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Giuseppe Dossetti – Amore di Dio, coscienza della storia.
Si usa dire che la Costituzione italiana fosse il felice frutto dell’ incontro tra la cultura comunista e quella cattolica: in genere conosciamo bene la prima, molto meno la seconda. Almeno quella di cui si parla in riferimento alla Costituzione, visto che, a quanto pare, non ne esiste una sola.
Frequentare Giuseppe Dossetti aiuta senz’ altro a colmare la lacuna. Non solo partecipò ai lavori della Costituente, ma la sua opera fu particolarmente seminale, specie nella Democrazia Cristiana dei decenni a venire.
Non stiamo dunque cercando di resuscitare un polveroso ingegno politico del passato, bensì un’ intelligenza con influssi riconosciuti sull’ oggi, se è vero come è vero che discepoli entusiasti come Leopoldo Elia, Beniamino Andreatta e Romano Prodi hanno un peso anche sulla storia recente.
Il Cattolico adulto guarda a lui come a un capo stipite e alla sua (sofferta) riflessione come a un punto di riferimento.
… dobbiamo ora porci l’ obiettivo di formare le coscienze dei cristiani per edificare in loro l’ uomo interiore compiuto anche quanto all’ etica pubblica…
In questo messaggio c’ è già molto. C’ è per esempio l’ idea (sofferta) che il cristiano sia tale benché privo di coscienza e di etica pubblica. Ma c’ è soprattutto l’ idea (sofferta) di un’ avanguardia educatrice (noi, ovvero i “Cattolici adulti”).
La fiducia (sofferta) di poter formare e vigilare sulle coscienze altrui derivava al politico/monaco dalla ferma (ma sofferta) convinzione che:
… le conseguenze degli atti umani, in primo luogo quelli politici, non sono incalcolabili bensì perfettamente calcolabili…
Niente complessità o “battito d’ ali di farfalla” nella (sofferta) visione dossettiana: la realtà, e la realtà sociale in primis, è qualcosa di “pianificabile” attraverso le (sofferte) direttive emanate da un retto pensiero.
La sua voce (sofferta) si fece sentire anche negli anni novanta combattendo la “cultura dell’ uninominale” che pretende di sostituire la centralità comunitaria (ovvero del partito) con quella della persona. Ma soprattutto la “cultura della scelta”, e qui il bersaglio grosso fu l’ ideologo della Lega Gianfranco Miglio.
Per il pragmatismo di Miglio gli ordinamenti federali sono realtà dove centro e periferia trattano e negoziano senza sosta. La cosa suonava intollerabile: se le cose stessero così cosa differenzierebbe la politica dall’ economia? Cosa differenzierebbe il patto dalla sovranità?
Per Dossetti l’ enfasi sulla libera scelta (anche in politica) è un frutto avvelenato della decadenza occidentale.
L’ uomo nasce per aderire al bene non per scegliere tra bene e male, c’ è un elemento che va inculcato e che precede necessariamente la scelta volontaria e la libera conoscenza. Ci sono dunque doveri che s’ impongono prima ancora di decidere i comportamenti personali. La presenza di doveri che s’ impongono a priori (sottomissione delle periferie al centro, dei pianeti al sole) legittima la presenza di una classe adulta che provveda a imporli.
In Dossetti, sulla scorta del citatissimo Lévinas, la fede è innanzitutto morale, la ricerca di verità resta sullo sfondo.
Non solo, la fede rettamente intesa deve informare tutte le attività umane a cominciare da quella politica. Ma poiché la politica incide sulle vite altrui, se la morale è chiamata a questo compito, allora diventa necessariamente moralismo.
E così fu.
Persino una volta ritiratosi a vita monacale Dossetti si riteneva ancora “in campo”. A sentir lui mai come allora continuava a far politica:
1. Ostentando la sua castità intendeva combattere la polis moderna infettata dai divorzi, dal libero amore e da mille multiformi infecondità.
2. Uniformandosi a forme di povertà spartane intendeva ergersi a nemico della società opulenta consegnatasi alle cose materiali.
3. L’ amore e la sottomissione al fratello erano invece il modo migliore per lanciare la crociata contro tutte le guerre.
Personalmente è proprio dalla frequentazione di Giuseppe Dossetti che ho imparato a diffidare di certe pretesche austerità dall’ aria sofferente, scorgendo dietro di esse le forme dell’ autoritarismo moralistico più insidioso.
