Visualizzazione post con etichetta politica stereotipi. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta politica stereotipi. Mostra tutti i post

lunedì 2 dicembre 2019

COSA C'E' ALLE RADICI DEL RAZZISMO?

A quanto pare non c'è il pregiudizio.
Il collegamento tra razzismo e pregiudizio è alquanto dubbio, anche se il nesso figura nella maggior parte delle spiegazioni ingenue del fenomeno. La presenza di stereotipi a fondamento dei sentimenti razzisti è puntualmente ripresa da tutti i manuali di psicologia elementare e psicologia sociale. Tuttavia, anche una lettura veloce della letteratura disponibile sull'argomento ci spinge verso l'idea che gli stereotipi non spieghino alcunché.
L'equivoco si genera perché abbiamo una versione distorta del concetto di pregiudizio. Lo si considera come una sorta di mito rigido e altamente resistente al cambiamento. In particolare, siamo condizionati da vecchie teorie etnocentriche che stabilivano un collegamento robusto tra concezione ortodossa del pregiudizio e razzismo. Questa impostazione prevedeva, per esempio, che chi valorizza molto il proprio gruppo d'appartenenza tendeva a disprezzare gli altri gruppi. Ma esiste davvero una correlazione, per esempio, tra odio per lo straniero e sopravvalutazione del proprio gruppo di appartenenza? Diversi studi sono giunti alla conclusione che è alquanto debole se non inesistente. Pensare bene del proprio gruppo, in altre parole, non ha praticamente nulla a che fare con il pensare male degli altri gruppi. Non solo il favoritismo della propria "squadra" non è legato alla bassa considerazione delle altre "squadre" ma non esiste nemmeno la relazione inversa. E' più probabile la teoria contraria: l’autostima - ovvero un atteggiamento positivo per il proprio gruppo - ci spinge ad instaurare relazioni più sane con lo straniero. Vi è un corpus sostanziale di lavori che vede il sentimento "patriottico" come qualcosa di simile all'autostima, cioè una base sana per allacciare relazioni con il diverso. Secondo questa visione è difficile pensare bene degli estranei se non si pensa bene innanzitutto dei propri "vicini".
C'è poi la faccenda dell'accuratezza degli stereotipi. Già il fatto che siano differenziati per gruppo etnico è un indice di attenzione. Non esiste "lo straniero": ciò che si crede di un gruppo etnico non lo si crede di altri. Gli ebrei, ad esempio, sono visti come diversi dai neri. Gli asiatici potrebbero essere visti come "industriosi" e i neri come "sporchi" e così via. Altro indice che depone a favore dell'accuratezza: c’è accordo tra gruppi nel sostenere uno stereotipo, spesso l'accordo s estende al gruppo interessato dallo stereotipo. Ad esempio, in una situazione di laboratorio Callan e Gallois hanno scoperto che anglo-australiani, greco-australiani e italo-australiani mostravano tutti un alto livello di accordo sul fatto che gli anglo-australiani fossero "sportivi, felici, fortunati e di aspetto piacevole". Chi discrimina lo fa in modo molto differenziato, la persona che discrimina dal punto di vista razziale ha un pensiero complesso piuttosto che semplice.
Altra questione: gli stereotipi positivi fanno bene? Non sempre. Esempio, Viljoen scoprì che alcuni gruppi di neri sudafricani avevano una considerazione particolarmente elevata dei bianchi di lingua inglese, tuttavia erano i meno propensi ad integrarsi con loro. Più la considerazione dell'altro è elevata, più si mantengono le distanze. Lo stereotipo positivo allarga la distanza sociale e ostacola l’integrazione tra gruppi. Gli studenti bianchi con un' alta considerazione dei neri sono anche quelli che hanno più probabilità di opporsi ad una politica delle quote. La politica delle quote è invece spesso sostenuta da chi nutre, magari nascondendoli, pregiudizi negativi sulla minoranza. La semplice idea che gli stereotipi positivi siano buoni e gli stereotipi negativi cattivi si rivela una semplificazione fuorviante.
