Contro la civiltà
Fa politica solo per ostacolare chi crede nella politica, ovvero il progressista.
È il progressista a credere nella politica, è lui acredere che il progresso venga da lì.
Anzi, il concetto stesso di progresso rinvia ad unmiglioramento ottenuto grazie alla politica.
Il conservatore, non credendo nella politica, dubita anche del progresso.
Questa mancata fede nel progresso in politica lo penalizza. A dir la verità lo pone proprio fuori dai giochi.
L’idea di progresso è talmente scontata che chi la nega non comunica più col prossimo.
***
Ogni civiltà tende a considerarsi la migliore, tranne noi che siamo umili.
Umilissimi.
Tuttavia, anche noi adottiamo dei trucchetti per riferirci indirettamente alla nostra superiorità, penso appunto al concetto che abbiamo elaborato di “progresso”.
Diciamo che noi non siamo “i migliori” ma poi agiamo come se volessimo uniformare gli altri a noi dando per scontato che la nostra condizione è la più avanzata.
Il mito del progresso è il nostro modo per affermare la superiorità del nostro mondo su quello altrui.
C’è qualcosa che ci fa sentire “superiori”. Cosa? Essenzialmente il fatto che non torneremo mai indietro.
Ma questo non significa di per sé che è stato un bene “andare avanti”. Se la cosa sfugge conferiamo un vantaggio non da poco al pensiero progressista.
Il progressista ti dice: “vedi come oggi stiamo meglio?, vedi come sono migliorate le cose?, lo tocchi con mano anche tu considerando il fatto che non torneresti mai e poi mai indietro!”
Il reazionario casca subito nella trappola negando l’evidenza. Rivendicando un ritorno al passato si disconnette in modo palese dalla realtà, perde il contatto con i suoi simili, non riesce ad accettare una realtà chiara a tutti, ovvero che noi non torneremo mai e poi mai indietro!
Il buon conservatore invece sa che il rifiuto di tornare indietro è comunque compatibile con il fatto che sia stato un male “andare avanti”, e su questa compatibilità fonda la sua speculazione.
È un po’ come se ci avessero rapito e portati su una barca in mezzo al mare. Dopodiché il rapitore ci pone una domanda capziosa: “ti piace di più stare qui o tornare a casa tua? Se ti piace di più tornare sei libero di tornarci!”. Ovviamente 1) noi torneremmo volentieri a casa ma 2) sarebbe assurdo farlo visto che annegheremo nell’oceano.
Ma c’è di più. Concentriamoci su coloro che sono rimasti “indietro”. Perché gli zingari, per esempio, sono così restii ad integrarsi?
Ma non vedono come la nostra civiltà sia superiore e garantisca sia una maggiore prosperità che una maggiore libertà?
No, non lo vedono. Sono proprio pazzi.
La loro cecità ci inquieta.
Significa forse che la nostra civiltà non è così superiore come crediamo? Certo che un minimo di dubbio ce l’ho insinuano.
Chissà che la civiltà non sia un regresso rispettoalla barbarie, e questo nonostante sia fuori discussione un nostro ritorno al passato.
Altro esempio: i nativi americani sono stati per molto tempo a stretto contatto con una delle civiltà più prospere ed avanzate del pianeta, ovvero quella americana. Possibile che non si siano convertiti al progresso?
Possibile che non abbiano colto la superiorità del modus vivendi statunitense? Possibile che non abbiano bisogni che la modernità non sia in grado di soddisfare all’istante? Sono forse solo degliorgogliosi testardi che fanno finta di nulla o nel loro rifiuto c’è di più?
È decisamente sconcertante che preferiscano vivere in ghetti ripugnanti come le riserve piuttosto che accomodarsi in città avveniristiche.
E vabbè, peggio per loro. Non sono loro che mi interessano, siamo noi. Il fatto che questi selvaggi preferiscano arrangiarsi altrimenti forse significa che per loro è meglio così, che sono più felici così.
Forse significa che il loro modo di vivere è migliore del nostro, Il che è decisamente inquietante.
Nel giudizio sul presente il fatto che “noi” non torneremmo mai indietro non può pesare di più rispetto al fatto che “loro” non vogliono “andare avanti”.
