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mercoledì 11 gennaio 2012

Un po’ di serietà!

Robert Baird – Categorie per la storia delle religioni
Lo studioso è alla ricerca di una definizione per il termine “religione”.
religion
Lo animano due motivi.
1. I suoi insigni colleghi ignorano volentieri i problemi definitori inclini come sono ad assumere, più o meno consapevolmente, che il termine si spieghi da sé. In un certo senso è come se protendessero il dito dicendo: “per religione intendo quello”. George Foot Moore, Mircea Eliade, K.L. Bellon, Rudolf Otto, A.E. Haydon, W.C. Smith… tutti su quella linea. Ma Baird non ci sta.
2. Respinge anche l’ affidamento all’ etimo e il rinvio che ne fa, tra gli altri, C.J. Bleeker, studioso per cui la religione è sempre stata ed è tutt’ ora il modo in cui l’ uomo organizza la sua relazione con il trascendente.
Interessanti i motivi della presa di posizione di cui al punto 2: una definizione del genere eliminerebbe dal campo religioso non solo la tradizione Pali come pure il Confucianesimo, ma anche il Comunismo, il Nazionalismo e il Laicismo…
Avete capito bene: comunismo, nazionalismo, laicismo eccetera devono rientrare a pieno titolo tra le religioni e, quindi, occorre una definizione che le inglobi.
La soluzione migliore è rinvenuta nel lavoro del teologo Paul Tillich il quale propone di interpretare la religione come “ultimate concern”.
Religione è tutto cio’ che costituisce “preoccupazione ultima”.
Dicendo “ultima” si evita di introdurre elementi metafisici. “Ultimo” è cio’ che esiste di più importante al mondo per la persona o per il gruppo di persone in questione.
Corollario: solo il nichilista puo’ dirsi ateo. Per lui non esiste niente che possa considerarsi “ultimo”, una cosa vale l’ altra.
Ma direi di più, nell’ apologetica di Tillich la religione non puo’ essere rifiutata con “serietà ultima” perché la “serietà” è già di per sé una forma di religione.
Con una definizione siffatta lo storico delle religioni è finalmente legittimato a occuparsi anche di fenomeni quali il comunismo, il laicismo, o il terrorismo; non solo, anche il fanatismo che circonda i cantanti pop, tanto per dire, rientra nelle sue competenze! L’ intuizione è felice poiché gli strumenti a disposizione sembrano idonei a gettare luce anche su quei fenomeni!
Il passaggio dalla capanna dello sciamano alla cameretta della groupie appare, in effetti, compiersi senza traumi di sorta.

lunedì 3 ottobre 2011

Riflessioni libertarie sul Vangelo del 20.8.2011

13 Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». 14 Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti». 15 Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». 16 Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». 17 E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. 18 E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. 19 A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli». 20 Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo

Jeffrey Catherine Jones

Cedo la parola a un incazzatissimo Pietro De Marco, il quale non commenterà il Vangelo, bensì una, a suo dire, stomacante predica a quel vangelo, una di quelle non rare prediche che si rischia di ascoltare laddove il prevosto è un po’ “troppo preparato”.

La garbata omelia, di fronte a un pubblico di fedeli numeroso – è falso che le chiese siano “sempre più vuote” – è dedicata al “dialogo”, all’attraente “dialogare” tra Maestro e discepoli, che sembra rendere la pagina evangelica alla portata della nostra vita.

Così ci viene detto che, in Mt 16, Gesù rivelerebbe un umanissimo bisogno di riconoscimento e Pietro affermerebbe con calore, con personale veracità (cose che il testo non dice), la fede nel Figlio del Dio vivente, che ha dinanzi. Gesù riconosce e premia Pietro non tanto per l’esattezza, la verità, della professione di fede quanto per la sua vitalità esistenziale, affettiva. Con l’immancabile evocazione del filosofo Lévinas, il predicatore elogia di Pietro non la conoscenza, che “imprigiona l’Altro” (insopportabile novecentismo, creduto ormai solo da letterati e teologi), ma la scoperta.

Il dialogo di Mt 16, di enorme portata nella storia e fede cristiana, viene così piegato all’incontro tra due psicologie, nel migliore dei casi tra due persone particolari, dando sfogo ai predicabili conseguenti: la nostra fragilità e la sincerità reciproca, il giudizio di una vita (”cosa sono per te”). Solo poi, dalla lettura della preghiera dei fedeli, i presenti scoprono che la liturgia della domenica è infine dedicata a Pietro (”Tu es Petrus”, “non prævalebunt”, il potere delle chiavi sono in Mt 16), e che la “lex orandi” di questa domenica guarda al vescovo di Roma. Ma, anche tollerando la sottovalutazione dei contenuti cattolici delle parole di Gesù, restano drammaticamente in ombra i significati della confessione dell’apostolo: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”; un sapere decisivo per noi, e non certo perché Mt 16 sarebbe un buon esempio di dichiarazione d’amore e di scoperta dell’Altro. E perché ignorare ciò che Gesù dice a Pietro: “Né carne né sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio”? Il cuore di Mt 16 è teocentrico, anzi trinitario; perché farne una fiaba relazionale per l’esistenza cristiana, che è molto di più ed è anche intelletto?

Dietro la perdonabile retorica che fa dire dal pulpito: “È più importante in Pietro l’accento che il contenuto del ‘Tu sei il Cristo’, più la risposta del cuore che la verità della mente” – per cui a rigore qualsiasi cosa detta da Pietro con la stessa intensità soggettiva sarebbe “vera” –, si riconosce la rottura postconciliare dell’unità necessaria tra “fides quae” e “fides qua”

E questo sarebbe fede vivente!  Ma tra la fede che è creduta, cioè il canone di fede, la “analogia fidei”, e la fede con cui si crede, ovvero tra la verità e l’atto di assenso ad essa, il rapporto è inscindibile. Non è il tono dell’assenso che fa la verità. Non esiste assenso senza il suo oggetto, non “fides qua creditur” senza “fides quae creditur” che la precede; la fede non è generata, né autenticata, dall’atto o dal sentimento individuale.

Non lo si creda chiarimento superfluo. Su questo vi è un penoso disordine nelle Chiese cristiane. Ma se le verità del “Tu es Christus” come del “Tu es Petrus” si riducessero davvero a figure o parabole per vivere meglio piccole vite, piccole biografie, sarebbe coerente smettere di confessare Cristo, Figlio del Dio vivente.