerra gli fornì le condizioni ideali per sterminare quella parte del suo popolo che si opponeva alla dittatura (sua). Infatti, diversamente da molti leader comunisti che furono collocati nella stanza dei bottoni dall’unione Sovietica solo dopo la seconda guerra, Tito prese il potere con le sue forze fin da subito.
Con lui le esecuzioni e i campi di concentramento furono impiegati su larga scala per accelerare l’ ascesa dei comunisti e, come in Polonia e in Cecoslovacchia, una quota sostanziale dellaminoranza tedesca fu espulsa. Anche noi italianiconosciamo i suoi metodi sbrigativi.
Le vittime innocenti fatte da Tito si aggirano circa intorno al milione. Fonte: Rummel
Corea del nord. Il paese si è talmente rinserrato nel suo incubo comunista  che risulta persino difficile stimare in modo attendibile le sue malefatte nonché i morti sulla coscienza del despota Kim II Sung e dei suoi successori.
Considerando però le modalità operative del regime e facendo un parallelo con Unione Sovietica e Cina possiamo attribuire induttivamente ai comunisti coreani circa un milione di morti innocenti.
Vi state annoiando? Anch’io. Il fatto è che la parabola del comunismo è quasi sempre la stessa ovunque, quindi ci tocca ripeterla di continuo aggiornando solo le cifre dei morti. Non è che se parliamo di Congo, Angola, Iraq, Laos, Cuba o Venezuela la musica cambi di molto. Se posso permettermi mi fermo qui garantendo che ovunque nel mondo  assistiamo solo a variazioni sul medesimo tema. E purtroppo è un tema di marcia funebre.
***
Torniamo ora all’epoca in cui l’idea comunista comincia ad affermarsi nella realtà politica. Il che significa sostanzialmente tornare a Lenin. Sì perché quando parliamo di rivoluzione di ottobre è a lui che pensiamo.
Lenin non fu affatto un “dittatore per caso”, lo fu  per principio.
Come molti marxisti di allora, Lenin auspicava la “dittatura del proletariato“.
Lenin asserì esplicitamente che per un periodo indefinito di tempo un’avanguardia di saggi era necessaria per forgiare ed educare la massa dei lavoratori. Noi diremmo “fare loro il lavaggio del cervello”.
Nel nuovo sistema che aveva in mente tutti i cittadini dovevano essere trasformati in “lavoratori dello stato” e questa metamorfosi doveva realizzarsi in punta di baionetta eliminando la parte più restia.
Allorché i contadini si dimostrarono riluttanti, per esempio rifiutandosi di consegnare interi raccolti, Lenin li minaccio fino a perpetrare lo sterminio che aveva promesso.
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Marx? Che dire di lui?
Marx fu un personaggio più ambiguo di Lenin, un po’ perché scriveva in modo meno chiaro, un po’ perché non detenette mai alcun potere concreto. Nonostante questo il suo spirito totalitario era decisamente pronunciato.
Per lui la dottrina dei diritti dell’uomo era sbagliata perché attribuiva dei diritti a soggetti egoisti. Per lui libertà di religione e proprietà erano diritti superficiali. La libertà di coscienza non era altro che una libertà di “falsa coscienza”. Una iattura, insomma, più che un bene.
Il diritto di proprietà era per Marx il diritto di godere di una fortuna e di disporne a proprio piacimento senza riguardo per gli altri e per la società, ciò conduceva l’uomo a guardare al suo prossimo non come alla realizzazione di se stesso ma come un limite alla propria libertà.
Sebbene una moltitudine di scienziati sociali sono stati in disaccordo con il pensiero di Marx preso nel suo complesso, in molti  hanno apprezzato le sue riflessioni sulla libertà umana, la profondità delle sue intuizioni in opposizione alla superficialità del pensiero liberale.
Ma a cosa condusse l’attacco al principio per cui “la nostra libertà finisce dove inizia quella degli altri”? Essenzialmente a limitare la libertà di chi non arrecava danni ad alcuno.
Se i limiti alla libertà divengono vaghi e arbitrarisi finisce per dare mano libera al dittatore di turno.
Lenin non si inventò la dottrina della “dittatura del proletariato“. Questa fu una creazione di Marx e scaturì in modo naturale dalla sua critica al liberalismo.
Il programma comunista si rivelò fin da subito alquanto “faticoso” da attuare. Potremmo dire “innaturale”. Lo storico Carl Landauer: “gradualmente diventava sempre più evidente che la transizione dal capitalismo al socialismo avrebbe comportata non mesi o anni ma decadi”. Purtroppo questo segnale non fu percepito e non convinse i dittatori rossi a desistere.
