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lunedì 11 novembre 2019

PARLARE DI POLITICA

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PARLARE DI POLITICA
E chi ha più voglia di parlare di politica nel 2019? La qualità del discorso politico è in uno stato pietoso, dovrebbe essere vietato ai minori come i porno. I nostri ragazzi dovrebbero girare al largo da certe arene, e invece ci sono dentro in pieno. Dominano insulti igniominosi e offese sanguinose. Lo splatter costituisce lo standard.
Polarizzazione e il tribalismo coprono tutto il resto, niente si salva. Ci piace demonizzare più che persuadere. Chi vuole persuadere avvicina il suo prossimo con rispetto e lo ascolta curioso, ma parliamo di una razza estinta. Chi demonizza invece considera l'altro come una pessima persona, uno da evitare, sentina di tutti i vizi e causa di tutti i mali.
Pur di stare al calduccio, ognuno di noi si fa il suo schemino e da lì non esce. I tre schemini base ruotano intorno a tre concetti cardine: oppressione/barbarie/coercizione.
La sinistra si ritiene impegnata in una battaglia morale contro l'oppressione. La destra è perennemente in trincea per difendere la civiltà. I liberali si ritengono l'ultimo baluardo contro l'onnipresente coercizione statalista.
Le tre opposizioni (oppresso/oppressore, civiltà/barbarie e libertà/coercizione) possono essere utilizzate in alternativa tra loro per descrivere i fatti ed esprimere la propria opinione. Naturalmente, a seconda della prospettiva privilegiata certe idee si impongono sulle altre.
Insistere sul nostro asse preferito ci consente di demonizzare gli altri ma in questo modo si perde l'occasione per persuaderli. Poco male, avere una mente chiusa ci protegge dai pericoli tipici a cui la mente aperta e curiosa ci espone. Avere un disaccordo politico con qualcuno, infatti, è vissuto con ansia, la stessa che un atavico istinto ci fa provare quando vediamo un serpente o una tigre nella vegetazione. Nasce un'esigenza di incolumità, ed ecco che indossiamo la corazza.
Nei casi critici la nostra mente va subito alla ricerca spasmodica di conferme (bias della conferma). Esempio: se ci si imbatte in uno studio sostiene che il salario minimo comporta benefici sociali, il liberale cercherà con il lanternino eventuali errori metodologici. Se invece ci imbattiamo in uno studio che sostiene il contrario non ci si preoccuperà affatto di indagare oltre, lo studio entrerà a far parte dell'arsenale.
Un'altra tipica reazione è quella di imputare ai portatori di idee contrarie alle nostre intenzioni malevole (bias dell'attribuzione). Avere a che fare con persone malvagie ci risparmia ogni faticoso approfondimento della loro posizione: una persona cattiva non puo' che sostenere cattive idee.
Ricordiamoci sempre che la cosa più temuta dai nostri antenati era di essere "scomunicati" ed esclusi dalla tribù per ritrovarsi poi soli nella foresta selvaggia. Era una condanna a morte. D'altra parte, sapevano che sarebbero stati ricompensati dalla comunità dimostrando la loro lealtà al gruppo.
Per questo oggi una persona di destra che si ritrovi intruppata in un gruppo di sinistra - magari sul lavoro - tende ad auto silenziarsi, mentre se si trova nel suo elemento la spara grossa contro il nemico in modo da essere ancora più apprezzato.
Queste dinamiche operano da sempre ma oggi sembrano esacerbate. Come mai?
