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giovedì 27 novembre 2014
Critica all' economia
La migliore mette al centro l' innovazione. Il capitalismo è lo sviluppo per innovazione e non per accumulo di capitale.
La presenza dell' innovazione rende ancora più precari i matematismi dell' economia moderna.
L' innovazione sbaraglia i pessimismi classici: Malthus (sovrapopolazione) Ricardo (dominio dei proprietari terrieri) Marx (sfruttamento e salario di sopravvivenza) Marcuse (alienazione).
L' innovazione probabilmente sbaraglierà i pessimismi contemporanei: ambiente, irrazionalità, alienazione, diseguaglianze.
La tesi di Picketty: i soldi escono dai soldi, i ricchi saranno sempre più ricchi e le diseguaglianze si amplieranno. R>g.
Il pessimismo di P. attinge da Malthus, Ricardo e Marx. Tre studiosi di razza ma non proprio tre grandi profeti. Non ne hanno azzeccata una, specie Marx, lo scienziato sociale con il curriculum più fallimentare.
Da meditare: P. sostiene che i ricchi saranno sempre più ricchi ma non che i poveri saranno sempre più poveri. E in effetti il salario dei lavoratori è aumentato del 3000% nei due secoli di capitalismo. Il messaggio di P. è destinato quindi a preoccupare gli invidiosi più che i lavoratori egoisti.
Inoltre la relazione r>g (che esiste da sempre) non sembra collegata con le diseguaglianze, che nella storia vanno e vengono.
Recentemente sono cresciute? Ma molte sono da imputare ai governi, specie quando restringono la possibilità di costruire, oppure quando agevolano la residenza ai petrolieri arabi. Si tratta di misure benemerite, nessuno le critica, ma se ne prenda atto.
Ci sono poi posti al mondo dove la torta della crescita va interamente ai lavoratori, ne cito due: Corea del Nord e Somalia. Vi piacciono?
Purtroppo P. si cura delle diseguaglòianze e non del miglioramento degli ultimi, e così manca di dare una serie di dati essenziali. I salari sono aumentati del 2900% dal 1800 a oggi e l' innovatore incamera in profitti giusto il 2% della ricchezza che crea. Gran parte di questo arricchimento si è realizzato prima degli anni 40, ovvero senza welfare.
P non tiene conto della distruzione creativa e dei passaggi di mano del capitale.
oggi la diseguaglianza più allarmante è quella tra lavoratori: i neo ricchi lavorano 15 ore al giorno! E i compensi dei super manager? Bè, quelli sono lavoratori, solo dotati di grande capitale umano (un elemento completamente trascurato da P).
L' errore decisivo di P.: non tener conto di come risponde l' offerta all' aumento dei prezzi e all' addensarsi della ricchezza. Se un settore è particolarmente profittevole si moltiplicano gli accessi e le innovazioni per creare alternative.
Il concetto di diseguaglianza usato da P è quello illuminista francese. Grave errore non favorire quello scozzese quando la modernità si basa su quell' insegnamento.
Le definizioni di povertà su cui ci si basa sono poco serie e privilegiano il concetto fallato di "povertà relativa" ma questo è solo un modo per confondere le acque.
La distorsione principale di P. è di natura etica: lui non colpisce il capitalismo (che esiste da sempre) ma il liberalismo (libertà + dignità), ovvero una teoria etica che esiste da due secoli e che invita a tollerare le diseguaglianze in nome delle generazioni future.
In P. si reitera l' errore tipico della sinistra: la società è una famiglia. Tuttavia le differenze tra famiglia e società aperta sono enormi.
La lezione che traiamo: la peggiore destra è afflitta da un egoismo insanabile che fa fuori gli altri la migliore sinistra da un egoismo insanabile che fa fuori le generazioni future.
La presenza dell' innovazione rende ancora più precari i matematismi dell' economia moderna.
L' innovazione sbaraglia i pessimismi classici: Malthus (sovrapopolazione) Ricardo (dominio dei proprietari terrieri) Marx (sfruttamento e salario di sopravvivenza) Marcuse (alienazione).
L' innovazione probabilmente sbaraglierà i pessimismi contemporanei: ambiente, irrazionalità, alienazione, diseguaglianze.
