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lunedì 19 dicembre 2011

Dire la diceria

Anna Maria Ortese – Il cardillo addolorato

… sprofondiamoci ora in maestosi racconti ingarbugliati e lenti, che sembrano chiedere di essere seguiti con distratta attenzione se non franco disinteresse… lunghe storie a più voci dove le date non coincidono, dove nulla coincide… memorie sempre al limite della chiacchiera… con al fondo una menzogna di base e molte aggiunte dell’ immaginazione popolare a questo nucleo insignificante… sola difesa, a volte, un’ intuizione fulminea che per un attimo tutto ricompone miracolosamente prima di abbandonarci…

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In questa Napoli snervante e imbarocchita tutto è sfarzo e grandezza; ovunque miraggi, imbrogli, febbri e venti lunari. In questa Napoli, crogiolo di capre e coupés, i vicoli si attorcigliano strangolando chi tenta di mapparli razionalmente; le storie - che fioriscono ovunque, persino nel bel mezzo di una frase già opulenta – proliferano fino ad asfissiare chi è poco incline all’ incanto, chi non è protetto da una certa storditaggine dello spirito, nonché chi è animato da malsane voluttà di comprensione.

Regna un convulso disordine borbonico, complicati e ridicoli fatti tessono una trama stellare. Un intrico di pregiudizi si annoda intorno a eventi volatili appannando i già deboli lumi della ragione.

Il signoraggio sul “mistero non buono de li cunti” si esercita al meglio sapendo reprimere la folla di interrogativi che le incongruenze fanno sorgere, ma anche e soprattutto nel ricordarsi sempre che dietro la burrasca non vi è nulla se non il glu glu di un’ acqua che si perde nel buco nero dello scolo.

Ingegno, eleganza e stile di vita sono branchie imprescindibili per respirare in questo acquario crepato. Il sogno e lo scherzo  si rovesciano di continuo l’ uno nell’ altro, la gaia vita partenopea è concepita come infinito piacere mondano. Nulla si produce, tutto si dona ma non per generosità, bensì al fine di indurre nel beneficiato una miscela di piacere e dispetto. Nulla si dice se non la diceria, ci si insulta con colate laviche d’ improperi che rimpiazzano d’ un botto placidità atarassiche, ci si ammala solo di malattie alla moda. Ammalarsi di languore, per esempio, è cosa molto ambita.

Entrati nel radioso golfo mediterraneo si è invasi dal profumo molle e stordente di una primavera che spinge a bighellonare su una scena di cartapesta in cui tutto è fermo, tutto stagna. Tutto tranne i pensieri nella nostra testa, nessuno di loro sembra disposto a riposarsi. Un qualche Spirito del Male e del Bello ha trasformato i nomi dei protagonisti in soprannomi e l’ esistenza in nulla più che un vezzo retorico:

senza retorica, nulla di serio e di vero puo’ essere detto mancando quel falso che è misura e supporto del vero…

La realtà esiste solo affinché vi si aggiunga qualcosa: un orpello, un fregio, una voluta, uno stucco. Ma la decorazione più gradita resta il pettegolezzo che taglia i panni addosso. Il bordone atroce del pettegolezzo continuo, quello più felice di esagerare in sospetti e giudizi, è sempre scortato da curiosità impietose che sono il propellente per farlo “viaggiare”, e da false indignazioni che gli rendono onore ovunque passi. Ogni evento è lavorato da instancabili lingue. Il contenuto del loro messaggio puo’ variare ma per tonificare curiosità e indignazione nulla di meglio che riferire un mortal dolore per felicità altrui.

… l’ orribile patimento di un cuore per il di più che crede di intravedere in un altro… questo insondabile mistero da cui muove l’ Universo… questo mistero nessuno, solo la religione, chi l’ abbia, puo’ illuminare…

ABBATTUTO IL NIDO

Il fascino strano dell’ autoctono forse sta nel suo essere un grosso e rustico bambino dalle origini losche e servili. E’ persona superficiale e ordinaria; passionale e dispettosa; boriosa e indifferente; feroce e innocente; gelosa e benevola; superba e ignorante (simil capra): lo capisci da come stacca lo sguardo dal bello; per mantenersi intatto abita case prive di libri. Se concepisce un pensiero lo allontana da sé come estraneo alla sua natura; in fondo è affezionato ai suoi dolori, guai a offrirgli un sollievo. Una lieve crudeltà contrassegna ogni suo gesto, quasi sempre spregiudicato e infantile. Non ama e non si ama limitandosi a offrire al prossimo un mutismo esteriore e interiore che confonde e moltiplica le congetture.

Lo straniero non ha figli e ne è contento, giunge da terre ricche, solide, fredde e ragionevoli (Liegi?) è noiosamente riverito da gente che si occupa di lui per alleggerirgli il peso della felicità; viene quaggiù cercando di perdere la memoria e incontrare la bellezza. Quando ci riesce lo capisci a causa dei gridolini ammirati che emette. Trema per l’ assalto di troppe confuse emozioni, dopodiché si ritira febbricitante in camera sua dicendo che “non riceve”. Ad ogni modo è riconoscibile anche per la raffinata prodigalità con il servidorame (che lo giudica bestia dalla generosità contro natura) oltre che per gli occhi azzurri e allucinati e per il fatto di non reagire subito agli annunci terribili. Nell’ ira, infatti, sa che parlerebbe a vanvera non essendo in grado di esteriorizzare il tragico. Dà per scontato che Napoli non sia Europa e non distingue la popolazione autoctona dalla fauna sentendosi in dovere di ammirarla con gli occhi e criticarla con la testa.