L'autore vede all'opera due meccanismi, il primo è una tendenza alla segregazione culturale, ovvero quel fenomeno per cui ci associamo sempre meno alle persone con un differente background. Il motore di tutto è probabilmente l'istruzione - mai come oggi legata alla ricchezza. Sia come sia le persone con un'istruzione superiore orbitano quasi esclusivamente su altre persone con istruzione di pari livello mentre un tempo era molto più comune che, per esempio, un "lui" laureato sposasse una "lei" diplomata, o un ricco sposasse una povera (matrimonio Cenerentola). Oggi persone con educazione differente vivono in enclaves differenti. Una donna bianca laureata difficilmente mostrerà interesse per un uomo bianco non laureato, cerca di meglio e per evitare perdite di tempo si tiene ben lontana dai posti dove sa che rischierebbe di incontrarlo.
Un altro fattore che inasprisce il confronto politico è il web, e i social media in particolare. Sui social le nostre reazioni sono rapide e concise quindi anche molto emotive, poco inclini alla riflessione; queste modalità favoriscono di gran lunga la demonizzazione rispetto alla persuasione. Quest'ultima richiede una sua simbolica per segnalare il proprio rispetto, il dissenso deve essere attutito da una sequela di premesse che ne ammorbidiscano l'impatto, ma sui social non c'è spazio per simili cerimoniali. In secondo luogo i social favoriscono l'incontro tra simili, ovvero la formazione di compagnie omogenee dove siamo più a nostro agio e autorizzati a "perdere il controllo" radicalizzandoci. Inoltre i social media e il web in generale creano quell' inflazione informativa che svaluta l'autorità dei media tradizionali impedendo loro di formare e spostare la pubblica opinione in modo omogeneo come hanno sempre fatto in passato.
Il risultato qual è? Che mentre gli avversari politici si differenziano sempre meno nelle politiche concrete, il sentimento ostile scava un fossato incolmabile tra le fazioni. Lo sappiamo bene in Italia dove chi fino a ieri se le suonava di santa ragione il giorno dopo governa a braccetto.
È probabile che alle tre prospettive descritte da Kling oggi se ne debba aggiungere una terza, quella che viaggia sull'asse élite cosmopolita/popolo sovranista. Sarebbe un'asse ben strano perché, mentre nei precedenti il "male" è chiaramente isolabile (oppressore, barbaro, despota), qui no. Inoltre, i populisti esprimono un generico sentimento "contro" senza avere in testa nulla di preciso (voi riuscite a capire cosa ha in testa un grillino?). In molti casi queste presenze sono decisamente spiazzanti, pensate solo ai poveri libertari che dovrebbero essere felici di vedere un movimento che si oppone alla potente élite politica ma poi constata tutti i giorni - ammaestrato anche dalla storia sudamericana - come questa anti-politica sia pronta in un amen a diventare iper-politica seguendo la fascinazione del primo demagogo carismatico che passa di lì.
Rimedi. Mah, sempre gli stessi alla fine. Per stemperare il discorso politico e renderlo di nuovo fruttuoso occorrerebbe avere rispetto per l'altro. La mancanza di rispetto genera l'odio, e l'odio le odiosissime crociate anti-odio, tutti fenomeni che sono uno peggio dell'altro. Evitare la personalizzazione delle idee altrui è il minimo, quando le idee sono disincarnate vengono ascoltate con più pazienza e le reazioni sono più moderate. L'obiettivo della discussione politica non è quella di sconfiggere o umiliare chi non è d'accordo con noi ma quello di comprendere l'origine di certe idee incondivisibile che stanno nella sua testa.
Un principio guida potrebbe essere questo: "chi sa di più faccia di più". Per questo mi sento di mettere sul banco degli imputati il disprezzo e le crociate anti-odio, perché chi disprezza e poi si batte contro l'odio di solito è più appassionato di politica, spesso ne "sa di più", ed è quindi anche più responsabile della degenerazione in atto.

