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mercoledì 17 maggio 2017

Cattarina- incontro al tirinnanzi

Per avere la mia libertà devo avere la possibilità di scegliere anche cio' che desidero.

La comunità ha delle regole. Ma anche la vita.

La delusione sul volto della madre è segno di una delusione che viene da qualcosa di più grande.
Libertà è dire sì.

Perché non hai fiducia in me? Hai ragione, non ho fiducia. Però ho una grande speranza. E comunque, tu in me hai fiducia?

Lo sguardo è verso l'anima dell'altro. Non solo verso l'altro.

L'autostima viene dalla stima degli altri.

Non sappiamo più dire le cose. Il linguaggio mi blocca.

martedì 27 settembre 2011

Aiuto!

… the mistake in applying complexity theory to human relationships such as the education, management, development aid, and helping in general is that the basic problem is NOT that the human “systems” are complex, “messy,” nonlinear, etc.The basic problem, across the whole range of the human helping relationships (like aid) between what might be called the “helper” and the “doer,” is that success lies in achieving more autonomy on the part of the doers, and autonomy is precisely the sort of thing that cannot be externally supplied or provided by the would-be helpers. This is the fundamental conundrum of all human helping relations, and it is the basic reason, not complexity, why engineering approaches and the like don’t work. Thus the application of complexity theory to development aid–as if the basic problem with aid was the complexity of the systems–is “unhelpful” from the get go. I could go on but this is only a comment; one could write a whole book on the topic…

Chris Blattman – esperto aiuti internazionali

Per molti versi “aiutare” il nostro prossimo è una missione impossibile: la mano che tendiamo verso di lui finisce troppo spesso per affondarlo: vorremmo trarlo in salvo ma lo feriamo mortalmente.

leopardcubs

Silvio Cattarina è un professionista dell’ aiuto, ha trascorso la vita tra i tossici. E’ invecchiato con loro e loro gli hanno riempito le giornate con una serie infinita d’ imprevisti; anzi, gli hanno fatto scoprire che la vita stessa è un imprevisto e coincide esattamente con cio’ che non possiamo programmare qui e ora. E’ l’ eccedenza alla realtà pianificabile: una sovrabbondanza. Che ricchezza, che groviglio di situazioni procura la vicinanza di persone “pericolanti”! Nel loro dolore vive un mistero da cui è difficile distogliersi.

In questo libro cerca di portare alla luce una dinamica salvifica. Il circuito si compie in questi due passaggi: l’ “accidente” mette in luce i limiti della ragione, e ridimensionare la ragione serve a esaltare la speranza. Ecco allora il vero “carburante” che manda avanti chi aiuta: la speranza.

Ma la speranza è una virtù, e chi spera è un virtuoso. Purtroppo, comunicare l’ invito alla virtù è estremamente problematico.

Per un verso è frustrante ascoltare i guru ciellini: mai che diano un’ dato quantitativo, il loro esistenzialismo non glielo consente. Mai che siano informativi: sono giorni che leggo della comunità di Silvio e non ho la minima idea di quanti se ne salvino (10%? 90%?). Mai un lucido nelle loro conferenze.

Non si tratta d’ imperizia o di improvvisazione, tutt’ altro. Anche nei master Bocconi si insegna ormai l’ approccio motivazionale. Forse anche i manager si sono convinti della sua centralità.

Negli incontri con i santi ciellini, già durante i saluti iniziali, echeggiano le parole che chiuderanno l’ incontro: “adesso basta parlare, lavoriamo!”. Vige il santo timore per ogni “spiegazione”, il “cerebralismo” è uno stigma d’ immaturità, direi quasi un marchio d’ infamia.