Sì noti poi che le cose non vanno sempre in questo modo. I cittadini dell’Unione Sovieticaconoscevano da lontano lo stile di vita occidentale e questa conoscenza ha contribuito in modo decisivo a far crollare un impero. In quel caso, evidentemente, quegli uomini, diversamente dagli zingari e dai nativi americani, volevano eccome “andare avanti”. Noi non vorremmo mai trovarci nelle loro condizioni e loro preferiscono cambiare e vivere secondo il nostro stile di vita. In questo caso sì che c’è concordanza, e quindi la superiorità del nostro stile di vita può essere affermata con maggiore sicurezza.
Potrei aggiungere il caso storico della “rivoluzione industriale“: dalle campagne di Londra i contadini affluirono spontaneamente a frotte in città per ingrossare la manodopera. Evidentemente, miglioravano la loro condizione.
Un altro caso è quello dell’immigrazione: l’immigrato parte spontaneamente!
***
Amish, zingari, pellerossa… ma non stiamo parlando di casi marginali? Di situazione scelte ad hoc per giungere alla conclusione desiderata?
Si potrebbe aggiungere benzina sul fuoco affermando che un secolo fa le donne erano probabilmente più felici e più libere di oggi. Poiché quando parliamo di donne parliamo della metà della popolazione, la cosa comincia ad essere rilevante.
Ma forse ancora non basta, cerchiamo allora di concentrarci sul caso più generale concepibile da uno storico.
Nella storia dell’uomo cosa possiamo contrassegnare come “progresso” per antonomasia? Quando possiamo dire che è cominciato? E, una volta individuata questa soglia, c’è stata resistenza ad oltrepassarla o tutti sono corsi oltre invidiando chi l’ha fatto per primo?
Certo, che se trovassimo una soglia che tutti ambissero a oltrepassare a che, una volta oltrepassata, non fomentasse nostalgie, l’esistenza del Progresso sarebbe dimostrata una volta per tutte.
Cerchiamo di fare delle ipotesi.
Progresso fa rima con civiltà, che fa rima con città. La città: un insieme concentrato e ordinato di uomini, cose, animali e piante che convive in modo sedentario e pacifico.
Cosa c’è di più potente sul nostro pianeta che una città umana?
La città umana puo’ avere un solo nemico: un’altra città umana.
Il passaggio dell’uomo dai boschi – dove viveva in bande disperse – alla città puo’ ben definirsi il Progresso con la P maiuscola.
La città umana è qualcosa di relativamente recente, ha circa 6000 anni.
Ma forse anziché di città dovremmo generalizzare parlando di Stato, ovvero quell’istituzione che concentra, scheda e ordina la convivenza umana. Lo stato è il trionfo della ragione. E’ la ragione applicata alle relazioni umane.
La città degli uomini nasce essenzialmente inMesopotamia, quindi in tempi recentissimi, parliamo dell’ultimo 5% della nostra storia.
Se invece avessimo in mente la città moderna,quella fatta funzionare dell’energia fossile, allora dobbiamo datare il suo inizio a fine Ottocento, ovvero nell’ultimo 0,25% della nostra storia.
Sia come sia lo Stato si è rivelata un’istituzione talmente potente da consentire all’uomo dicambiare l’aspetto dell’ambiente che lo ospita. Un vero e proprio balzo per le sorti dell’umanità.
Lo scienziato del clima Paul Crutzen ha parlato di “Antropocene” per definire l’epoca storica in cui l’uomo diventa decisivo nel modellare l’ecosistema in cui è immerso.
Ma quando inizia l’ Antropocene? Siamo sicuri che inizia con lo stato? Alcuni propongono come punto di inizio il primo test nucleare.
Altri pensano alla rivoluzione industriale e all’uso massiccio dell’energia fossile.
Altri ancora si rifanno alla disponibilità di alcuni mezzi come per esempio la dinamite o il bulldozer, che hanno facilitato l’opera trasformatrice dell’uomo.
In questi casi l’ Antropocene inizierebbe giusto qualche “minuto” fa.
Alcuni propongono allora di retrodatarlo alla scoperta del fuoco, il primo vero grande “attrezzo” dell’uomo.
In questo caso però torneremmo indietro di 400000 anni, in un periodo ben precedente la comparsa dello stesso homo sapiens. Un po’ troppo.
Dopo il fuoco fu l’agricoltura, apparsa circa 12000 anni fa, a segnare un punto di svolta importantissimo.
Ecco, ci siamo, con l’agricoltura comparve anche la città, o meglio, lo stato.
Un attimo dopo (circa seimila anni dopo) la comparsa dell’agricoltura entra in scena nella Mesopotamia meridionale il primo embrione di stato.