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The Three Languages of Politics is a profoundly illuminating exploration of communication in America's political landscape. Progressives, conservatives, and libertarians are like tribes speaking different languages. Political discussions do not lead to agreement. Instead, most political commentar...

venerdì 2 agosto 2019

LA DISCUSSIONE FACEBOOK

LA DISCUSSIONE FACEBOOK

Qualche regola – che non riesco ad osservare - per affrontarla al meglio.

1) EDUCAZIONE. Banditi gli insulti, ma da evitare anche la scarsa considerazione per la posizione altrui, ovvero l’insulto indiretto. Le allusioni malevole creano un effetto valanga più nocivo delle offese esplicite. In questo secondo caso, almeno, si gioca a carte scoperte. Nel primo caso non sai mai se mollare al suo destino il tuo “nemico”, e in genere s’innescano estenuanti discussioni con post che per 4/5 sono creative premesse sarcastiche ad uso e consumo di chi legge dovendo prendere parte e per 1/5 osservazioni nel merito. In questi casi l’allocazione dell’intelligenza è altamente inefficiente visto che viene quasi totalmente assorbita dal dover punzecchiare in modo fantasioso la controparte.

2) NOVITA’. Specie se lo scambio si prolunga, intervenire solo se si ha qualcosa di nuovo da aggiungere. L’insistenza è forse peggio della maleducazione.

3) LINK. Evitarli, così come è doveroso evitare le citazioni. Il bello e il brutto dello scambio social è che sta tutto lì davanti a te, che non sei tenuto a esiliarti altrove perdendo il filo e la bussola. Lo scopo del tuo interlocutore è quello di entrare in relazione prima ancora che di informarsi. Se proprio non resisti a sfoggiare i tuoi autorevoli link, apri un blog.

4) LEGGERE. Leggere la risposta altrui da cima a fondo, non limitarti alle prime tre righe, anche se di solito già quelle ti fanno scattare la risposta impellente. Se leggi tutto ti accorgerai che i tuoi sforzi potevano essere evitati o meglio calibrati.

5) TITOLI E ACCREDITAMENTO. Inutile e di cattivo gusto esibirli su F. Da evitare anche nel profilo, se possibile. Purtroppo o per fortuna qui si parte alla pari, è una fatica di Sisifo, occorre sempre ricominciare sempre daccapo. D’altronde, se i tuoi titoli non emergono naturalmente nella discussione, probabilmente nemmeno te li meriti del tutto. Lo so, discutere di un problema su cui hai meditato anni con uno che dall’altra parte sta palesemente improvvisando sul momento qualcosa di apodittico è frustrante, ma funziona così. Scegliti meglio gli amici.

6) SEDE. Non denunciare la tua pigrizia con la delirante uscita “non è questa la sede per approfondire…”. Cosa potresti pretendere di più rispetto ad uno scambio scritto interattivo dove ognuno è chiamato ad esporre in modo chiaro il suo pensiero, dove ad ogni affermazione puo’ intervenire un’obiezione, dove puoi prenderti il tempo che vuoi per meditare, dove puoi far decantare il tuo messaggio, dove puoi rileggere quanto ha detto il tuo interlocutore, dove puoi risalire controcorrente il dibattito rischiarandoti le idee. Neanche un convegno di specialisti della materia presenta queste condizioni ideali. Dicendo “non è questa la sede per approfondire…” stai solo manifestando la tua pigrizia personale, è come se dicessi “non ho voglia di approfondire la questione…”. E’ normale che sia così, il 95% degli utenti F non ha né voglia né tempo di approfondire la questione, ma questo non significa che, qualora avesse tempo e voglia, F sarebbe la sede ideale per farlo.

7) PREVENIRE. L’errore più comune nelle discussioni F è quello di esprimersi tentando di prevenire le obiezioni. Non è così che funzionano i social! Il tuo messaggio dovrebbe essere conciso, chiaro, semplice… e quindi anche tremendamente vulnerabile e aperto ad obiezioni. Una volta che saranno avanzate, risponderai. Non è un monologo, è un dialogo socratico. Mai prevenire, non stai scrivendo un saggio, la prevenzione di obiezioni che nessuno ha intenzione di farti rende tutto inutilmente cervellotico. Non dire mai "le cose sono più complesse...", piuttosto fai quel passetto necessario nella giusta direzione per renderle tali.

8) ASPETTA IL TUO TURNO. Medita la tua risposta e attendi di leggere quella della controparte prima di replicare. Chi accavalla i messaggi non ha capito dove si trova.

9) UN MESSAGGIO, UN ARGOMENTO. Mai dire due cose in un unico messaggio. Figuriamoci tre.

10) CITA. Chi non sa discutere su F - oppure ha argomenti deboli da offrire - lo sgami subito perché "mette troppa carne al fuoco", si consola pensando che sommando tanti zeri possa uscire dal cilindro un numero elevato. In questi casi cita una parte del commento altrui - magari la più debole, così impara - e rispondi solo a quella. Aggiungi una denuncia al suo modo goffo di procedere.