La tesi di Picketty: i soldi escono dai soldi, i ricchi saranno sempre più ricchi e le diseguaglianze si amplieranno. R>g.
Il pessimismo di P. attinge da Malthus, Ricardo e Marx. Tre studiosi di razza ma non proprio tre grandi profeti. Non ne hanno azzeccata una, specie Marx, lo scienziato sociale con il curriculum più fallimentare.
Da meditare: P. sostiene che i ricchi saranno sempre più ricchi ma non che i poveri saranno sempre più poveri. E in effetti il salario dei lavoratori è aumentato del 3000% nei due secoli di capitalismo. Il messaggio di P. è destinato quindi a preoccupare gli invidiosi più che i lavoratori egoisti.
Inoltre la relazione r>g (che esiste da sempre) non sembra collegata con le diseguaglianze, che nella storia vanno e vengono.
Recentemente sono cresciute? Ma molte sono da imputare ai governi, specie quando restringono la possibilità di costruire, oppure quando agevolano la residenza ai petrolieri arabi. Si tratta di misure benemerite, nessuno le critica, ma se ne prenda atto.
Ci sono poi posti al mondo dove la torta della crescita va interamente ai lavoratori, ne cito due: Corea del Nord e Somalia. Vi piacciono?
Purtroppo P. si cura delle diseguaglòianze e non del miglioramento degli ultimi, e così manca di dare una serie di dati essenziali. I salari sono aumentati del 2900% dal 1800 a oggi e l' innovatore incamera in profitti giusto il 2% della ricchezza che crea. Gran parte di questo arricchimento si è realizzato prima degli anni 40, ovvero senza welfare.
P non tiene conto della distruzione creativa e dei passaggi di mano del capitale.
oggi la diseguaglianza più allarmante è quella tra lavoratori: i neo ricchi lavorano 15 ore al giorno! E i compensi dei super manager? Bè, quelli sono lavoratori, solo dotati di grande capitale umano (un elemento completamente trascurato da P).
L' errore decisivo di P.: non tener conto di come risponde l' offerta all' aumento dei prezzi e all' addensarsi della ricchezza. Se un settore è particolarmente profittevole si moltiplicano gli accessi e le innovazioni per creare alternative.
Il concetto di diseguaglianza usato da P è quello illuminista francese. Grave errore non favorire quello scozzese quando la modernità si basa su quell' insegnamento.
Le definizioni di povertà su cui ci si basa sono poco serie e privilegiano il concetto fallato di "povertà relativa" ma questo è solo un modo per confondere le acque.
La distorsione principale di P. è di natura etica: lui non colpisce il capitalismo (che esiste da sempre) ma il liberalismo (libertà + dignità), ovvero una teoria etica che esiste da due secoli e che invita a tollerare le diseguaglianze in nome delle generazioni future.
In P. si reitera l' errore tipico della sinistra: la società è una famiglia. Tuttavia le differenze tra famiglia e società aperta sono enormi.
La lezione che traiamo: la peggiore destra è afflitta da un egoismo insanabile che fa fuori gli altri la migliore sinistra da un egoismo insanabile che fa fuori le generazioni future.
venerdì 30 novembre 2012
Luce in fondo al tunnel
Maestro: (passando davanti alla vasca dei pesci rossi): beato quel pesciolino, guarda quanto è felice.
Discepolo: come fai a saperlo?
Maestro: come fai a sapere che non lo so?
C' è un punto in fondo all’ anima a cui accede solo l’ introspezione.
Siccome la felicità si deposita lì, risulta molto difficile misurarla, non parliamo poi se dovessimo fare confronti interpersonali.
Le difficoltà si moltiplicano anche perché confondiamo di continuo felicità e piacere: il piacere è un' onda nel cervello, la felicità è la soddisfazione interiore con cui raccontiamo la storia della nostra vita.
Per essere felici occorre un impegno esistenziale: è consigliabile immolarsi per cio' che si ritiene importante.
In questi casi la cosa difficile non sta tanto nell’ immolarsi quanto nel trovare qualcosa per cui valga la pena farlo.
E' impossibile dare importanza a compiti elementari: non ci si realizza schioccando le dita.
Molto meglio puntare su attività che ci chiedano sacrifici eccezionali compatibili con la nostra indole: una situazione in cui felicità e piacere coincidono solo in fondo al tunnel.