Samuel Bowels Herbert Gintis – A cooperative species. Human recoprocity and its evolution
A quanto pare c’ è gente che mantiene una condotta moralmente ineccepibile anche al gabinetto, quando nessuno vede.
Tutto cio’ è a dir poco imbarazzante, specie per un darwiniano duro e puro. Come spiegarlo?
Il darwiniano ci prova, beninteso. Punta sui “segnali” e sulle “assicurazioni”.
Dice per esempio che l’ altruista è al suo fondo un ipocrita con secondi fini intento a emettere “segnali” seducenti al fine di procurarsi una rete sociale e una reputazione che consentirà a lui o ai suoi familiari di sfangarla meglio in futuro.
Daje e ridaje, in un ambiente di interazioni ripetute, la strategia dell’ “ipocrita” fa emergere comportamenti altruistici anche in società composte da egoisti.
Molto istruttivo, ma il moralista one shot chiuso in bagno? Verso chi emette i suoi segnali? Con chi sta intessendo la sua rete assicurativa? Eppure è dotato di un’ intelligenza tale che gli consente di capire l’ inanità del suo “moralismo da cesso”.
Le persone possono cooperare perché ne ricavano un reciproco vantaggio (mutualismo), e fin qui la cosa è semplice da spiegare; ma, a quanto pare, cooperano anche con perfetti sconosciuti solo per il piacere di farlo (altruismo). E qui il darwinista si gratta la testa. Come puo’ un tipo del genere sopravvivere al filtro della selezione naturale.
Eppure “un tipo del genere” esiste. E chi non ci crede puo’ verificarne sperimentalmente l’ esistenza: basta digitare su google le paroline “ultimate game”.
Meglio rassegnarsi; e tra i rassegnati annoveriamo oggi personalità di prestigio come i matematici Bowels e Gintis: nel libro hanno smesso di chiedersi se esistono altruisti autentici per chiedersi come mai esistono e si riproducono.
Il loro modello esce dall’ angusto mondo dell’ utilitarismo darwiniano senza per questo rinunciare a baloccarsi con i meccanismi dell’ evoluzione.
Se volete capire come funziona la società umana e per mancanza di tempo siete alla ricerca di un resoconto parsimonioso, mandate a memoria due soli concetti chiave: “mano invisibile” e “dilemma del prigioniero”.
Sociologi, filosofi morali, economisti, sociologi, antropologi, quando arrivano al dunque, non fanno che prendere una posizione sui due punti citati.
La “mano invisibile” di Adam Smith ci spiega come l’ “egoismo” sia “costruttivo” e crei ricchezza. Il “dilemma” di Mancur Olson mostra come l’ assenza di “altruismo” alla lunga sia fatale.
L’ altruista dunque “serve” per superare brillantemente i “dilemmi”, ma come puo’ sopravvivere in un mondo di lupi?
Non ci vuole poi molto per capirlo, giusto tre concetti:
1. competizione tra gruppi;
2. vergogna, ostracismo, boicottaggio;
3. indottrinamento.
I gruppi competono tra loro esattamente come competono i soggetti. Far parte di un gruppo vincente è importante ma un gruppo senza “altruisti” sarà sempre perdente visto che s’ incarta sui “dilemmi”. Ci vuole un mix bene assortito per fare strada.
Gli economisti dimostrano che un sistema di libere interazioni tra egoisti ha un equilibrio ottimale, ma non dimostrano come e se puo’ essere raggiunto. Una cosa è certa: la presenza di altruisti facilità l’ impresa e contribuisce a stabilizzare un sistema siffatto.
Tutto questo gli “egoisti” lo sanno bene e si tengono cari i loro compari altruisti poiché non esiste propellente migliore per sospingere la locomotiva del treno su cui viaggiano.
Ma come li compensano in modo di farli campare (e riprodurre) dignitosamente?
Semplice: svergognando, emarginando e boicottando chi li offende; rendendo poi loro onore attraverso forme di indottrinamento sociale che esaltano i valori incarnati da questa preziosa élite. Dopodiché, non esitano a sacrificarli alla bisogna.
Più che di “altruismo”, allora, abbiamo bisogno di allevare “altruisti” da dare in pasto al Minotauro.
L’ “altruista” sarà anche un aborto dell’ evoluzione, ma il fatto è che viene rianimato, tenuto in vita e fatto riprodurre poiché si scopre quanto sia prezioso il suo apporto nella competizione tra tribù.