11) ALLEANZE. Se la discussione s’infervora respingi le alleanze con chi ti si mostra solidale, esprimi un qualche disaccordo anche con lui prendendo le distanze. L’alleanza esibita è l’inizio della fine, è la premessa per sterili conflitti tra bande.

12) SOLDI. Un modo non banale per semplificare le discussioni consiste nel trasformarle in scommesse. Cerca sempre la sfida con premio pecuniario, ti accorgerai ben presto come le affermazioni diventeranno più caute e interlocutorie. i soldi rendono tutto più serio. Purtroppo, la scommessa ha una cattiva reputazione, talvolta meritata, ma anche una nobile tradizione nella forma di scommessa accademica.

12) DILETTANTE. Privilegiare le discussioni dove il dilettante puo’ dare realisticamente un contributo, ovvero quelle su temi interdisciplinari, o a equilibrio multiplo, oppure temi che riscuotono un interesse marginale: il futuro molto anteriore, certi aspetti teologici trascurati. Ideali sono anche i temi con tesi serie che farebbero perdere di prestigio chi le sostiene (scuola, sanità, povertà, famiglia…). Ma anche quei temi che, come dicevamo sopra, è più facile trasformare in sfide pratiche: quando si tratta di scommettere il dilettante sopravanza spesso il professionista.


12) DA DOVE PARTIRE. Ricorda che ogni argomento ha la sua letteratura. Ovvero, esiste un gruppo di persone che lo ha studiato tutta la vita. Ricordatelo quando cerchi di farti un’idea in quei pochi secondi in cui sei chiamato a dire la tua. La cosa migliore, quindi, è pronunciarsi solo dopo aver consultato questi autori, almeno un paio, almeno uno. Col web si puo’. In caso contrario, massima prudenza.


12) ACCORDO. Ricorda sempre che ogni discussione razionale termina con un accordo. Ma un accordo nel merito, non un accordo su dove si è in disaccordo. Se l’accordo manca, o non c’è stime e fiducia tra gli interlocutori o la discussione non è terminata.


13) THIS IS THE END. Ricorda che se non rispondi non significa che ti arrendi agli argomenti altrui, non significa che non hai più niente da dire, al massimo significa che hai già detto quel che basta, che ritieni quanto hai detto sufficiente. Lo stesso vale se non ti risponde più la controparte. Magari non è così, magari effettivamente non sai cosa dire, eppure dimenticare questo precetto e farsi invadere dal demone dell’ultima parola puo’ essere letale.

Tutta utopia? Cancello tutto?

Benvenute le aggiunte.

sabato 22 settembre 2018

7 CONSIGLI PER DISCUTERE TRA MASCHI

7 CONSIGLI PER DISCUTERE TRA MASCHI
La ragione deve prevalere sull’ emozione.
Se una provocazione è portata in modo civile il “cattivo” è sempre chi si indigna.
Mai partigianerie, mai apologetica, mai adesione ad un Chiesa o a una tribù.
Contano numeri e fatti, non le memorie. Contano le statistiche, non le emozioni. Contano gli argomenti, non le storie (o le “narrazioni”).
Una scommessa vale più di un saggio.
Le iperboli sono il maggior nemico. Vedi punto precedente.
Se la verità disturba non rinunciare ad esprimerla senza mezzi termini.
Parlare di sé ci rende meno credibili, non più credibili.
Non litigare mai con nessuno.

giovedì 8 marzo 2018

PIU' SIMILI DI QUEL CHE SI CREDE

PIU' SIMILI DI QUEL CHE SI CREDE

Se chi discute rabbiosamente, magari insultandosi, dovesse dirimere la questione formulando una scommessa si accorgerebbe che le rispettive posizioni Non sono affatto così distanti.

