giovedì 12 ottobre 2017

L’ambiente ostile

L’ambiente ostile

La legge proibisce i comportamenti illeciti.
Ma anche i comportamenti che sembrano illeciti.
La cosa sembra trascurabile, cessa di esserlo quando parliamo di leggi contro le molestie sessuali sul luogo di lavoro, laddove la seconda categoria di comportamenti è più estesa della prima.
Le misure anti-molestia risultano di fatto un deterrente anche verso la comunicazione più innocente e fruttuosa.
I rischi sono evidenti: colpire le relazioni sociali in azienda. Per come le imprese generano il loro valore, la cosa è tutt’altro che marginale.
La molestia sessuale si distingue per intervenire in uno spazio molto privato. Gli equivoci sono sempre dietro l’angolo: è facile dimostrare che qualcuno vi ha rotto una gamba, molto meno che qualcuno vi ha mancato di rispetto.
Nelle aziende i manager hanno imparato a temere le denunce e su questo rischio tarano le loro scelte. Parliamo di una categoria particolarmente dedita alla scelta razionale.
Naturalmente, i manager sanno bene che una lavoratrice scontenta o di cattivo umore è anche una mina vagante per la loro carriera. Scansarla diventa una priorità.
La molestia è definita come “un approccio fastidioso a sfondo sessuale” realizzato in ambito lavorativo.
Fastidioso? Sì, la dimensione soggettiva predomina. Evidentemente parliamo di qualcosa di molto vago.
Il legislatore, per combattere al meglio lo spiacevole fenomeno, ha responsabilizzato le imprese colpevoli in automatico di creare un “ambiente ostile” laddove la molestia prende corpo.
Si ritiene che la presenza di molestie sia una forma di segregazione sul posto di lavoro.
Nel disperato tentativo di evitare un coinvolgimento giuridico le imprese si son messe ad organizzare corsi per i dipendenti sul tema. È sorta una vera e propria “industria della prevenzione” con la filiera degli avvocati, quella degli psicologi e quella dei sessuologi.
Una reazione del genere, per quanto comprensibile, ha solo peggiorato le cose. Vediamo perché valutando le conseguenze del proibizionismo.
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Sul piano delle conseguenze gli studiosi si dividono, alcuni ritengono che le politiche proibizioniste siano necessarie ed efficienti, altri che il problema si affronti meglio affidandolo alle naturali correzioni del mercato.
Il problema centrale di tutta la faccenda è capire quando siamo di fronte ad una molestia sessuale. La possibilità di incorrere in errori è elevata, questo anche perché lo stesso comportamento puo’ essere molesto oppure no: dipende dal contesto e dai soggetti coinvolti.
Se diamo una scorsa ai casi approdati in aula giudiziarianotiamo molte situazioni che sembrano inoffensivi ai più ma che contestualizzate possono turbare le persone coinvolte.
Per mettersi al sicuro da eventuali denunce molte multinazionali scelgono una policy più stringente di quella prevista dalla legge, a volte sfiorando il ridicolo. Forse è anche un modo per apparire “all’avanguardia” sul fronte dei diritti. Sta di fatto che ne esce un quadretto piuttosto comico.
Sia come sia una cosa è certa: la legge ha sensibilmente diminuito gli incentivi ad interagire in modo spontaneo. Meglio isolarsi dedicandosi al proprio smartphone.
Probabilmente, rischi del genere contribuiscono al cosiddetto “soffitto di vetro”, ovvero quella roba per cui le donne ormai costituiscono la maggioranza della forza lavoro ma sono scarsamente rappresentate al top della piramide gerarchica. Gli uomini vedrebbero come un rischio la loro vicinanza ed evitano finché possono di “promuoverle” al loro livello.
Un altro effetto è il cambio nella composizione della forza lavoro. Diventa molto più conveniente per l’azienda concentrare persone dello stesso sesso negli stessi uffici. Basta con gli uffici “misti”… o gli avvocati ci dissanguano!
A volte sembra si esageri ma la cosa non va sottovalutata: nella scuola la sensibilizzazione al rischio pedofilia ha di fatto generato la scomparsa di un mestiere un tempo onorato: quello del maestro.
D’altro canto le molestie sul lavoro moltiplicano i divorzi, un costo sociale decisamente importante.