 

domenica 7 settembre 2008

Napoli è una carta sporca...

Gli insulti sono in grado di trasportare un messaggio d' amore? Se devo basarmi sull' esperienza personale, seguendo quella via sono andato incontro solo a malintesi con relativi rovesci. Non ci sono precisazioni che tengano, peccato perchè devo ammettere una certa propensione naturale verso queste "dichiarazioni" sentimentali. Ma non è di me che voglio parlare, bensì della scrittrice Anna Maria Ortese. Ho la sensazione che con il suo famigerato libro su Napoli volesse tentare un numero del genere: sfoggiare il suo insopprimibile attaccamento mostrando a Napoli quanto fosse lurido e ripugnante quell' eccesso di umanità, quel modo di soggiacere alla vita anzichè di impugnarla come un arnese.

Nelle sue mani Napoli diventa un dio da adorare inventando sempre nuove bestemmie.



Napoli diventa una piaga purulenta su cui Dio s' incurva, ma solo per spargere altro sale.

Napoli appare come un bambino sporco e pieno di foruncoli, il suo naso è stipato da densi muchi. Quando dorme fa un rumore strano, come avesse delle bestie dentro. Poi si sveglia per un attimo, ti guarda cercando e lecca il catarro che gli cola dal naso con un sorriso dalla dolcezza rassegnata.

Napoli si muove come l' artritico a cui bruciano le ossa, è tale la tortura che non saprebbe più nemmeno dire dove prova dolore. Si ferma, si arrende gettando tutte le sue costruite lacrime come se fossero il sangue gettato da una vena aperta.

Napoli piange sempre; crolla il viso tra le mani pesanti, mani da faticatore improduttivo destinato alla disoccupazione, con la pelle marrone e squamata.

Napoli risparmia ogni sforzo per nascondere il dolore che la imbruttisce. L' imbuto viscido sul fondo del quale riposano i suoi cortili disadorni. I muri lebbrosi fitti di miserabili balconi. E in mezzo alla corte quel gruppo di cristiani cenciosi e deformi, coi visi striati dalla miseria e dalla rassegnazione, che ti guardano amorosamente e infidamente. Anche i bambini aprono occhi da vecchio instupiditi dall' indifferenza.

Napoli ci fa entrare nel suo grembo con mille cerimonie ed è come entrare alla Messa Grande di Natale. Le grida dell' organo e i furori dei canti ci intontiscono. Il bianco e il rosso dei paramenti sono un' aggressione, il tremolio dei lumini ci disorienta rendendoci incerti. La testa è appestata dall' afrore dei gligli e delle rose, misto a quello funebre dell' incenso. Guadagnamo l' uscita cercando con avidità l' aria modesta di tutti i giorni.

C' è della stupidità nella mente di Napoli, ecco tutto. Una sonnolenza, l' effetto di uno sforzo sostenuto molti secoli indietro. Un' indolenza che non deriva solo dalle mollezze meridionali ma anche da un languore di sangue devitalizzato. Attende qualcosa Napoli, nell' abbondanza del tempo disoccupato se ne sta inerte riversa sul davanzale con la sigaretta in mano e il risucchio voluttuoso, il viso butterato dalle passioni e dalle noie dei giovani napoletani. Chiunque passi riceve il saluto untuoso, come se tornasse sempre da posti lontanissimi.

L' occhio del napoletano è mite. Mite come quello del cavallo da tiro che sente il carico appesantirsi ma non si volta indietro per scoprirne la causa, sa solo che deve sforzarsi per portare ciò che gli è toccato.

Napoli è una zitella che per compensare fa una vita da uomo e si veste elegante per nascondere la decrepitezza della sua figura spossata. La felicità è solo un rifluire di ricordi disordinato che procura smarrimento. Dopo una gioventù inerte e piena di cose futili, poco alla volta ha dovuto rassegnarsi ad una vita servile in casa della sorella maritata. E cresci questo bambino e cresci quell' altro, per le sue preoccupazioni personali non c' era più tempo. Qualora una speranza concreta dovesse affiorare viene subito stretta e soffocata dai timori goffamente nascosti dietro l' apparente incoraggiamento che Lei riceve da da coloro che capiscono fin troppo bene quanto l' equilibrio e la pace della famiglia si incrinerebbe se solo la colonna della casa s' intenerisse.

Napoli era piena di stizza e meschinità da giovane, ma la vita, confinandola ai più bassi posti, ha avuto ragione di quei difetti.

Napoli è circonfusa da un' aria stracarica di bellezza. Costretti a quel confronto le case e la vita degli uomini non possono che rivelarsi miseri e logori.

***

Siccome amo Napoli e capisco come si possa amare insultando, non ho avuto particolari problemi con il libro della Ortese, ma capisco anche la proscrizione inappellabile da cui è stata colpita e affondata.