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Il totalitarismo è da sempre il marchio di fabbrica  di ogni socialismo che si rispetti. La critica alla libertà borghese e l’anelito verso un mondo in cui il governo elimini le libertà economiche e civili tipiche del capitalismo caratterizza i regimi comunisti, ma si trova diffuso un po’ in tutti i generi di socialismo, da Rousseau a Saint-Simon, da August Comte a Ferdinand Lassalle ea molti altri.
I Khmer Rossi della Cambogia, per esempio, rovesciarono l’enfasi marxista sul proletariato urbano idealizzando la vita contadina, al punto da trasformare il paese in una immensa campagna. Su queste opzioni scellerate quanto stravaganti non si può non sentire l’eco di un autore scellerato quanto stravagante come Jean Jacques Rousseau.
C’è una legge che accompagna da sempre il viaggio del socialismo sulla terra: quanto più l’ideale era alto, tanto più era utopico. Quanto più l’ideale era utopico, tanto più necessitava di autoritarismo e controllo totale della società.
Il fascismo è un tipico movimento di sinistra, il suo legame ideologico con il socialismo è più che solido, come ha ampiamente dimostrato nel dettaglio il più importante storico del fascismo, ovvero Renzo De Felice.
Dal 1914 Benito Mussolini, il leader del Partito Socialista italiano, fu il chiassoso proponente di un socialismo rivoluzionario piuttosto che riformatore, non a caso riceveva l’appoggio entusiasta di Lenin.
Mussolini ammetteva che la sua posizione era un ibrido tra nazionalismo e socialismo, tuttavia non mancava di far notare come quest’ultimo termine fosse stato ormai svuotato di senso raccomandandone nell’abbandono dopo aver precisato però di sentirsi l’erede del meglio di quell’ ideologia e di volerne conservare la parte più vitale. Diceva inoltre che le sue obiezioni al socialismo erano indirizzate a quelle forme di socialismo che si erano irrigidite in dogma e risultavano incapaci di adattarsi alla realtà contingente dei fatti. Per lui i socialisti che il nome dell’ideologia abbandonano la loro nazione, non solo mancano ai loro obblighi rispetto ai molti che invece per la nazione sono morti, ma violano anche lo spirito e la miglior tradizione del socialismo rivoluzionario. Un buon libro per vagliare il Mussolini socialista è quello diJames Gregor “Young Mussolini and intellectual origins of fascism”.
Possiamo allora considerare Benito Mussolini un socialista radicale divenuto nel tempo un socialista pragmatico e di buon senso. Un socialista moderato.
L’eresia fascista  prosperò non perché ripudiò i principi di fondo del socialismo ma perché Mussolini seppe liberarsi della parte più ingenua e infantile del pensiero marxista.
La scomunica al fascismo data da Stalin e dal Comintern non fu affatto una scomunica ideologica visto che al fascismo veniva accomunato    il trotskismo. Entrambe venivano considerate eresie socialiste.
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Qualche impavido si spinge a sostenere che il socialismo realizzato puo’ anche essere pacifico, e cita l’esperienza israeliana dei Kibbutz.
Direi che non ci siamo: intanto il kibbutz oggi come oggi attrae una percentuale della popolazione intorno all’ 1%, io questo lo chiamerei “fallimento su tutta la linea della sperimentazione socialista”.
Il socialismo non attrae nemmeno come campeggio estivo!
Ma poi, nel caso del kibbutz, eviterei di parlare di socialismo per parlare piuttosto diassociazionismo.
La superiorità dell’ideologia liberale si manifesta nel momento in cui evita di porsi sullo stesso piano dell’ideologia socialista per fare un passo indietro.
In soldoni questo significa che in un sistema liberale puoi scegliere di fare il “socialista” ma in un sistema socialista non puoi scegliere di fare il “liberale”. Il liberalismo vince sul piano della simmetria: chi sceglie di entrare in un kibbutz non sceglie il socialismo ma sceglie di giocare a fare il socialista. La società liberale glielo consente.
***
Ho sentito che molti, alla ricerca disperata di attenuanti, accennano alle atrocità delle controparti, per esempio, a quelle dei “bianchi” contro i “rossi” nella rivoluzione di ottobre, o a quelle dei nazionalisti contro i maoisti. Ma anche a quelle delle potenze democratiche.
Qui il discorso deve essere chiaro: la guerra è un brutto affare dove tutte le vacche sono grigie,cosicché, se vogliamo isolare per bene le differenze, dobbiamo vedere al “dopo”, a come si comporta il vincitore.