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La letteratura empirica ha cercato di pesare gli effetti di una molestia. Le variabili prese in considerazione sono state essenzialmente lo stress sul posto di lavoro, il calo di produttività e le dimissioni.
Le conclusioni raggiunte sono miste: alcuni riscontrano un collegamento tra molestia e soddisfazione lavorativa, altri no.
I secondi criticano le proxy scelte dai primi e rilevano il trascurato problema dell’ “endogenità”: le donne che riferiscono di molestie potrebbero essere anche quelle meno soddisfatte del loro lavoro a prescindere.
Inoltre, il collegamento si dissolve se “controllato” con la “personalità psicologica” delle vittime.
A proposito, ecco un’altra importante scoperta: quel che conta è ciò che la donna sente più che quello che gli accadde. Quel che conta è la percezione dei comportamenti altrui e non i comportamenti in sé.
La percezione è tutto.
Esempio: entrambi i generi sono molto più predisposti a percepire molestia se a relazionarsi con loro è un capopiuttosto che un collega. Dal capo l’abuso è più atteso, e il fatto di essere atteso basta per “vederlo”.
Da un certo punto di vista la cosa ci tranquillizza: all’interno dell’azienda le relazioni con i colleghi sono molto più frequenti ed intense rispetto a quelle con i capi.
Ma c’è di più: la partecipazione a corsi anti-molestia acuisce la sensibilità e il malessere. Chi “frequenta” comincia a vedere abusi ovunque e a star male anche dove prima stava bene.
La partecipazione ai corsi anti molestia è fortemente correlata con l’insoddisfazione lavorativa.
Del resto, abbiamo appena detto che la partecipazione ai corsi fa percepire molestie ovunque e la percezione di molestie e correlata al insoddisfazione lavorativa.
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C’è poi un’osservazione empirica indiretta ma decisiva: la produttività di un ufficio è “interdipendente”. Si basa cioè da come si coordinano le produttività dei singoli.
La fonte principale del circuito virtuoso è lo scambio intenso e continuo di informazioni tra gli appartenenti allo stesso ufficio, qualcosa che la lotta alle molestie mina alla radice.
Questo fatto è estremamente rilevante e sostiene l’importanza di esaminare qualsiasi “politica dei diritti” alla luce dell’ostacolo comunicativo che introduce.
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In generale, gli economisti sottolineano l’inefficienza di qualsiasi proibizione: proibire le molestie significa di fatto proibire un contratto volontario.
In che senso? Un datore di lavoro che intende provarci col suo personale femminile potrebbe pagare alle donne uno stipendio più elevato affinché costoro affrontino il rischio correlato, e per molte – quelle con più pelo sullo stomaco – la cosa si trasformerebbe in un affarone… che il proibizionismo manda in fumo.
Del resto, prima parlavamo di ambiente ostile. Ebbene, ci sono moltissimi casi in cui un premio salariale compensa chi lavora in “ambienti ostili”. L’autista che trasporta esplosivi ha una paga ben più elevata di chi trasporta barbabietole.
Ma alcuni ritengono che il proibizionismo sia efficiente poiché abbiamo a che fare con preferenze malleabili. Il molestatore può essere “curato” e perdere il vizietto. D’altronde, chi tollera la molestia può essere “curata” e rimuovere questa insana tolleranza. Il proibizionismo sarebbe quindi è “dinamicamente efficiente“.
C’è poi chi sottolinea l’asimmetria informativa che renderebbe più difficoltosa l’autocorrezione del mercato. Vale a dire, quando una donna cerca lavoro non sa a priori se l’ambiente in cui andrà a lavorare sarà più o meno ostile, il che non rende l’antiproibizionismo più efficiente a prescindere. Inoltre, le lavoratrici più virtuose sarebbero comunque penalizzate da salari più bassi, e questo va in ogni caso evitato per ragioni etiche.
Ma l’antiproibizionista insiste che si tratta pur sempre di un problema di produttività e in quanto tale può essere trattato efficientemente all’ interno dell’azienda. Perché mai un’ azienda, infatti, dovrebbe accettare che alcune sue lavoratrici siano insoddisfatte e non contribuiscano come possono allo sforzo produttivo? Lavoratrici insoddisfatte e desiderose di andarsene rendono meno e sono quindi un problema innanzitutto per il padrone. E’ il mercato stesso a fare piazza pulita delle imprese meno efficienti che, per quanto detto, sono anche quelle che più tollerano la molestia sessuale.