Discepolo: come fai a saperlo?
Maestro: come fai a sapere che non lo so?
C' è un punto in fondo all’ anima a cui accede solo l’ introspezione.
Siccome la felicità si deposita lì, risulta molto difficile misurarla, non parliamo poi se dovessimo fare confronti interpersonali.
Le difficoltà si moltiplicano anche perché confondiamo di continuo felicità e piacere: il piacere è un' onda nel cervello, la felicità è la soddisfazione interiore con cui raccontiamo la storia della nostra vita.
Per essere felici occorre un impegno esistenziale: è consigliabile immolarsi per cio' che si ritiene importante.
In questi casi la cosa difficile non sta tanto nell’ immolarsi quanto nel trovare qualcosa per cui valga la pena farlo.
E' impossibile dare importanza a compiti elementari: non ci si realizza schioccando le dita.
Molto meglio puntare su attività che ci chiedano sacrifici eccezionali compatibili con la nostra indole: una situazione in cui felicità e piacere coincidono solo in fondo al tunnel.
Di solito l' omino che misura la felicità spunta per le interviste proprio quando l' uomo sulla giusta via della felicità è oberato dai suoi sacrifici (lo è quasi sempre) e gli chiede a bruciapelo: lei è felice facendo quel che sta facendo ora? L' uomo felice - stressato, sudato, sotto pressione - lo manda a quel paese. A quel punto l' omino che misura la felicità segna la crocetta nell' ultimo quadratino in basso. Dopo qualche giorno l' omino che misura la felicità torna facendo la stessa domanda, ricevendo la stessa risposta e barrando la stessa casella.
Poi pubblica tutto con gran clamore.
http://www.tnr.com/article/politics/magazine/103952/happyism-deirdre-mccloskey-economics-happiness
http://www.bostonreview.net/BR37.6/claude_fischer_happiness_economics_psychology.php
P.S.: perché su questi temi preferire Haidt a Kahneman? Il primo ha un concetto complesso di felicità. Sufficientemente complesso da non renderlo misurabile.
P.S. illusioni ottiche nella misurazione della felicità: 1. siamo cattivi predittori affettivi 2. esiste il cosiddetto adattamento edonico 3. l' invidia conta più dell' egoismo in queste faccende
P.S. "possiamo anche fare una montagna di brain scan ma non saprò mai se le tue sensazioni quando vedi il colore rosso sono pari alle mie"
P.S. come si fanno i test? Domanda e risposta con tre opzioni: 1. infelice 2. felice 3. molto felice. Caso classico in cui significanza statistica e significanza scientifica divergono.
P.S. se vuoi considera pure gli studi sulla felicità ma non permetterti di usarli per elaborare policy: dovresti redistribuire dal brahmino al taccagno.
P.S. la felicità non è fungibile, è multipla e si manifesta su varie dimensioni. L' amore per mio padre non si coniuga con la voglia che ho di andare all' Università. Non si possono fare scambi qui.
p.s. esperimento mentale: vuoi connetterti alla macchina della felicità o tornare a casa? Rispondi e cerca di comprendere la natura della felicità.
p.s. gli studi seri non fanno regressioni ma studianoi casi da vicino. Risultato: la gente è felice quando esercita le virtù.
p.s. come rispondere a chi presenta i problemi del consumismo? Dicendo che sono i problemi di sempre. Tutte le società gli anno avuti. Rispetto al passato abbiamo solo più strumenti per realizzarci e più ambiti dove farlo.
p.s. nota bene, tutto il discorso sull' impossibilità di misurare la felicità è un discroso pro pil
giovedì 5 aprile 2012
Libri sull’ irrilevanza dei libri
Orma ci si sente in dovere di scovare una causa materiale per tutto: dietro ogni fenomeno si annida un gene, un neurone, un interesse (materiale, per l’ appunto) che lo spiega al meglio.
Il fatto curioso è che ci si sente anche in dovere di scrivere libri per annunciare al mondo le proprie scoperte e convincere il prossimo. Evidentemente si ripone una certa fiducia nelle proprie idee.
Un attimo, ma le idee non sono oggetti immateriali?
Per il materialista duro e puro “scrivere un libro” suona un po’ come un’ autodenuncia.