È questa la soglia cruciale! È qui che l’idea di progresso si concretizza nel modo più chiaro. E’ qui che entrano in scena tutti quei cambiamenti ai quali ci riferiamo con i concetti di “civiltà” e “progresso”. È qui che dobbiamo vedere a fondo come sono andate le cose per capire se il progresso dell’uomo è qualcosa di reale.
Come è stato possibile trasformare un cacciatore vagabondo in un cittadino con tutte le proprietà accatastate nei pubblici registri?
Possiamo veramente dire che questo passaggio sia stato un progresso? Che la domanda per un suo compimento esisteva ed era robusta?
Qui il lavoro degli storici è decisamente sviante, vediamo perché.
Da un punto di vista temporale, come dicevamo, la presenza dello stato nella storia umana è anomala: l’ homo sapiens apparve 200000 anni fa, 60000 anni fa usciva dall’Africa, 12000 anni fondava le prime comunità sedentarie e finalmente 6000 anni fa il primo Stato. Lo stato è estraneo al 95% della nostra storia. Un’ organizzazione umana fondata sulla raccolta delle tasse e sull’ innalzamento di mura comparve tra il Tigri e l’Eufrate all’incirca nel 3100 avanti Cristo. Ben quattro millenni dopo i primi segnali di agricoltura e vita sedentaria.
Questa origine recente è un problema per chi considera lo Stato come un’istituzione “naturale”,qualcosa a cui la marcia del progresso ci conduce inevitabilmente. Come mai la marcia del progresso, se è così naturale, ha ritardato tanto?
Nella narrativa degli storici l’agricoltura ha rimpiazzato un mondo selvaggio, primitivo, senza legge e violento, realizzando così il grande balzo dalla barbarie alla civiltà, dalla arretratezza al progresso. E’ da quel momento che inizia anche la Storia dell’uomo, o almeno la parte degna di essere raccontata nel dettaglio.
Questa origine recente è un problema per chi considera lo Stato come un’istituzione “naturale”,qualcosa a cui la marcia del progresso ci conduce inevitabilmente. Come mai la marcia del progresso, se è così naturale, ha ritardato tanto?
Nella narrativa degli storici l’agricoltura ha rimpiazzato un mondo selvaggio, primitivo, senza legge e violento, realizzando così il grande balzo dalla barbarie alla civiltà, dalla arretratezza al progresso. E’ da quel momento che inizia anche la Storia dell’uomo, o almeno la parte degna di essere raccontata nel dettaglio.
La superiorità del mondo formatosi “dopo il grande balzo” è sottointesa da un’elaborata mitologiamessa in piedi dagli storici.
Per molti è la vita sedentaria stessa ad essere superiore rispetto a quella nomade. Questo è scontato, non se ne parla neanche! I pesci non parlano dell’acqua in cui sono immersi.
Ma c’è qualcosa che turba l’armonia degli storici: non trovano quel che cercano, non trovano gente desiderosa di compiere “il grande balzo”, il desiderio del mondo “arretrato” di progredire.
Quel che trovano è solo un’inesplicabile e pervicace resistenza delle popolazioni primitive a civilizzarsi. Imbarazzante da sorvolare.
La vita sedentaria è sempre stata associata aschiavitù e malattia. E con una montagna di ragioni! Nessuno vuole ammalarsi, nessuno vuole schiavizzarsi.
Ma il mito del progresso è sbocciato nonostante tutto. Ha potuto contare su figure di spicco comeThomas Hobbes, John Locke, Giambattista Vico, Lewis Henry Morgan, Friedrich Engels, Herbert Spencer, Oswald Spengler e altri.
Roma era il bene, l’apice. I Celti e la Germania il regno delle tenebre, l’orrore da cui scappare.
Ma è innanzitutto l’archeologia a mettere in imbarazzo la narrativa degli storici. I popoli “selvatici” non erano certamente gente affamata che arrancava in condizioni disperate come sottointende certo folklore.
Possiamo ben dire che i cacciatori stessero benone in termini di dieta, di salute e di di tempo libero. Un benessere generalizzato.
Passare dai boschi alla città non era consigliabile in termini di analisi costi/benefici. A quanto pare i selvaggi facevano bene i loro conti.
Il mito dell’ Eden avrà un suo perché? Come mai viene collocato “prima”?