Gli stereotipi hanno anche una funzione positiva: se riesci a classificare le persone, devi fare meno sforzi per interagire in modo costruttivo con loro. Lo stereotipo è uno strumento conoscitivo, come la generalizzazione e l’astrazione. La guerra agli stereotipi in fondo è una piccola guerra portata al metodo scientifico. Gli stereotipi possono davvero avere un ruolo utile, sono un aiuto nel conoscere accuratamente i tratti chiave del "diverso" e consentono di gestire molte ambiguità. Lo stereotipo non fa che mettere a frutto l’informazione minima e ridurre l’incertezza. È una grande leva a nostra disposizione per esaltare le più minute informazioni in nostro possesso. La sua utilità lo rende talmente radicato nella natura umana che tendiamo a generalizzare anche quando ci viene detto che una certa info è specifica.
Tuttavia, ciò non significa che chi o impiega possieda una struttura mentale rigida. Al contrario, gli stereotipi sono approssimazioni continuamente aggiornate man mano che l'informazione affluisce. Lo stereotipo è un’approssimazione in itinere. Gli stereotipi si affievoliscono quando le informazioni sulla persona specifica ci raggiungono e vengono messi da parte laddove l'informazione è completa. Quando si rendono disponibili informazioni migliori di quelle contenute nello stereotipo, lo stereotipo viene abbandonato come guida all'azione. Gli stereotipi sono resistenti in quelle situazioni in cui le informazioni specifiche sono rare o poco adeguate, e comunque non saranno disponibili con sollecitudine. Ad esempio, di fronte a un nero sconosciuto incrociato in un vicolo buio, un bianco usa gli stereotipi, non sospende i suoi giudizi. Lo stereotipo persiste nelle situazioni anonime per aggiornarsi poi con la presa di contatto. Se lo sconosciuto di colore dice semplicemente "buongiorno" quando passa, lo stereotipo non avrà più alcun ruolo nell'interazione e svanirà nel nulla. In laboratorio il "nero" anonimo viene descritto dalle "cavie" secondo lo stereotipo: "sporco, pigro...". Quando i gestori dell'esperimento precisano la descrizione del soggetto presentandolo come un "nero istruito", le cavie immediatamente mutano i loro sentimenti e le loro reazioni. Il nero istruito è infatti descritto in termini molto simili a un bianco istruito.
Cos'è allora uno stereotipo? Lo definirei un processo di approssimazione successive verso giudizi accurati. Direi che fa parte a pieno titolo della razionalità bayesiana. Puo' iniziare contenendo pochissime informazioni accurate ma, man mano che si accumulano conoscenze ed esperienze, le informazioni diventeranno progressivamente più definite e vicine alla realtà che si vuole conoscere.
Eppure ci sono autori che hanno sostenuto la rigidità degli stereotipi. Costoro trascurano che non è affatto razionale abbandonare uno stereotipo in seguito ad un’eccezione: “una rondine non fa primavera“. Noi non abbandoniamo o rivediamo immediatamente una regola, aspettiamo piuttosto che si accumulino diverse eccezioni. Se i neri sono generalmente visti dai bianchi come pigri, un nero diligente non perturberà lo stereotipo. Se, tuttavia, si incontreranno molti neri diligenti, si verificherà un cambiamento radicale. Gli autori che sostengono la rigidità non colgono quanto sia razionale tollerare delle eccezioni, sono vittime di un’ idealizzazione popperiana della conoscenza.
Conclusione: lo stereotipo non è il primo passo verso il razzismo ma verso la conoscenza in generale, tanto è vero che anche il "tollerante" ha i suoi bravi stereotipi, solo che li nasconde.
Ma se i pregiudizi non spiegano il razzismo, quali sono le teorie alternative più promettenti? Forse la linea di ricerca da seguire è quella che punta sull'esaltazione del sentimento comunitario. In casi del genere lo "straniero", al di là del suo valore specifico, è visto come una fonte di perturbazione della coesione sociale. Un forte sentimento comunitario può facilmente evolvere in razzismo. In questo senso sono i pilastri della comunità i soggetti più a rischio. Un caso di studio interessante è quello svedese, lì una società omogenea e coesa ha nel tempo messo a punto istituzioni comunitarie solidali robuste che con l'arrivo dello "straniero" sono andate sotto pressione sollevando un'ondata di rigetto negli "indigeni". Si è dovuto ripiegare su livelli di politicamente corretto che a noi suonano parossistici. Ecco, il brodo di cultura dei paesi nordici è particolarmente favorevole alla nascita del razzismo, e la cosa non ha nulla a che vedere con ignoranza e pregiudizi.