… after all, he and I write books trying to change people's minds. If we were consistent materialists we would put down our pens and start offering people large bribes to become xyz…
Deirdre Mccloskey parla di Matt Riedley
lunedì 6 dicembre 2010
domenica 24 ottobre 2010
Meditazione sul Vangelo del 24.10.2010
Vangelo secondo Matteo 28, 16-20
"In quel tempo. Gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che il Signore Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo".
Il Vangelo di oggi ci chiama a convertire i popoli della Terra. Dobbiamo correre e rispondere con entusiasmo all' appello.
Ma cos' è una conversione? Tutti sanno come finisce, ma pochi sanno l' essenziale: come comincia.
Comincia con un cambio di paradigma culturale: la Conversione è nient' altro che l' esito felice di una colonizzazione culturale. I nostri missionari più consapevoli, secondo me quelli del PIME, lo sanno bene e il loro lavoro in Africa è finalizzato in primo luogo ad un rinnovamento delle stantie mentalità che imbrigliano le energie di quel continente.
Come procedere? Comincerei con l' annunciare al pagano del XXI secolo la Libertà e la Salvezza dell' Uomo.
I due concetti si condensano bene in un concetto centrale "individualismo".
Rodney Stark ci ricorda che la cristianità per prima ha introdotto la nozione di "individuo" attraverso quella di "libero arbitrio" e quella di "salvezza personale". Mai prima nella storia l' individuo e i suoi diritti erano stati pensati con tanta forza. Un' esclusiva che ci deve rendere orgogliosi e su cui dobbiamo fare leva.
C' è ancora tanta diffidenza verso l' individuo, sia nei laicisti che nei popoli lontani, penso alla promettente Asia, alla disperante Africa e alla deludente America Latina. Persino nei cattolici riscontro questa diffidenza.
Con un sospiro di sollievo dobbiamo constatere di vivere oggi tempi fausti, tempi in cui segnali di un nuovo "inizio" si moltiplicano, soprattutto in Asia.
Per dirla con Deidre McCloskey: "... cosa credete che verrà ricordato dei nostri anni, la crisi finanziaria del 2008 oppure il fatto che la Cina nel 1978 e l' India nel 1991 abbiano adottato, almeno in economia, le idee occidentali?"
E' qui che comincia la conversione, non ci resta che pregare e lavorare mantenendo la barra a dritta: una volta che il mondo avrà riconosciuto nell' individuo singolo il Figlio, presto riconoscerà anche il Padre.
"In quel tempo. Gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che il Signore Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo".
Il Vangelo di oggi ci chiama a convertire i popoli della Terra. Dobbiamo correre e rispondere con entusiasmo all' appello.
Ma cos' è una conversione? Tutti sanno come finisce, ma pochi sanno l' essenziale: come comincia.
Comincia con un cambio di paradigma culturale: la Conversione è nient' altro che l' esito felice di una colonizzazione culturale. I nostri missionari più consapevoli, secondo me quelli del PIME, lo sanno bene e il loro lavoro in Africa è finalizzato in primo luogo ad un rinnovamento delle stantie mentalità che imbrigliano le energie di quel continente.
Come procedere? Comincerei con l' annunciare al pagano del XXI secolo la Libertà e la Salvezza dell' Uomo.
I due concetti si condensano bene in un concetto centrale "individualismo".
Rodney Stark ci ricorda che la cristianità per prima ha introdotto la nozione di "individuo" attraverso quella di "libero arbitrio" e quella di "salvezza personale". Mai prima nella storia l' individuo e i suoi diritti erano stati pensati con tanta forza. Un' esclusiva che ci deve rendere orgogliosi e su cui dobbiamo fare leva.
C' è ancora tanta diffidenza verso l' individuo, sia nei laicisti che nei popoli lontani, penso alla promettente Asia, alla disperante Africa e alla deludente America Latina. Persino nei cattolici riscontro questa diffidenza.
Con un sospiro di sollievo dobbiamo constatere di vivere oggi tempi fausti, tempi in cui segnali di un nuovo "inizio" si moltiplicano, soprattutto in Asia.
Per dirla con Deidre McCloskey: "... cosa credete che verrà ricordato dei nostri anni, la crisi finanziaria del 2008 oppure il fatto che la Cina nel 1978 e l' India nel 1991 abbiano adottato, almeno in economia, le idee occidentali?"