Tante tribù, tante guerre, tanti altruisti.
Perché il meccanismo funzioni è necessario che l’ altruista non si accorga di essere “usato” come un veicolo. Ancora meglio se nemmeno l’ egoista è cosciente di “usare” il suo prossimo.
Oltretutto, colpo di scena, la sottile linea che separa altruisti da egoisti non passa tra le persone ma attraverso le persone. Tutti noi siamo divisi più o meno a metà.
Una società prospera solo se incosciente, al punto che delucidazioni in merito devono essere fornite con il silenziatore per non suonare “scandalose”.
L’ ignoranza su questo punto diventa in qualche modo benefica.
Tutto cio’ è leggermente imbarazzante: gli altruisti esistono ma non sono al timone, bensì nel serbatoio, a fungere da carburante; non arriveranno alla meta ma saranno bruciati lungo il percorso; oltretutto, la cosa non puo’ essere detta senza penalizzare gravemente il gruppo in cui siamo imbarcati.
E’ la classica teoria autorimuovente: T1 è vera ma dobbiamo fare come se a essere vera fosse T2.
In questi casi trovo più semplice credere direttamente a T2 abiurando T1. In altri termini, compio la mia scelta epistemologica privilegiando la “semplicità”.
Finale. Se l’ altruismo esiste in natura e la natura puo’ “produrlo”, cio’ ha almeno un paio di conseguenze notevoli.
La prima è politica: l’ anarchia diventa compatibile con la prosperità. Che bisogno avremmo mai di un governo se esiste un senso del dovere che si forma in modo spontaneo grazie ai meccanismi evolutivi? Dai pascoli sulle Ande, alle regole tra balenieri, dalla pulizia dei fiumi alle leggi della filibusta, i casi concreti di produzione spontanea di beni pubblici è molto studiata dagli economisti. Due nomi per eventuali ricerche in rete? Robert Ellikson e (il recente Nobel) Elinor Ostrom.
L’ altra forse è ancor più sorprendente. Secondo la ricostruzione evoluzionistica, l’ “altruismo” si è sviluppato e gli “altruisti” sono stati “allevati” in seno al gruppo grazie all’ ambiente conflittuale in cui il gruppo viveva. Prendiamo un esempio di altruismo estremo, il kamikaze. Che ce ne facciamo se non ci sono guerre da combattere? E se il mondo diventa più pacifico? E se addirittura regnerà una pace universale? Bè, semplice, l’ altruismo e l’ altruista servirà molto meno. Un insulto come “moralista” avrà molto più senso. Un trauma per i molti bigotti ma anche un pericoloso via libera per molti ingenui libertini darwiniani.
Di sicuro un finale triste per i super-eroi che hanno accompagnato l' infanzia di una specie.
L’ inamidato moralista vittoriano non mi è certo simpatico, i suoi pressanti inviti a reprimere desideri e soddisfazioni sessuali danno un senso di claustrofobia. Ma anche l’ occhiuto bacchettone del terzo millennio ci fa mancare l’ aria quando vigila affinché le donne non esprimano i desideri e le soddisfazioni della maternità.
Da sempre i bacchettoni non si preoccupano tanto del “fare” quanto del “dire”.
Concediti pure qualche scappatella ma non vantartene al bar, resterai pur sempre un gentiluomo. Tuo figlio puoi anche amarlo e considerarlo centrale nelle tua vita, purché tu tenga la cosa sotto silenzio.
Il bacchettone del terzo millennio è un tipo moderno e perfino modaiolo, quando parla o scrive non manca mai di dire “cazzo”, “culo” e “figa”, sa bene che una parolaccia dà colore alla sua concione distinguendolo dai bacchettoni dei millenni precedenti (che odia), sa bene che un olio scurrile mette i righi in discesa trasportando senza sforzo l’ occhio di chi legge.
il bacchettone ama pavesare con decorazioni fulgide la frigidità che cova dentro, conosce a menadito la cosmesi dello scheletro.