Ebbene, i comunisti si sono rivelati ovunque deipessimi vincitori, la parte più turpe dei loro crimini si è vista “dopo”, quando hanno cominciato ad organizzare l’economia in modo assurdo sopprimendo i ribelli, quando hanno cominciato a “costruire” l’uomo nuovo con lavaggi del cervello per espellere la “falsa coscienza”. Insomma, ripeto, sono stati dei pessimi vincitori.
L’equivalenza morale tra nazismo e comunismo
Sia Stalin che Mao  uccisero più persone  che Hitler e il suo regime nazista. Questo costituisce un elemento che almeno in prima battuta equipara moralmente nazismo e comunismo.
La distinzione più frequentemente proposta è quella di chi considera i comunisti degli idealisti non all’altezza della loro utopia.
Uno può sostenere che in fondo i comunisti anelavano ad un mondo dove tutte le persone potessero vivere insieme in armonia, mentre i nazisti sognavano un mondo dove una razza dominatrice regnasse suprema.
Secondo l’ambasciatore stalinista degli Stati Uniti all’epoca, Joseph Davis, il progetto sovietico avrebbe potuto funzionare con la religione cristiana posta a suo fondamento e presentato come sforzo di ricerca di una sorta di fratellanza universale. Ebbene, questo non sarebbe mai stato possibile nel caso, per esempio, del regime nazista.
È l’argomento delle “buone intenzioni” a cui si risponde di solito su un quadruplice piano.
1) l’affermazione per cui il socialismo sia un ideale di cui l’uomo non è all’altezza è tecnicamente errata e qui ne abbiamo parlato a lungo. Qui ho trattato la questione nel dettaglio.

2) Possiamo dire che molti individui sono sia illusi idealisti  che brutali assassini.
Parlo di un tipo psicologico particolare che nella cultura anglosassone va sotto il nome di “true beliver”. E’ il primo ad unirsi con entusiasmo alle crociate più cruente, all’inquisizione più scellerata, allo sterminio di ebrei e kulaki. Come disse in modo icastico Solgenitsin: “per fare il male un uomo deve innanzitutto credere che sta facendo il bene”.
È proprio appellandosi ai valori cristiani che gli agenti più spietati dell’Inquisizione fortificavano la loro volontà. Allo stesso modo il conquistatore  esalta la sua patria, i coloni esaltano la loro civiltà, i nazisti la loro razza, e i giacobini gli ideali di uguaglianza e fraternità. Ognuno ha bisogno di unvessillo per compiere il male.
Hitler recriminava che i comunisti facessero un’efficace proselitismo presso i suoi. Sapeva bene che chi era attratto dal nazismo non poteva che essere attratto anche dal comunismo. Diceva: “ci sono molte più cose che ci uniscono al bolscevismo di quante ce ne siano che ci separano, a partire da un senso genuino per la rivoluzione” (citazione tratta da Hermann Rauschning: ” Hitler parla”).
3) Sia i nazisti che i comunisti sognavano la “fratellanza universale“, da realizzarsi dopo lo sterminio su larga scala  dei gruppi umani che minacciavano la loro utopia.
Così come i nazisti immaginavano una Germania idilliaca liberata dalle razze inferiori, I comunisti sognavano un mondo in armonia liberato dai reazionari.
4) C‘è poi il fattore cronologico: in ordine di tempo il comunismo è venuto prima del nazismo e per molti versi è stato per quest’ultimo una fonte di ispirazione. Uno dei massimi storici del nazismo come Ernst Nolte ha considerato le camicie brune come una reazione allo spauracchio della ferocia comunista. È  chiaro che in presenza di un connessione cronologica forte le responsabilità etiche ricadano su chi viene prima.
Un’ulteriore prova dell’equivalenza morale dei due movimenti l’abbiamo nel periodo che va dal 1939 al 1941 quando la Germania nazista e l’Unione Sovietica stabilirono un’alleanza di ferro. Il pattoMolotov-Ribbentrop fu ufficialmente un trattato di non aggressione ma le sue clausole occulte prevedevano la divisione in parti uguali tra Hitler e Stalin dell’Europa orientale. Lo storico Paul Johnson racconta le confidenze di Ribbentrop al Cremlino: ” in mezzo ai nazisti mi sentivo come in mezzo a vecchi compagni”. Non fu un caso che quando si spartirono la Polonia applicarono praticamente le medesime politiche ai territori occupati. Le affinità caratteriali si riflettevano nelle affinità politiche.
Alcuni introducono un’altra distinzione sostenendo che i nazisti non furono socialisti autentici. Ma questo è alquanto dubbio, soprattutto alla luce del fatto che Hitler favorì ed impose un ruolo governativo nell’economia anche maggiore rispetto a quello dei socialdemocratici suoi predecessori. La cosa è ammessa senza problemi anche da storici socialdemocratici come Carl Landauer.