Senza contare quel che molti dimenticano, ovvero che parecchie forme di vita “sedentaria” erano già adottate in tempi precedenti all’agricoltura.
L’agricoltura stessa si associava spesso alla mobilità, una mobilità che si arrestava giusto il tempo di un raccolto.
Ancora oggi esistono molte varietà di frumento selvatico, per esempio in Anatolia. E non dobbiamo stupirci se molti attrezzi agricoli precedono di parecchio l’agricoltura stabilizzatasi nei pressi delle città.
Anche l’addomesticamento delle bestie è rimesso in questione. A quanto pare risale ad epoche parecchio precedenti i primi insediamenti stabili dell’uomo. Si trattava di forme ibride di addomesticamento, si trattava di animali né interamente selvatici, né interamente addomesticati.
Qualcuno potrebbe vedere queste forme di agricoltura e di allevamento come proto-agricoltura e proto-allevamento, cio’ non toglie che gli uomini le preferivano rigettando l’alternativa della città?
Come riferisce Guillermo Algarve: “l’uomo addomesticò piante e animali, ma le istituzioni che si diede per farlo al meglio addomesticavano l’uomo stesso… e poiché non tutti lo accettavano si dovette ricorrere ad una coercizione di massa”.
Ricordate il lavoro certosino di Robert Fogel?: nel XIX secolo la qualità della vita di un operaio bianco di Detroit era inferiore rispetto a quella di un nero schiavo in Alabama. Attenzione quindi a non abusare dell’analisi utilitaristica trascurando la volontà reale dei protagonisti.
A noi la presenza di uno stato amministrato appare come una costante ineludibile. A questa illusionecontribuisce l’archeologia presa in considerazione dagli storici.
Forse a questo punto è bene soffermarsi un attimo sulla cosiddetta “illusione degli storici”.
Se costruisci i tuoi edifici con il sasso, l’archeologo avrà qualcosa da studiare e lo storico qualcosa di cui scrivere.
Se invece li costruisci con il legno ed il bambù, l’archeologo resterà a mani vuote e lo storico lascerà bianca la pagina che ti spetta.
Ma chi era interessato a costruire mastodontici e duraturi monumenti? Chi se non uno Stato intento a celebrare se stesso?
Ecco di cosa parliamo quando parliamo di bias degli storici.
Se poi pensiamo alla scrittura il bias diventa ancora più aberrante.
Lo Stato ha bisogno di burocrazia e la burocrazia ha bisogno di infiniti registri. Deve tenere il conto dei suoi schiavi. Ma anche i cittadini comuni sono oggetti da schedare e contabilizzare in modo ordinato. Tributi, catasto, liste genealogiche, tutto deve restare, tutto deve fissarsi in uno scritto, tutto deve essere archiviato! Una coercizione programmata sarebbe impossibile senza un archivio permanente, lo sa bene anche il contribuente italiano del terzo millennio.
Dopodiché, per lo storico concentrato unicamente sui documenti scritti non resterà che una sola realtà da testimoniare, quella dello Stato! L’unica creatura umana degna di nota!
Per lo storico la nostra storia è fatta di stati. Per lo storico il nostro passato è lo stato, e tuttavia i primi stati apparsi nel sud della Mesopotamia, oppure in Egitto o lungo il Fiume Giallo erano affariniminuscoli sia dal punto di vista demografico che da quello geografico.
Delle cagatine, uno sputo sulla carta geografica, piccoli nodi di potere circondati da un vasto territorio abitato dai barbari che rappresentavano il 95% dell’umanità. Un 95% espulso dalla storia studiata alle elementari… ma anche all’università!
E anche se ci limitiamo agli ultimi 400 anni, almeno un terzo della popolazione non ha mai vissuto all’interno di uno Stato.
La stragrande maggioranza dell’umanità non ha mai pagato una tassa, e non sembra affatto leggendo il sussidiario.
Rischiamo tutti i giorni di sorvolare sul fatto decisivo che nella maggior parte del mondo non è mai esistito uno stato, fino a poco tempo fa.
Non solo, i primi stati solo raramente e per tempi brevi erano quei formidabili Leviatani che risultano da alcune esaltate descrizioni.
Disintegrazione, frammentazione, periodi oscuri erano la regola anche laddove sorgeva formalmente uno stato.
Incantati dai documenti che magnificano le dinastie noi pensiamo agli Stati come a blocchi monolitici in grado di controllare il territorio. Altro mito!