… altre morti decorate da Cedric Laquieze…
Il bacchettone del terzo millennio è intriso di esotismo provinciale, vive di rimpianti spaziali, specie se non ha votato il governo in carica. Il rincoglionito dall’ età continua dire “ai miei tempi tutto era meglio…”, il rincoglionito da “bacchettoneria” continua a dire “nei paesi che ho visitato io, tutto è meglio, tutto è più avanti…”
Naturalmente è ateo e dall’ evoluzionismo si fa spiegare tutto, anche perché preferisce lo spaghetto alla pasta corta o la neo-hippy-psico-indie al death metal. Senonché, quando la psicologia evoluzionista entra nel suo “core business” e comincia a parlare della riproduzione con enfasi teleologica, si sintonizza immediatamente su altri improbabili canali.
Il bacchettone del terzo millennio, come tutti i bacchettoni, ha sempre voglia di menar le mani. Aderire alla crociata o, ancora meglio, organizzarne in proprio, lo manda in visibilio.
La sua rissa preferita è con chi sostiene che “per le donne l’ unica realizzazione sta nel procreare”. Ha sempre sognato che in un dibattito il suo dirimpettaio dica qualcosa del genere. Solo che, malauguratamente per lui, non lo sostiene quasi più nessuno e per sfogarsi non gli resta che prendersela con chi si limita ad osservare “mio figlio è la cosa più importante che ho”.
In fondo cambia poco. Perché?
Semplice. I bacchettoni, di qualsiasi millennio essi siano, vivono nell’ ansia costante che la società sfugga loro di mano, sono sempre lì che le sistemano un po’ meglio la museruola.
Se la fissa per il sesso si diffonde e si sdogana, la buona società inglese si trasforma in una gigantesca orgia perdendo in un sol colpo self control e impero. Se dici che tuo figlio è importante, alimenti uno stereotipo che ci rispedisce all’ età della pietra.
E allora? Allora… avanti con l’ ipocrisia di un frigido ordine politically correct, con le quote disegnate sulla carta millimetrata, con geometriche par condicio.
Con il suo compasso e il mozzicone di matita dietro l’ orecchio, il bacchettone del terzo millennio aspira grazie a una compulsione censoria a progettare l’ uomo perfetto… Perfetto nella cartapecora della sua etichetta. I comportamenti reali, ovvio, sono secondari (è un bacchettone sì o no?).
L’ importante è che, quando torna da un viaggio di lavoro, costui risponda alla balia che ventila l’ ipotesi di quanto i figli siano mancati, un socialmente edificante, sonoro e (speriamo) ipocrita: “niente affatto” (sic).
Un esempio di bacchettone? Matteo Bordone.
Un altro? Ancora lui.
In una serie di vecchi post me la prendevo con il neo-femminismo puritano. Il capo d’ imputazione era forte: “moralismo”.
Dico “forte” perché so che da quelle parti un’ etichetta del genere, che altrove sarebbe un vanto, è mal digerita.
In effetti, essere considerati dei “moralisti” non è molto “cool” al giorno d’ oggi, eppure non voglio dar l’ impressione che sia sempre un atteggiamento condannabile.
Vediamo allora di distinguere il “moralismo cattivo”, imho quello delle neo-femministe, da uno più accettabile se non auspicabile.
[“Moralista” = è colui che non si limita ad osservare una certa regola etica di comportamento ma fa di tutto, o comunque s’ impegna, affinché anche gli altri si uniformino alle sue preferenze]
***
Se la morale non esistesse, esisterebbero solo individui egoisti che perseguono razionalmente il loro bene personale.
Ma attenzione, anche l’ egoista razionale, grazie al miracolo laico dell scambio, puo’ fare del bene: Tizio, infatti, si arricchisce e soddisfa i suoi obiettivi quanto più soddisfa prontamente i bisogni di Caio.
Questo è tanto vero che per alcuni autori è tutto: la morale si produce in modo endogeno, fine del discorso.
Per questi autori non serve un “uomo morale”, figuriamoci se serve un “moralista”.
Ma questa logica incontra ostacoli non da poco che si manifestano nel cosiddetto dilemma del prigioniero:
Provate a leggere che che si tratta, vi accorgerete che in quei casi se mi comporto da egoista non costruirò mai “un mondo migliore”.
Ci sono molti dilemmi che derivano da quello originario. Sono tutti casi in cui la tentazione opportunistica (free riding) compromette il bene comune.
Questa critica non è tanto rivolta agli “egoisti”, in fondo costoro non hanno come obiettivo quello di migliorare il mondo in cui vivono, quanto a chi sostiene che un “mondo egoista” possa essere anche un “mondo migliore” per tutti.