La politica economica di Hitler aumentò di molto la regolamentazione del commercio estero e dell’agricoltura imponendo un sistema di controllo dei prezzi a tutto campo, iniziò lavori pubblici di grande respiro e copiò i sovietici nella politica dei piani quinquennali. Lo storico che più si è occupato del socialismo hitleriano è stato David Schoenbaum nel suo libro ” Hitler’s Social Revolution”.
Il socialismo di Hitler era molto moderno rispetto a quello sovietico, era improntato ad un welfare lindo (che la Svezia si sogna ancora oggi) e ad una meritocrazia spietata, specie nella ricerca scientifica. Lettura obbligatoria: “Lo stato sociale di Hitler” di Aly Gotz
È pur vero che Hitler non realizzò quellasciagurata collettivizzazione di massa tipica del comunismo sovietico. Ma perché non lo fece? Le ragioni furono strategiche piuttosto che di principio. Come Hitler spiego a Hermann Rauschning non aveva alcuna intenzione di liquidare in massa la classe dei piccoli proprietari. Molto ragionevole, viene da dire.
Ma se comunisti e nazisti erano così simili nella propensione allo sterminio, nel fanatismo e nella politica economica, perché arrivarono ad odiarsitanto (eccezion fatta per il periodo 1939-1941)?
Non si capisce bene se una risposta a questa domanda sia necessaria, anche perché nella storia sono innumerevoli gli esempi di conflitti sanguinosi tra persone praticamente d’accordo su tutto su tutto: cattolici contro protestanti e stalinisti contro trotzkisti sono i primi esempi che mi vengono in mente.
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Che dire infine del comunismo italiano, per molti così diverso, per molti la prova provata che il comunismo non è malefico nella sua essenza. D’altronde siamo il paese occidentale che ha avuto il più importante partito comunista (e si vede, viene da dire)!
partigiani comunisti contribuirono senz’altro alla lotta di resistenza e di liberazione dal fascismo.
Per renderli presentabili e non chiamarli “comunisti” fu addirittura introdotto nella terminologia politica il termine “antifascismo”. Non si trattava di comunisti ma di antifascisti.
Tuttavia, ciò non significa che non avessero in mente per il “dopo” un regime ancora peggiore di quello fascista.
La cosa è alquanto probabile: innanzitutto, si legarono fin da subito all’ Unione Sovietica, un ottimo compagno di merende.
Da Stalin ricevevano ordini  e finanziamenti cospicui fino agli anni 80, come riporta nel dettaglio il libro di Valerio Riva: ” L’oro di Mosca“. Altro che tangentopoli.
In secondo luogo,   nell’immediato dopoguerra diedero inizio alla tipica carneficina di pragmatica con cui i comunisti sono soliti eliminare sangue freddo i loro nemici politici.
Si fermarono forse perché  diversi dagli altri comunisti? Si fermarono per uno scrupolo etico?
No, si fermarono per ordine di Stalin (grazie babushka!), che aveva le sue brave motivazioni geopolitiche.
Nella liberazione italiana, infatti, le forze partigiane ebbero un ruolo marginale, poco più che simbolico, i reali liberatori furono gli americani cosicché il paese ricadde sotto l’area di influenza della superpotenza a stelle e strisce. I comunisti nostrani non poterono quindi agire come in Cecoslovacchia,   Polonia o in Jugoslavia. Stalin lo sapeva e dette l’ordine a Togliatti di collaborare alla stesura di una costituzione cosiddetta “progressiva“, ovvero una costituzione democratica particolarmente adatta a trasformarsi nel momento opportuno in una costituzione socialista sullo stile di quella sovietica.
Per questo e non per altro la Costituzione italiana è “la peggiore del mondo”! L’Italia, tanto per dire, non si fonda sulla libertà o sulla felicità o sulla dignità dell’uomo. No, si fonda nientemeno che sul… lavoro! Siamo un paese dove, contro tutti i principi dell’economia, il lavoro è un diritto. Ma anche un dovere! Se sopravviviamo ancora è solo grazie al fatto che la costituzione viene  continuamente vilipesa, elusa e inattuata.
Una legge fondamentale tanto perversa ha costituito per mezzo secolo una zavorra insopportabile per un paese già fragile come il nostro. l’Italia, pur agganciata al treno giusto, è rimasta, se togliamo quei paesi sotto dittatura fino agli anni 70 ( Spagna, Portogallo e Grecia), il vagone di coda.
Sempre meglio che polizie segrete, omicidi, carestie e campi di concentramento, inutile dirlo.
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