From the New York Times bestselling author of The Black Swan, a bold new work that challenges many of our long-held beliefs about risk and reward, politics and religion, finance and personal responsibility In his most provocative and practical book yet,…
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venerdì 21 aprile 2017

Parlare di politica

Una considerazione andrebbe riservata alla retorica del dibattito politico.
Non parlo di quello in cui si cimentano i “politici” di professione ma quello in cui si impegnano i semplici appassionati al bar o nei social network.
Ci sono due o tre cose che ho imparato e che vorrei puntualizzare qui, anche se forse non è la sede ideale.
Parlare di politica è molto difficile, dopo pochi scambi partono diatribe infuocate quanto sterili.
Escludo dall’ analisi chi ha interessi diretti in gioco nella materia in cui discute, in questi casi immedicabili le orecchie si tappano con il cemento; tuttavia, lo avrete constatato ripetutamente, anche la pura e semplice passione ideologica, per tacere della vanità narcisistica, puo’ trasformare una piacevole discussione in un rabbioso dialogo tra sordi.
Un modo per evitare esiti tanto deprimenti consisterebbe nel mettersi nei panni del prossimo e scoprire quanto costui sia molto meno ottuso di quel che crediamo: semplicemente vede le cose da un’ ottica differente rispetto a noi!
L’ operazione è piuttosto semplice poiché, a guardar bene, in queste materie la moltitudine dei protagonisti puo’ essere agevolmente incasellata in tre sole tipologie:
LIBERALE: privilegia l’ asse libertà/coercizione;
PROGRESSISTA: privilegia l’ asse forza/debolezza;
CONSERVATORE: privilegia l’ asse civiltà/barbarie.
Ora, i tre hanno obbiettivi differenti:
1) il LIBERALE vorrebbe tutelare le libertà di scelta,
2) il PROGRESSISTA vorrebbe tutelare il debole e
3) il CONSERVATORE vorrebbe tutelare la civiltà.
Semplice, no? Eppure di solito si discute dando per scontato che la meta a cui tendere è comune (di solito la nostra) e che l’ altro prende semplicemente una strada sbagliata poiché privo di senso dell’ orientamento.
Partendo dalla premessa che nessuna di queste tre prospettive è “indegna”, proviamo allora ad adottare per un attimo l’ “asse” del nostro interlocutore, ci accorgeremmo ben presto che le sue soluzioni sono tutt’ altro che peregrine.
In altri termini, quel che ci differenzia da lui è quasi sempre la prospettiva da cui partire, non l’ intelligenza o l’ ottusità nel giudicare il reale.
Ammettiamolo, un riconoscimento del genere non è tutto ma è già molto.
Proviamo a fare un esempio. Si discute di quote rosa.
Il liberale sarà contrario: implicano una coercizione.
Il progressista sarà favorevole: implicano un aiuto ai più deboli.
Il conservatore sarà contrario: implica un sovvertimento delle tradizioni.
I tre tipi possono dissentire sui valori senza considerarsi stupidi per la strategia che privilegiano.
Altro esempio: l’utero in affitto.
Il liberale sarà favorevole poiché non c’è coercizione.
Il conservatore sarà contrario poiché si tratta di un’innovazione radicale.
Il progressista è a metà strada: da un lato la categoria debole degli omosessuali potrebbe beneficiarne, dall’altra la categoria debole delle donne potrebbe subire uno sfruttamento. Lasciamo perdere la categoria debole dei bambini, che politicamente conta poco.
Anche qui: strategie differenti per mete differenti. Se rispettiamo le mete potremmo disprezzare un po’ meno le strategie.
***
The Three Languages of Politics Arnold Kling