I quattro secoli di “periodo oscuro” della Grecia, quando i documenti scritti spariscono, sono praticamente una pagina bianca nei libri di storia, che invece dedicano capitoli interi all’ “era classica”. Già solo il fatto di poterne parlare la promuove automaticamente in “periodo di splendore”.
Per migliaia di anni dopo la sua creazione lo Stato non è mai stato una costante della nostra storia quanto piuttosto una variabile effimera. La storia dell’uomo è essenzialmente la storia di un essere che ha vissuto al di fuori dello Stato.
Niente di più comune, poi, che la “fuga” dallo Stato. Questo è imbarazzante per chi presenta lo Stato come un benefattore che elargisce la luce e la cività ad un’umanità ottenebrata.
Malattie, schiavitù e pulizia etnica erano una deprimente costante della presenza statale.
“Pulizia, pulizia”… lo Stato per nascere deve fare piazza pulita di ciò che lo precede, nel vero senso della parola. Senza ordine i registri non riescono a fotografare fedelmente la situazione e senza registri il burocrate e paralizzato.
Meglio adeguare i registri alle esigenze dell’uomo o l’umo alle esigenze dei registri? Ma ovviamente la seconda che hai detto!
La cultura delle piante e l’allevamento di animali hanno bisogno di spazi vasti e controllabili. Tutto deve essere riunito, concentrato, schedato.
Il fuoco, con il suo potere distruttivo, aiuta nel fare tabula rasa del paesaggio, aiuta nell’addomesticamento, nella registrazione e nella schedatura, nella contabilizzazione.
Il fuoco consente di cucinare i cibi di rendere digeribili piante prima indigeste, consente di rendere nutrienti alimenti prima non commestibili. Il fuoco, con la sua capacità di eclissare le presenze scomode, è un grande alleato delle mega-amministrazioni.
La vita nello Stato è molto più dura rispetto a quella fuori ma soprattutto è meno salubre. Nessuno, se non spinto dalla fame più nera o dalla coercizione, si sognerebbe mai di abbandonare i boschi, la caccia, la raccolta dei frutti o la pastorizia itinerante per dedicarsi al duro e insalubre lavoro dell’agricoltura. “La tèra l’è bassa!” dice un proverbio dei Celti contemporanei.
Lo Stato è luogo di “addomesticamento” e di artificio.
Tra gli antropologi si dice: ” non conosciamo in che misura noi abbiamo addomesticato il cane o il cane ha addomesticato noi”. Il senso è chiaro: in un posto dove quasi tutti sono servi non si capisce mai bene chi è il servo di chi.
All’interno dello stato la parola d’ordine è “addomesticare”. Addomesticare la pianta, addomesticare l’animale, addomesticare l’uomo, addomesticare il territorio. Tutto deve essere domato. Uno sforzo che nella sua essenza consiste nel ridurre la varietà all’uniformità affinché si possa contabilizzare, tassare, amministrare, incasellare. Insomma, dominare.
Il nuovo assemblaggio di piante, animali e uomini crea un ambiente artificiale. È naturale pensare alla vita dell’agricoltore come ad una vita angusta dal punto di vista delle esperienze, dal punto di vista culturale e dal punto di vista rituale. Una vita nel complesso più povera rispetto a quella del suo predecessore.
La vita nello Stato è molto dura per chi non fa parte delle élite. Molto più dura di quella condotta fuori dalle sue mura. Coltivare il suolo è più oneroso che cacciare o raccogliere frutti. Non c’è ragione per cui un raccoglitore, se non forzato, debba spontaneamente optare per l’ingresso in quelle mura che sono di fatto le mura di un carcere.
Entrare nello Stato comporta un altro sacrificio, quello di rendersi più esposti alle malattie.Influenza, orecchioni, difteria e altre infezioniben note a tutti noi. Ma non al cacciatore!
Oggi la medicina ha fatto miracoli. Oggi non esistono più le epidemie di peste che annientavano metà della popolazione! Ma ricordiamoci sempre che questi miracoli sono stati compiuti contro nemici che prima non avevamo.
La peste “inventata” dallo Stato non è solo quella infettiva, è anche quella delle tasse. Una miriade di tributi che assume varie forme: la forma del grano, la forma del lavoro forzato e quella della coscrizione.
I primi stati si sono formati solo in ambienti dove la popolazione poteva essere rinchiusa da un deserto, da montagna o comunque da una periferia ostile. Oggi è rinchiusa dagli altri stati. Sul punto è illuminante il lavoro di Carneiro: “A theory of the origin of the state”.