Spesso la politica è chiamata in causa per raddrizzare queste storture, senonché quasi sempre la toppa che mette è peggio del buco.
La cosa migliore sarebbe allora l’ entrata in scena del cosiddetto “Uomo Etico” (UE).
UE segue dei principi etici e a quei principi uniforma con zelo i suoi comportamenti nella speranza di creare il fatidico mondo migliore.
Ebbene, possiamo dire fin da subito che non riuscirà mai a dar corpo alla speranza perché quei suoi principi, qualsiasi essi siano, libereranno interazioni in stile “dilemma del prigioniero”. Situazioni in cui per perseguire gli obiettivi di UE sarebbe meglio non adottare i principi di UE.
Ogni etica del “buon senso” (ama i tuoi figli, la tua famiglia, la tua patria…) è soggetta al “dilemma”, esattamente come la razionalità egoista.
Solo chi si pone per obiettivo diretto “la costruzione di un mondo migliore” (conseguenzialismo), evita il “dilemma”. Vivendo in un mondo dove il battito d’ ali di una farfalla scatena gli uragani, giusto uno “gnostico” cova progetti tanto ambiziosi. E i danni dello gnosticismo sono noti.
Oltre a essere proco verosimile, un’ etica conseguenziale ha altri difetti: conduce spesso a conclusioni ripugnanti ed è auto-rimuovente.
Scartata la politica e scartato il “conseguenzialismo”, per fortuna ci sono altri rimedi. Ma per sfortuna dobbiamo constatare che sono tutti rimedi-monchi.
Si può chiedere all’ uomo di coltivare un certo altruismo, ma l’ altruismo crea altro opportunismo. Si possono chiedere “test kantiani” (faccio solo cio’ che sarebbe un bene se facessero tutti), ma il test kantiano spesso è assurdo. Si puo’ invocare la fiducia nel prossimo, ma la fiducia nel prossimo non garantisce una buona uscita dal dilemma.
Alla fin fine il miglior modo per uscire da dilemma è quello di appellarsi ad una sincerità introspettiva.
Da quanto detto comprendiamo quale sia l’ ossatura di un’ etica ben costruita: sani prinicipi + riluttanza all’ opportunismo nei casi evidenti di free riding.
Ma un’ etica aprioristica (fondata sui principi) revisionata in questo modo non puo’ più nemmeno dirsi aprioristica visto che per evitare i comportamenti opportunistici ci tocca calcolare esattamente le conseguenze dei nostri atti.
E’ un ibrido!
Per costruirla gli aprioristi e i conseguenzialisti devono allearsi e rendersi conto che stanno scalando la stessa montagna da versanti diversi.
L’ ossatura della mia etica laica preferita per costruire un “mondo migliore” è all’ incirca questa: rispetto della proprietà + sincerità.
Trasparenza e Proprietà. E’ un’ etica piuttosto borghese, lo ammetto.
Oltretutto la “sincerità” e il culto della “proprietà”, spesso creano danni. Ma non esiste al momento una formula per delimitare la parte benefica!
In genere mi attengo alla mia “etica da un rigo”, a meno che qualcuno mi dimostri in modo evidente che ci sono inconvenienti. Esempio: la bugia pietosa porta benefici evidenti, e io rinuncio al mio “principio di sincerità”. I problemi di "common knowledge" impediscono alla "sincerità" di essere un principio assoluto. Un ubriaco alla guida costituisce un pericolo evidente, e io rinuncio al mio principio di proprietà.
L’ uso dell’ economia mi consente di ridurre al minimo le mie “rinunce” poichè l’ economia rende difficoltoso enucleare “evidenze” contrarie ai miei principi. E quando il calcolo delle “evidenze” si fa confuso ed incerto, l’ appello ai principi diventa decisivo.
Ed ora veniamo ad una conclusione possibile.
Penso che l’ atteggiamento moralistico abbia un qualche senso nel momento in cui crea ostacoli al free rider.
Ecco allora la risposta che cercavamo: il “moralismo buono” consiste nel sanzionare moralmente chi è aggressivo con la proprietà altrui, nonché l’ ipocrisia (insincerità) di chi sfrutta le situazioni stilizzate nel “dilemma del prigioniero”.
Tutto il resto è moralismo cattivo, il moralismo di chi al mercato compra le carote facendo la “predica” a chi preferisce le zucchine.
Derek Parfit – Reasons and Persons