domenica 24 marzo 2019

NEOMORALISMO

NEOMORALISMO
In politica non è che si dialoghi moltissimo. In genere, da due secoli in qua, funziona all’incirca così:
1) La Sinistra propone.
2) La Destra reagisce.
3) La Sinistra delegittima.
4) La Destra profetizza sciagure.
Si propone in nome della politica.
Si reagisce in nome della civiltà
Si delegittima alludendo agli interessi inconfessabili dell’altro.
Ci si lamenta ispirandosi alla letteratura.
Questo ping pong non era così male ma da qualche decennio è saltato il punto 3: ora si delegittima in nome della morale.
La stigmatizzazione è diventato lo specifico del discorso pubblico di stampo progressista, ci sono le “brave persone” da frequentare e le “cattive" da scansare. L'ubiquità della retorica stigmatizzante sostituisce l'argomento con insulti tipo: razzista, sessista, misogino, “hater” e islamofobo. Non si litiga più nemmeno a viso aperto, si borbottano questi epiteti mentre si rientra nel proprio gruppo d’appartenenza.
A cosa dobbiamo questa novità?
1) Le destra, dopo un secolo e mezzo della manfrina di cui sopra, non ha più molti interessi da difendere. L’accusa precedente ha perso di senso.
2) Le università (di sinistra) hanno preso il posto della civiltà (di destra). E' nelle prime che si fabbrica il prestigio.
2) La civiltà a cui ci si appellava la destra era quella che girava intorno alla famiglia; con il controllo della fertilità femminile, la scissione tra sesso e matrimonio e le innovazioni domestiche, quella roba lì si è disarticolata.
3) Il profluvio di info che ci piovono addosso ogni giorno nell’era IT richiede di essere “economicizzata” attraverso nuovi pregiudizi. Il neomoralismo è un produttore efficientissimo di questa roba.
Quando metti al centro lo stigma crei almeno un paio di effetti collaterali:
1) Polarizzazione e apartheid. Lo stigma è contagioso ed impedisce il rimescolamento; non ci si sposa tra “diversi”, non si lavora con i “diversi”, non si va in vacanza con i “diversi”… E se ti ritrovi intruppato tra “diversi”, o ti converti o falsifichi le tue preferenze.
2) Fare politica diventa essenzialmente iscriversi al giusto “club cognitivo”, quello che veicola il “pensiero prestigioso”. Se non si fa in tempo, si militerà con orgoglio nel club degli sporchi e cattivi che buttano in mare i bambini che scappano dalla guerra.
Un paradigma del genere spiegherebbe almeno un paio di cose:
1) Perché la sinistra è così spocchiosa e incoerente: sono tali tutti i moralisti che ricorrono di continuo all’argomento del prestigio e alla segnalazione della virtù.
2) Perché la destra è così becera: ha la reazione nel suo dna ma, non sapendo più in nome di cosa reagire, mena fendenti a vuoto.
(bibliografia a disposizione solo su richiesta)