venerdì 9 novembre 2012

Le parole e le cose

George Lakoff sostiene che le persone “subiscono” in modo alquanto singolare le metafore e le associazioni di parole a cui vengono esposte nei discorsi di tutti i giorni, cosicché basterebbe un buon marketing del linguaggio per manipolare le loro menti. E questo anche a fin di bene, intendiamoci.
lakoff
Sulla scorta della sua teoria vorrebbe plasmare la società dizionario alla mano. Per esempio, propone di chiamare le tasse “membership fee” in modo che tutti possano indossare occhiali che consentano di vedere il mondo “da sinistra”.
Sperimentando l’ effetto di questi occhiali cosa vedo? Personalmente vedo che se qualcuno mi parlasse di “membership fee” anziché di tasse avrei come la sensazione di essere preso per il culo. Associo la parola “tasse” a una mazzata e l’ espressione “membership fee” a una mazzata che segue la cornificazione. Ma forse non sono stato abbastanza esposto.
Non che abbia in tasca una contro teoria particolarmente accurata, rilevo solo di aver cominciato a scrivere queste righe in treno nel corso del mio pendolaraggio tra Rho e Varese dopo aver origliato nel vagone accanto un gruppo di adolescenti che, tra il goliardico e il truculento, si apostrofano a suon di “gay rotto in culo che non sei altro” e simili. Eppure “gay” era termine introdotto per rimpiazzare “omosessuale” e tutti i connotati negativi che si portava dietro. A quanto pare il significato del secondo si è trasferito passivamente nel primo, connotati negativi compresi.
Ripensandoci, esempi dello stesso tenore fioccano: “Ministro” significa nientemeno che “servo” ma se penso a un Ministro della Repubblica Italiana non mi viene in mente niente di particolarmente umile, né tantomeno penso a un servo a mia disposizione. Figuriamoci. Eppure qui nessuno opinerebbe sui tempi di esposizione. Cosa è andato storto nella “strategia parolaia”?
Si è appena eletto il Presidente Americano. Basta una breve indagine per scoprire che fu scelto questo titolo al fine di ridimensionare la carica nel mitico “immaginario” dell’ uomo qualunque. Presidente è semplicemente colui che “presiede” una riunione senza particolari poteri. Voglio proprio vedere chi si è fatto “manipolare” a fin di bene pensando a Obama in questi termini burocratici.
Alzi la mano poi chi abbassa la guardia sull’ igiene solo perché un lercio bagno pubblico viene chiamato toilette?
“Idiota” era un termine clinico, sappiamo che fine ha fatto. Ci si è affrettati a sostituirlo con “ritardato mentale” finendo in breve tempo dalla padella nella brace.
Chissà poi Borghezio che ne pensa dei “migranti”, secondo me quand’ anche costretto ad accorgimenti lessicali di questo genere difficilmente perderebbe la sua verve.
Alla saggezza di Lakoff preferisco allora quella di Nicolo’ Machiavelli: non è il Titolo che fa l’ Uomo ma l’ Uomo che fa il Titolo.
machiavelli
Oppure quella della scienza, magari nella persona di Elizabeth Spelke.
spelke
Le sue ricerche sono volte a dimostrare che il pensiero precede sempre il linguaggio.

LEGGERE

http://tongue-tied2.blogspot.it/2006/05/lakoff-deconstructed-by-john-ray-m.html

venerdì 19 ottobre 2012

Perché non andiamo d’ accordo?