E' qui che comincia la conversione, non ci resta che pregare e lavorare mantenendo la barra a dritta: una volta che il mondo avrà riconosciuto nell' individuo singolo il Figlio, presto riconoscerà anche il Padre.
venerdì 8 ottobre 2010
Humanomist
Possiamo spiegare la storia dicendo che ad un certo punto qualcuno ha avuto un' idea e il corso delle cose è mutato?
E' questa una spiegazione legittima?
Secondo lo splendido transenssuale Dreidre McCloskey, sì.
Le cause materiali non sono tutto e nelle dinamiche storiche s' insinua spesso un "ghost in the machine".
... We humanomists believe that humans are motivated by more than incentives...
Qui anticipa le sue conclusioni dettagliate nei due volumi in uscita che mettono a tema la Rivoluzione Industriale
A big change in the common opinion about markets and innovation, I claim, caused the Industrial Revolution, and then the modern world. The change occurred during the seventeenth and eighteenth centuries in northwestern Europe. More or less suddenly the Dutch and British and then the Americans and the French began talking about the middle class, high or low — the “bourgeoisie” — as though it were dignified and free. The result was modern economic growth... The outcome has falsified the old prediction from the left that markets and innovation would make the working class miserable, or from the right that the material gains from industrialization would be offset by moral corruption... The usual and materialist economic histories do not seem to work. Bourgeois dignity and liberty might... The correct explanation is ideas... The book tests the traditional stories against the actually-happened, setting aside the stories that in light of the recent findings of scientific history don’t seem to work very well. A surprisingly large number of the stories don’t. Not Karl Marx and his classes. Not Max Weber and his Protestants. Not Fernand Braudel and his Mafia-style capitalists. Not Douglass North and his institutions. Not the mathematical theories of endogenous growth and its capital accumulation. Not the left-wing’s theory of working-class struggle, or the right-wing’s theory of spiritual decline.
Yet the conclusion is in the end positive. As the political scientist John Mueller put it, capitalism — or as I prefer to call it, “innovation” — is like Ralph’s Grocery in Garrison Keillor’s self-effacing little Minnesota town of Lake Wobegon: “pretty good.”[2] Something that’s pretty good, after all, is pretty good. Not perfect, not a utopia, but probably worth keeping in view of the worse alternatives so easily fallen into. Innovation backed by liberal economic ideas has made billions of poor people pretty well off, without hurting other people.[3] By now the pretty good innovation has helped quite a few people even in China and India. Let’s keep it.
The Big Economic Story of our times has not been the Great Recession of 2007–2009, unpleasant though it was. And the important moral is not the one that was drawn in the journals of opinion during 2009 — about how very rotten the Great Recession shows economics to be, and especially an economics of free markets. Failure to predict recessions is not what is wrong with economics, whether free-market economics or not. Such prediction is anyway impossible: if economists were so smart as to be able to predict recessions they would be rich. They’re not.[4] No science can predict its own future, which is what predicting business cycles entails. Economists are among the molecules their theory of cycles is supposed to predict. No can do — not in a society in which the molecules are watching and arbitraging. The important flaw in economics, I argue here, is not its mathematical and necessarily mistaken theory of future business cycles, but its materialist and unnecessarily mistaken theory of past growth. The Big Economic Story of our own times is that the Chinese in 1978 and then the Indians in 1991 adopted liberal ideas in the economy, and came to attribute a dignity and a liberty to the bourgeoisie formerly denied. And then China and India exploded in economic growth. The important moral, therefore, is that in achieving a pretty good life for the mass of humankind, and a chance at a fully human existence, ideas have mattered more than the usual material causes. As the economic historian Joel Mokyr put it recently in the opening sentence of one of his luminous books, “economic change in all periods depends, more than most economists think, on what people believe.” Left and right tend to dismiss the other’s ideology as “faith.” The usage devalues faith, a noble virtue required for physics as much as for philosophy, and not necessarily irrational... Yet innovation, even in a proper system of the virtues, has continued to be scorned by many of our opinion makers now for a century and a half, from Thomas Carlyle to Naomi Klei... We will need to abandon the materialist premise that reshuffling and efficiency, or an exploitation of the poor, made the modern world. And we will need to make a new science of history and the economy, a humanistic one that acknowledges number and word, interest and rhetoric, behavior and meaning.