Ma è l’agricoltura e la coltivazione del frumento il marchio di fabbrica dello Stato. La coltivazione di questa pianta può essere concentrata, è misurabile e quindi tassabile, richiede poi un cospicuo sforzo umano valorizzando così la schiavitù. Concentrazione, misurabilità, tassazione, schiavitù… non c’è stato senza frumento. Sarà un caso?
Tutti gli Stati classici si fondano sul grano. Non c’è uno stato della manioca, del sego, della palma, della pianta del pane, della patata dolce, o della banana. Tutti gli stati sono stati del grano.
Il grano favorisce la produzione concentrata, favorisce la tassazione pro quota, l’appropriazione proporzionale, l’ immagazzinaggio, il razionamento e la catastizzazione dei territori.
Lo Stato si forma solo laddove mancano diete alternative a quella basata sul frumento.
L’agricoltura stanziale non inventa né l’irrigazione, né l’addomesticamento delle mandrie, queste sono conquiste che spettano alle popolazioni pre-statuali. Ma l’agricoltura stanziale le perfeziona, le amplifica, le espande, le razionalizza.
I primi stati si sforzano di creare un paesaggio facilmente “leggibile”, misurabile è per lo più uniforme. Questo facilita la tassazione dei raccolti e il controllo di una popolazione che lavora a corvé.
Ma cos’è uno Stato in fondo? Guardiamo alla Mesopotamia: è un continuum istituzionale con uno staff amministrativo specializzato, con un centro monumentale, con delle mura, con un re e con un sistema di raccolta delle tasse. Nasce negli ultimi secoli del IV millennio prima di Cristo nelle valli alluvionali della Mesopotamia meridionale.
Nasce quindi successivamente rispetto alle prime coltivazioni del grano e ai primi allevamenti.
Dopo, lo stato si fa vivo in Egitto, nella Mesopotamia settentrionale e in molte valli indiane. Ma prolifica anche in Cina, a Creta, in Grecia, a Roma e nel nuovo mondo con i Maya.
Cosa serve allo stato per nascere?
Innanzitutto un tipo di ricchezza appropriabile emisurabile: la “rapina” parziale e in misura fissa fatta a tutti è più tollerata dallo schiavo. In questo senso il raccolto di grano è l’ideale. Poi serve una massa di persone (popolo) che lo coltivi su vasta scala. Una popolazione docile, che sopporti la schiavitù o comunque forme severe di servitù, che possa essere facilmente amministrata e spostata laddove ce n’è bisogno. Una popolazione uniforme, che si lasci registrare e schedare.
Varietà e diversità sono nemiche giurate dello Stato. Anche per questo le paludi rappresentano per lo stato un territorio ostile, il rifugio ideale dei transfughi.
E qui veniamo alla questione centrale, il ruolo della coercizione nello stabilire e mantenere gli antichi stati.
Se dimostriamo che la formazione dei primi stati è avvenuta con un largo uso della violenza possiamo confutare teorici del “contratto” come Hobbes e Locke: per loro la vita fuori dello stato è “breve, violenta e crudele”. In queste condizioni è logico si scenda a patti: sicurezza contro libertà.
Ma nella storia di patti del genere, anche impliciti, non se ne vedono.
Si vedono solo rifiuti e resistenze. Ma soprattutto molte molte fughe.
I primi stati hanno spesso fallito nel tentativo di trattenere la loro popolazione presentandosi come estremamente fragili e soggetti a collasso da frammentazione.
L’istinto alla fuga è invece facilmente spiegato da chi non vede nello stato un progresso ma il regno del lavoro forzato.
La schiavitù era essenziale soprattutto per quel che riguarda i lavori pubblici, la costruzione degli edifici comunali, delle mura e delle strade.
La Grecia classica costituisce sia l’apoteosi della civiltà occidentale che l’apoteosi della schiavitù. La stessa cosa si può dire per Roma.
Che un’ampia fetta della popolazione greca e romana fosse detenuta contro la propria volontà è testimoniato dalle frequenti ribellioni degli schiavi.
Ma non si tratta solo di poche schiavi riottosi, intere popolazioni tentavano la fuga o quantomeno cercavano di nascondersi. Evidentemente la “civiltà” non allettava granché.