Esiste Dio? Chi vincerà il campionato? L’ assassino era capace d’ intendere e volere? L’ omosessualità è un comportamento deviante?
Ci sono molte discussioni su cui non si riesce a raggiungere un accordo stabile, e questo per quanto si rispetti l’ interlocutore. A volte si finisce per accordarsi sul proprio disaccordo. Peccato che il disaccordo di due individui affini sia impossibile a prescindere dalla materia oggetto di discussione, e la cosa è rigorosamente dimostrabile.
Chiariamo cosa s’ intende per “affinità”? Giovanni e Giuseppe sono affini se Giovanni messo nei panni di Giuseppe agirebbe e penserebbe come quest’ ultimo. E viceversa.
Passa un’ auto, a Giovanni sembra rossa a Giuseppe viola.
Con il nostro bel teorema alla mano possiamo fare una previsione certa: nella discussione che segue tra i due si troverà un accordo sul colore dell’ auto. Magari sarà il colore sbagliato, ma di sicuro ci sarà accordo.
Come si procede? Semplice: basterà stilare una serie finita di ipotesi circa quanto è accaduto, dopodiché ciascuno dei due protagonisti stimerà ciascuna delle ipotesi in campo aggiornando poi la sua credenza in base a ai “fatti nuovi”, ovvero alle stime dell’ altro. Aggiornamento dopo aggiornamento si addiverrà necessariamente ad un accordo: si badi bene che non esiste necessariamente un sentiero di convergenza (Giuseppe non sa come cambierà la stima di Giovanni). Per dimostrare che l’ accordo è l’ unica posizione di equilibrio basta notare che solo quando le due stime coincidono non richiedono aggiornamento e quindi introduzione di fatti nuovi.
STRETTA
Non basta però l’ affinità e l’ onestà degli interlocutori, occorre anche la “conoscenza profonda” di queste caratteristiche; ovvero, Giuseppe e Giovanni devono essere onesti, in più Giuseppe deve credere all’ onestà di Giovanni e deve credere che Giovanni creda alla sua onestà e deve credere che Giovanni creda che lui crede all’ onestà di Giovanni, eccetera. Lo stesso deve valere a parti invertite. Se questa sequela non va all’ infinito, ciascuno dei due non prenderà come sincera e omogenea la stima data dall’ altro e quindi anche in caso di coincidenza casuale delle opinioni ci saranno sempre dei motivi per aggiornarle e farle divergere.
***
Nella vita di tutti i giorni, però, i disaccordi sono molti. Forse l’ accordo richiede tempi troppo lunghi per essere raggiunto. Oppure la persistenza dei disaccordi è spiegabile diversamente:
1. non siamo affini;
2. non siamo onesti di proposito;
3. non siamo onesti perché ci autoinganniamo;
4. pensiamo che almeno una motivazione tra 1, 2 e 3 sia plausibile e all'opera anche nell'altro.
5. pensiamo che che almeno una motivazione tra 1,2,3 e 4 sia plausibile e all'opera anche nell'altro;
.
.
.
n. pensiamo che almeno una motivazione tra 1,2,3,4… e (n-1) sia plausibile e all'opera anche nell'altro.
Tutte le “n” motivazioni date probabilmente giocano un ruolo ma il mio intuito punta su 1 oltreché su quelle comprese tra 4 e n: noi siamo molto più diversi di quel che crediamo comunemente, o perlomeno qualcuno lo crede, o perlomeno qualcuno crede che altri lo credono, o perlomeno qualcuno crede che altri credano che qualcuno lo crede…. Purtroppo 1 e 5-n implicano una conseguenza spiacevole: anche se esiste una realtà oggettiva e anche se qualcuno la afferra, difficilmente potrà mai comunicarla a chi intende “convertire” se non stabilisce un clima di “fiducia abissale” e la fiducia prescinde dall’ arsenale degli argomenti.
Letture:
http://mercatus.org/sites/default/files/publication/Are_Disagreements_Honest_-_WP.pdf
http://jasonfbrennan.com/RatioScepticism.doc
http://www.philosophyetc.net/2012/10/unreliable-philosophy.html

lunedì 14 novembre 2011

Pensar narrando

Da Paolini a Lucarelli, raccontare la realtà avvalendosi della “fabula” è pratica invalsa. Vanno di moda le inchieste con suspence, la Gabanelli miete ascolti.
Ma attenzione, questo metodo espunge a viva forza dalla realtà il suo tratto più tipico: il “casino”!
La realtà non si rispecchia nella melodia filante del racconto, assomiglia piuttosto a un contrappunto.
Il “casino” è un sabotaggio al racconto, un affronto alla teatralizzazione. Il casino non è compatibile con le “storie”, eppure è essenziale per capire:
…we should be suspicious of stories. We’re biologically programmed to respond to them. They contain a lot of information. They have social power. They connect us to other people. So they’re like a kind of candy that we’re fed when we consume political information, when we read novels. When we read nonfiction books, we’re really being fed stories.
…So what are the problems of relying too heavily on stories? You view your life like “this” instead of the mess that it is or it ought to be.
…narratives tend to be too simple. The point of a narrative is to strip it way, not just into 18 minutes, but most narratives you could present in a sentence or two. So when you strip away detail, you tend to tell stories in terms of good vs. evil, whether it’s a story about your own life or a story about politics.
…As a simple rule of thumb, just imagine every time you’re telling a good vs. evil story, you’re basically lowering your IQ by ten points or more. If you just adopt that as a kind of inner mental habit, it’s, in my view, one way to get a lot smarter pretty quickly…
Another set of stories that are popular - if you know Oliver Stone movies or Michael Moore movies [… o un’ inchiesta della Gabanelli?…]. You can't make a movie and say, "It was all a big accident." No, it has to be a conspiracy, people plotting together, because a story is about intention. A story is not about spontaneous order or complex human institutions which are the product of human action but not of human design. No, a story is about evil people plotting together. So you hear stories about plots, or even stories about good people plotting things together, just like when you're watching movies. This, again, is reason to be suspicious…… leggi tutto.