Il materialista Gregory Clark concede che gli incentivi spiegano ben poco:
Economics pulls in neophytes with a grand and exciting vision of the world: people are highly responsive to incentives, differences in incentives explain all major variations in wealth and poverty across societies, and easy institutional changes will create the incentives to launch a brave new world. This is the buzz that animates Freakonomics, the book, and now the movie. This is the vision that led Roland Fryer, Professor of Economics at Harvard University, to offer students in the New York, Chicago, and Washington, DC school systems “cash for grades.”
Deirdre McCloskey earlier in her career did stellar work advancing this program in economics — her virtuoso writings recruited me to the study of the history of economies. But having over many years considered the general problem of economic growth, and the specific puzzle of the timing and location of the Industrial Revolution, McCloskey has come to a stunning epiphany. This is that incentives explain very little of the huge gaps in wealth across the world. Growth is a cultural production, a society wide embrace of “bourgeois virtues.” Specifically, she claims, growth came because the activities of marketing, profiting, and innovating have become in our society uniquely respected, admired and praised. The rise of the Bourgeois Virtues has created societies such as those of Northern Europe, so primed for growth that even though the grabbing hand of the state is on every shoulder, people continue to produce and innovate.
I fully agree with McCloskey about the surprisingly poor ability of incentives alone to account for growth. In order to hold on to the central idea that the 10,000-year delay in the Industrial Revolution from the first appearance of settled agriculture was created by a lack of incentives, economists have to maintain the collective fiction that all societies before 1800 were run along the lines of Kim Jong-Il’s North Korea. Yet, in case after case, we find, deep in the 10,000 years of economic stagnation, fully incentivized market societies.
Go to any village in Suffolk in England in the years of the Poll Tax, 1377-81 and you will find in the tax lists an abundance of traders, craftsmen, and merchants.[1] Go to the records of Oxford University in 1500 and you will find the descendants of those traders and craftsmen, revealed by surnames such as Smith and Baker, had become within a few hundred years nearly fully incorporated into the elites of medieval society. Go to Paris in 1300 and you will find living cheek by jowl with the locals Scots, English, Italians, Flemish, and Jews. Medieval cities were hives of enterprise and industry, taxed lightly by kings fearing to kill the golden goose. London, among others, was almost as polyglot in 1300 as it is today...
tutto disponibile su Cato unbound
E' questa una spiegazione legittima?
Secondo lo splendido transenssuale Dreidre McCloskey, sì.
Le cause materiali non sono tutto e nelle dinamiche storiche s' insinua spesso un "ghost in the machine".
... We humanomists believe that humans are motivated by more than incentives...
Qui anticipa le sue conclusioni dettagliate nei due volumi in uscita che mettono a tema la Rivoluzione Industriale
A big change in the common opinion about markets and innovation, I claim, caused the Industrial Revolution, and then the modern world. The change occurred during the seventeenth and eighteenth centuries in northwestern Europe. More or less suddenly the Dutch and British and then the Americans and the French began talking about the middle class, high or low — the “bourgeoisie” — as though it were dignified and free. The result was modern economic growth... The outcome has falsified the old prediction from the left that markets and innovation would make the working class miserable, or from the right that the material gains from industrialization would be offset by moral corruption... The usual and materialist economic histories do not seem to work. Bourgeois dignity and liberty might... The correct explanation is ideas... The book tests the traditional stories against the actually-happened, setting aside the stories that in light of the recent findings of scientific history don’t seem to work very well. A surprisingly large number of the stories don’t. Not Karl Marx and his classes. Not Max Weber and his Protestants. Not Fernand Braudel and his Mafia-style capitalists. Not Douglass North and his institutions. Not the mathematical theories of endogenous growth and its capital accumulation. Not the left-wing’s theory of working-class struggle, or the right-wing’s theory of spiritual decline.
Yet the conclusion is in the end positive. As the political scientist John Mueller put it, capitalism — or as I prefer to call it, “innovation” — is like Ralph’s Grocery in Garrison Keillor’s self-effacing little Minnesota town of Lake Wobegon: “pretty good.”[2] Something that’s pretty good, after all, is pretty good. Not perfect, not a utopia, but probably worth keeping in view of the worse alternatives so easily fallen into. Innovation backed by liberal economic ideas has made billions of poor people pretty well off, without hurting other people.[3] By now the pretty good innovation has helped quite a few people even in China and India. Let’s keep it.