Owen Lattimore parlò delle mura cinesi come di un manufatto dalla doppia funzione: “ quella principale… rinchiudere i tartassati… e quella secondaria, scoraggiare gli assalti dei barbari…”.
A proposito di barbari, esistono anche loro. Sono i 4/5 dell’umanità. Per gli storici esistono solo quando attaccano la città.
È molto probabile che nell’epoca in cui lo Stato sorgeva era molto meglio essere barbari. Da barbari si viveva meglio, per questo i barbari non erano affatto allettati dal progresso.
Il territorio dei barbari è molto vario e disordinato, è una zona di caccia, di coltivazione improvvisata, di pesca provvisoria, di raccolta fugace e di pastorizia. Radici, tuberi e ben pochi campi fissi. E’ una zona di mobilità, in poche parole una zona impossibile da trattare amministrativamente, l’incubo di ogni burocrate esattore.
Il barbaro non è una categoria culturale ma una categoria politica. Barbaro è colui che vive fuori dallo Stato, colui che non ha carta d’identità, che non è schedato, che non è amministrato, che non è accatastato, che “non risulta”. E così come non risulta al burocrate, non risulta nemmeno allo storico burocratizzato.
Il barbaro vive nel mondo del “nero”, del sommerso, non è registrato e non è proporzionato secondo alcuna misura. Nel suo disordine il povero burocrate non trova punti di riferimento per poterlo incasellare. Il barbaro vive fuori da ogni mappa. Hic sunt leones.
Tra barbari e civilizzati è esistita per molto tempo una relazione tipica: la rapina.
Perché mai un barbaro dovrebbe coltivare un raccolto quando può semplicemente andare a prendersi i frutti coltivati in schiavitù dall’uomo sedentario?
In un certo senso è colpa dei civilizzati se i barbari godono di cattiva fama!
I raid nei confronti dello Stato erano la norma.
I pellerossa si accorsero ben presto che le vacche dei bianchi erano l’animale in assoluto più facile da cacciare!
Intanto, lo Stato che investe in sicurezza aumenta le tasse e abbisogna di più schiavi.
Ma i barbari non rapinavano e basta,commerciavano anche molto con lo stato, erano loro a fornire molti beni necessari come per esempio metalli, legna, minerali, pelli, medicinali, miele, sostanze aromatiche e altro ancora.
L’esito di questi commerci fu una civiltà ibridamolto diversa dalla dicotomia spesso rappresentata nella forma civiltà/barbarie.
Thomas Barfield ha sostenuto che per ogni civiltà esiste una specie di “gemello barbaro”. L’esempio tipico è offerto dall’ oppida dei celti, una presenza costante alla periferia dell’impero romano.
Possiamo ben dire che l’era dei primi stati fu anche l’epoca d’oro dei barbari.
Ma la merce principale che si scambiavano barbari e civilizzati erano gli schiavi. Lo Stato ne era un insaziabile consumatore!
Seconda merce per importanza: il mercenario. Lo stato era uno stato guerriero e aveva bisogno già allora di quella che poi venne denominata “carne da cannone”. I cittadini erano ancora pochi e non soddisfacevano le esigenze del levitano, cosicché a fornire la “carne da cannone” erano spesso i barbari stessi che vendevano così i loro prigionieri di guerra.
***
Allo stato, per esistere, serve una massa di persone ma non serve la volontà della massa.
Acquisire e controllare una massa di persone è l’ossessione dei primi stati.
Una popolazione estesa di coltivatori seriali, ecco quello di cui abbisogna.
Lo stato è essenzialmente una macchina produttiva fatta di carne umana: più ce n’è meglio è.
Una massa di uomini addomesticati, un gregge, uno stormo. Questa è l’immagine più fedele dei primi stati.
Un gregge in grado di produrre un surplus a disposizione dell’ élite.
Che la “concentrazione” di carne umana sia il primo obbiettivo lo si vede ovunque. Prendi gli spagnoli nelle Filippine. Cosa sono le “reducciones” se non dei campi di concentramento adibiti a produzione?
Le stesse Missioni cristiane, come prima mossa all’atto dell’insediamento tendono a concentrare la popolazione dispersa.
Le stesse Missioni cristiane, come prima mossa all’atto dell’insediamento tendono a concentrare la popolazione dispersa.
Il concetto di surplus non è mai esistito fino all’invenzione recente dello stato.