Silviu Szekely

lunedì 31 ottobre 2011

Ciarpame

Perché avere idee quando ci si puo’ limitare a emettere “profumi”?

Perché esprimersi con chiarezza quando ci si puo’ limitare a essere “bravi comunicatori”?

Perché avere un “pensiero” quando si puo’ avere una “narrativa”?

Perché fare i filosofi quando si puo’ fare i “filosofi francesi”?:

Roger Scruton sulla nota combriccola (da: Del buon uso del pessimismo - Lindau):

Sulla scia di Althusser un fiume di linguaggio pomposo fluì dal ventre della storia, che all’epoca si trovava nella rivista di sinistra ‘Tel Quel’. Questa rivista pubblicava saggi di Derrida, Kristeva, Sollers, Deleuze, Guattari e un altro migliaio di autori, tutti creatori di ciarpame intellettuale, del quale si capiva chiaramente solo un aspetto, vale a dire la sua qualità di ’sovversione’ rivoluzionaria. Il loro stile vaticinante, in cui le parole vengono scagliate come incantesimi piuttosto che utilizzate come argomentazioni, ispirarono innumerevoli imitatori nelle facoltà umanistiche di tutto il mondo occidentale. [...] Scrittori come Derrida, Kristeva e i loro successori più recenti come Luce Irigaray e Hélène Cixous dovrebbe essere letti semplicemente come militanti di sinistra. E le loro sciocchezze, riportate nelle note e nelle bibliografie di migliaia di riviste accademiche – fra le quali la più importante è la ‘Modern Language Review’ – sono state depositate in quantità degne di Augia su ogni possibile spazio disponibile dei programmi di studi. Il risultato di questo sforzo concertato di rendere inespugnabile la posizione di sinistra è stato un disastro intellettuale, paragonabile all’incendio della biblioteca di Alessandria, o alla chiusura delle scuole della Grecia”.

mercoledì 7 settembre 2011

Perché ragioniamo

The answer, according to Mercier and Sperber, is that reasoning was not designed to pursue the truth. Reasoning was designed by evolution to help us win arguments. That's why they call it The Argumentative Theory of Reasoning. So, as they put it, and it's here on your handout, "The evidence reviewed here shows not only that reasoning falls quite short of reliably delivering rational beliefs and rational decisions. It may even be, in a variety of cases, detrimental to rationality. Reasoning can lead to poor outcomes, not because humans are bad at it, but because they systematically strive for arguments that justify their beliefs or their actions. This explains the confirmation bias, motivated reasoning, and reason-based choice, among other things."

http://econlog.econlib.org/archives/2010/08/not_robin_hanso.html

mercoledì 13 luglio 2011

Le metafore contano… ma non troppo.

Katja Grace minimizza Lakoff.

George Lakoff has argued that metaphors underlie much of our thought and reasoning:

The science is clear. Metaphorical thought is normal. That should be widely recognized. Every time you think of paying moral debts, or getting bogged down on a project, or losing time, or being at a crossroads in a relationship, you are unconsciously activating a conceptual metaphor circuit in your brain, reasoning using it, and quite possibly making decisions and living your life on the basis of your metaphors. And that’s just normal. There’s no way around it! Metaphorical reason serves us well in everyday life. But it can do harm if you are unaware of it.

A different bike path by Moominmolly

Images also seem to play a big part in most people’s thought. For instance when I think ‘I should go home soon before it gets dark’ there are associated images of my hallway and a curve of the bike path in evening light. I wonder how much the choice of such images influences our behaviour. If the image was of my sofa instead of my hallway, would I be more motivated? If the word ‘dog’ brings to mind an image of a towering beast I saw once, am I less likely to consider purchasing a dog of any kind than if it brings to mind something rabbit sized? If ‘minimum wage’ brings to mind a black triangle of dead weight loss, am I less likely to support a minimum wage than if it brings to mind an image of better paid workers (assuming my understanding of economics and society are the same)? This seems like something people must have studied, but I can’t easily find it.

It seems likely to me that such images would make some difference. If it is so, perhaps I should not let the important ones be chosen so arbitrarily (as far as my conscious mind is concerned).