The Big Economic Story of our times has not been the Great Recession of 2007–2009, unpleasant though it was. And the important moral is not the one that was drawn in the journals of opinion during 2009 — about how very rotten the Great Recession shows economics to be, and especially an economics of free markets. Failure to predict recessions is not what is wrong with economics, whether free-market economics or not. Such prediction is anyway impossible: if economists were so smart as to be able to predict recessions they would be rich. They’re not.[4] No science can predict its own future, which is what predicting business cycles entails. Economists are among the molecules their theory of cycles is supposed to predict. No can do — not in a society in which the molecules are watching and arbitraging. The important flaw in economics, I argue here, is not its mathematical and necessarily mistaken theory of future business cycles, but its materialist and unnecessarily mistaken theory of past growth. The Big Economic Story of our own times is that the Chinese in 1978 and then the Indians in 1991 adopted liberal ideas in the economy, and came to attribute a dignity and a liberty to the bourgeoisie formerly denied. And then China and India exploded in economic growth. The important moral, therefore, is that in achieving a pretty good life for the mass of humankind, and a chance at a fully human existence, ideas have mattered more than the usual material causes. As the economic historian Joel Mokyr put it recently in the opening sentence of one of his luminous books, “economic change in all periods depends, more than most economists think, on what people believe.” Left and right tend to dismiss the other’s ideology as “faith.” The usage devalues faith, a noble virtue required for physics as much as for philosophy, and not necessarily irrational... Yet innovation, even in a proper system of the virtues, has continued to be scorned by many of our opinion makers now for a century and a half, from Thomas Carlyle to Naomi Klei... We will need to abandon the materialist premise that reshuffling and efficiency, or an exploitation of the poor, made the modern world. And we will need to make a new science of history and the economy, a humanistic one that acknowledges number and word, interest and rhetoric, behavior and meaning.
Il materialista Gregory Clark concede che gli incentivi spiegano ben poco:
Economics pulls in neophytes with a grand and exciting vision of the world: people are highly responsive to incentives, differences in incentives explain all major variations in wealth and poverty across societies, and easy institutional changes will create the incentives to launch a brave new world. This is the buzz that animates Freakonomics, the book, and now the movie. This is the vision that led Roland Fryer, Professor of Economics at Harvard University, to offer students in the New York, Chicago, and Washington, DC school systems “cash for grades.”
Deirdre McCloskey earlier in her career did stellar work advancing this program in economics — her virtuoso writings recruited me to the study of the history of economies. But having over many years considered the general problem of economic growth, and the specific puzzle of the timing and location of the Industrial Revolution, McCloskey has come to a stunning epiphany. This is that incentives explain very little of the huge gaps in wealth across the world. Growth is a cultural production, a society wide embrace of “bourgeois virtues.” Specifically, she claims, growth came because the activities of marketing, profiting, and innovating have become in our society uniquely respected, admired and praised. The rise of the Bourgeois Virtues has created societies such as those of Northern Europe, so primed for growth that even though the grabbing hand of the state is on every shoulder, people continue to produce and innovate.
I fully agree with McCloskey about the surprisingly poor ability of incentives alone to account for growth. In order to hold on to the central idea that the 10,000-year delay in the Industrial Revolution from the first appearance of settled agriculture was created by a lack of incentives, economists have to maintain the collective fiction that all societies before 1800 were run along the lines of Kim Jong-Il’s North Korea. Yet, in case after case, we find, deep in the 10,000 years of economic stagnation, fully incentivized market societies.
Go to any village in Suffolk in England in the years of the Poll Tax, 1377-81 and you will find in the tax lists an abundance of traders, craftsmen, and merchants.[1] Go to the records of Oxford University in 1500 and you will find the descendants of those traders and craftsmen, revealed by surnames such as Smith and Baker, had become within a few hundred years nearly fully incorporated into the elites of medieval society. Go to Paris in 1300 and you will find living cheek by jowl with the locals Scots, English, Italians, Flemish, and Jews. Medieval cities were hives of enterprise and industry, taxed lightly by kings fearing to kill the golden goose. London, among others, was almost as polyglot in 1300 as it is today...
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