[… alle radici della vita tutto è noto a tutti… guardando alla tele “Un giorno in Pretura”, per quanto all’ apparenza inorriditi, non abbiamo difficoltà a comprendere l’ assassino perché siamo tutti un po’ assassini…Nelle questioni d’ amore, tutto quel che c’ è da sapere si sa già. Si sa già che l’ amore è un “riconoscimento” e che il tossico ha bisogno di quello... si sa perché qualsiasi uomo ne fa esperienza: il chierichetto Silvio aiutava con orgoglio  don Carlo alla Comunione, la mamma si presentava puntualmente ultima della colonna a occhi bassi e lui spingeva il piattino contro la gola perché, sorridendo furtivamente, alzasse per un attimo lo sguardo e lo “riconoscesse”… tutti sappiamo che nella vita di quaggiù le cose funzionano così… che sono quelle occhiate furtive a renderci felici, forti e a mandarci avanti… inutile perderci tempo con spiegazioni prolisse: esperienza! esperienza! esistenza! esistenza!…]

Lui non ti parlerà mai di “regole”, neanche sotto tortura. Per quanto da qualche parte custodirà pure le sue regole, risulta sempre animato dal proposito di nasconderle e minimizzarle, questo per regalare l’ intera scena alla virtù (ottimismo, speranza…).

La regola rassicura il discente: una volta comunicata, puo’ essere applicata da chiunque; non così la virtù: ormai chi sei sei e difficilmente riuscirai a rifarti da capo. Se ti viene detto “ama” e amerai a comando, non avrai ubbidito. Trattandosi di comandi a cui non è possibile ubbidire, diventa impossibile anche l’ estrazione di regole o di istruzioni.

La speranza è essenziale in una missione impossibile come quella dell’ aiuto: con essa possiamo mentire a noi stessi abbandonandoci nelle braccia di profezie che si autorealizzano.

L’ aiutante è innanzitutto un profeta. Un profeta di profezie che si autorealizzano.

Ma l’ operatore ha domande impellenti: che fare quando ti poni di fronte a chi ha bisogno?

Risposta esistenziale dettata da una vita passata in quella posizione tra i derelitti: nulla, aspetta che succeda qualcosa. Le parole arriveranno, l’ azione sarà ineludibile.

Il buon “operatore” finisce allora per assomigliare a un artista: un fascio d’ intuizioni penetranti e d’ ispirazioni insopprimibili.

Operare diagnosi di fronte allo “scarto umano” è una tentazione da scacciare: “se si presentasse qui Gesù non lo riconosceremmo”. L’ unica regola che vige è quindi enormemente dispersiva, un vero monumento all’ inefficienza: accogliere tutti.

Una specie di “santo spreco” in nome dell’ accoglienza.

Essere accolti è fondamentale: significa essere riconosciuti. La comunità esiste per essere una casa, la casa esiste per toglierti dall’ anonimato.

Ma chi è il tossico? Alla fine della lettura potrei dire che…

Il tossico è un narciso, il problema è che non sopporta il tuo bene perché viene da te e non da lui. Invece, odiando sì che è protagonista. Desidera ardentemente trasformarsi in un “caso”, magari il più impenetrabile della comunità. Se il genitore si lamenta: “a mio figlio non interessa niente di niente”, lui cercherà di diminuire ulteriormente i suo interessi perché quella è la via per “trasformarsi in un caso”.

Il tossico, nella sua debolezza, è un bullo che si sente chiamato alla guerra “solo contro tutti”.

Il tossico è un deluso: si viene al mondo circondati da promesse e se non vengono mantenute ci arrabbiamo, anche molto.

Il tossico è un Pinocchio, duro come un pezzo di legno, fa di tutto per restare burattino; il grillo parlante e i medici al capezzale sono gli psicologi. Dobbiamo far di tutto affinché in questa storia affollata da tanti Mastro Ciliegia (“… che me ne faccio di un pezzo di legno…”), spunti almeno un Mastro Geppetto (“birba d’ un figliolo…”). Dobbiamo far di tutto perché la comunità si trasformi nella pancia della balena: un posto dove padre e figlio possano parlarsi.

Il tossico è un figlio. Essere figlio è una vocazione ma deve esserci qualcuno che ti chiami.

Il tossico ha bisogno di un perdono scevro dalla retorica del perdono. Don Giussani in confessione si sentì dire: “Ho ucciso”, e lui: “quante volte?”. Era già “passato oltre”, aveva perdonato senza la retorica del perdono. Il perdono deve essere supportato dalla bellezza: a ogni perdono deve seguire una festa. L’ operatore deve vigilare di soppiatto e assicurarsi che l’ “ospite” rida. Che rida sempre, che sia felice. 

Silvio Cattarina – Torniamo a casa.