Sì ribatte che la legge può comunque velocizzare questo processo virtuoso di espulsione.
Altra critica al proibizionismo: le leggi sulle molestie creano degli enormi quanto ingiustificati costi di applicazione (telecamere, processi, interrogatori, divisioni, errori giudiziari…). In questo senso, poiché tali costi vengono poi trasferiti ai consumatori, sono un danno per la collettivitàintera.
Gli antiproibizionisti fanno anche notare che la presenza di leggi ambigue contro le molestie danneggia innanzitutto il gentil sesso: le donne potrebbero avere più difficoltà ad essere assunte o comunque a godere di salari parificati all’uomo. Si tratta in pratica di una versione estesa a tutte del “soffitto di vetro”.
Ma la critica più ficcante contro il proibizionismo è decisamente quella che punta il dito sul declino delle relazioni sociali.
Facciamo un esempio: l’azienda, insieme all’università, e anche la più efficiente agenzia matrimoniale. Una funzione destinata a subire un duro colpo.
Altro esempio: molto spesso il capitale umano in azienda si forma attraverso una vicinanza al capo chiamato praticamente a fare da chioccia e a instaurare una relazione vicina a quella del mentore. Una procedura destinata a  svanire per i rischi che comporta.
Altro esempio, il valore della diversità. Se persone diverse lavorano insieme probabilmente queste differenze verranno valorizzate in un interscambio. Ma se la vicinanza di uomini e donne (una delle differenze più benefiche) diventa problematica questi benefici collassano.
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Quando una persona sa generare valore costruendo una fruttuosa rete di contatti si dice che possiede un elevato capitale sociale.
In azienda il capitale sociale delle persone è una manna: intense relazioni sociali possono essere sfruttate per realizzare forme di cooperazione produttiva.
In altre parole, l’impresa ha un chiaro incentivo ad impiegare persone che posseggono un alto capitale sociale. Bene, provvedimenti contro le molestie disseccano questa fonte di valore.
Meno relazioni, meno cooperazione, meno diversità, meno socialità, meno interazioni, meno produttività.
Il punto chiave di tutto è quindi il trade-off che esiste tra deterrenza della molestia e deterrenza alla libera comunicazione.
La paura della molestia e la paura dell’equivoco comprimono la produttività dell’impresa.
Abbiamo appena visto che  la percezione e tutto, i fatti oggettivi quasi niente. Per questo l’equivoco si annida ovunque.
Le politiche pubbliche – come le politiche aziendali – che acuiscono la percezione della molestia, acuiscono anche la repressione comunicativa. L’azienda dovrebbe scoraggiare l’ipersensibilità delle donne. Qualora non si agisca efficacemente su questo fronte la donna rischia di essere vista come collega indesiderabile e da evitare: la sua promozione ai ranghi più elevati si trasforma in un costo innanzitutto per chi la promuove, il quale agirà con riluttanza.
Si può concludere dicendo che la molestia sessuale non puo’ essere trascurata per i costi che genera, soprattutto a livello familiare (divorzi). Tuttavia, qualsiasi sia la politica per combatterle, bisognerebbe lasciare un ruolo anche al mercato, ovvero all’istituzione più flessibile e informata a nostra disposizione. Inoltre, la formalizzazione della prostituzionepotrebbe attenuare il problema mantenendo la sfera sessuale e quella lavorativa ben distinte.
6 letture
David Laband+Bernard Lentz “The Effects of Sexual Harassment on Job Satisfaction, Earnings, and Turnover among Female Lawyers.”
Heather Antecol+Deborah Cobb-Clark: “Does Sexual Harassment Training Change Attitudes? A View from the Federal Level.”
Kaushik Basu: “The Economics and Law of Sexual Harassment in the Workplace”
John Donohue: “Prohibiting Sex Discrimination in the Workplace: An Economic Perspective.”
Richard Posner: “Employment Discrimination: Age Discrimination and Sexual Harassment.”
Elizabeth Walls: “Sexsual Farassment policy and incentives to social interaction”
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