Marshall Sahlins spiega che prima dello stato l’accesso alle risorse era libero per qualsiasi appartenente al gruppo. Ogni forma di coercizione assente. Nessun incentivo a “produrre” oltre al necessario per sopravvivere o per il proprio confort personale. Nulla era “conservabile“, prima.
Marshall Sahlins spiega che prima dello stato l’accesso alle risorse era libero per qualsiasi appartenente al gruppo. Ogni forma di coercizione assente. Nessun incentivo a “produrre” oltre al necessario per sopravvivere o per il proprio confort personale. Nulla era “conservabile“, prima.
A. V. Chayanov mostra che quando in un gruppo di cacciatori il rapporto lavoratori/non lavoratori si alza, il lavoro diminuisce.
Per ottenere il surplus che cercano, le élite puntano sull’agricoltura e inventano lo stato, e con esso una serie infinita di forme del lavoro coercitivo: corvé, consegna forzata, schiavitù, debito vincolato, servitù, eccetera.
Ma c’è il rischio che la gente scappi o si nasconda, specie se i confini non sono ben presidiati. Che fare?
Mura e pene severe. Solo la proprietà della terra riuscirà a sostituire la schiavitù.
Ester Boserup è un autore di riferimento per testimoniare il doppio nesso tra stato e schiavitù.
Ma ogni stato antico aveva un “tasso naturale di fuga”. Veniva tollerato ben sapendo che la guerraera comunque uno strumento fenomenale per ripristinare il livello quantitativo degli schiavi.
Lo stato più potente, anche dal punto di vista militare, era lo stato con più popolazione asservita.
Il vero bottino di guerra erano gli uomini più che iterritori.
In linea con quanto detto le guerre senza sosta in Mesopotamia aveva lo scopo essenziale di assemblare forza lavoro.
La guerra tipica secondo Seth Richardson era quella in cui “pesce grande mangia pesce piccolo“. L’obbiettivo era quello di radunare un gregge, di addomesticare i selvaggi dispersi sul territorio in una continua lotta per compensare gli schiavi fuggiti.
I codici scritti ritrovati e custoditi nei musei iracheni hanno una sola preoccupazione: stabilire pene iperboliche per i fuggitivi e chi li aiutava.
La schiavitù non è stata inventata dagli stati ma, secondo Fernando Santos-Granaros, lo stato ne ha fatto la quintessenza del suo esistere.
Anche presso i pellerossa, per esempio, esisteva una schiavitù dei prigionieri, spesso temperata da una graduale assimilazione dello schiavo.
Il medio oriente ha conosciuto la sua schiavitù pre-statuale documentata da Adam Hochschild. Ma anche lì è con lo stato che esplode il fenomeno.
Ancora alle soglie del XIX secolo 3/4 della popolazione mondiale è schiava.
Nel sud est asiatico l’attività economica più redditizia era quella di mercante di schiavi.
Niente stato senza schiavi. Niente Grecia senza schiavi, a sostenerlo è stato Moses Finley.
Ad Atene 2/3 della popolazione era schiava.
La schiavitù era scontata mai nessuno tra quei saggi sollevò mai la questione della popolazione schiava.
Per Aristotele, una quota della popolazione, quasi tutta, mancando delle necessarie facoltà razionali, era “naturalmente schiava”.
E Sparta? Peggio mi sento… la quota di popolazione schiava qui cresce.
Sparta schiavizzava sul posto mantenendo gli schiavi “in situ”, venivano chiamati iloti.
Roma trasformò il mediterraneo in un emporio per gli schiavi.
Le guerre in Gallia procurarono un milione di schiavi. Soprattutto a questo Giulio Cesare dovette il suo trionfo.
Gli schiavi a Roma erano 1/3 della popolazione.
La schiavitù era talmente comune che gli schiavi costituivano un’unità di conto.
Gli schiavi erano trattati malissimo, molti sono raffigurati in ceppi e sottomessi fisicamente. Ma perché trattare così male una risorsa così preziosa? Perché era anche una risorsa abbondante.
Il rincorrersi tra popolazioni nomadi e cacciatori di schiavi era un po’ il classico guardia e ladridell’antichità.
Lo stato schiavista cresce a spese delle società non schiaviste. Lascia che queste ultime si occupino del futuro schiavo finché non è produttivo, poi lo prelevano e lo sfruttano nei suoi anni “migliori”.
Lo schiavo viene “sradicato” e isolato, in questo modo è più controllabile.
Lo schiavo è una bestia e la sua riproduzioneassomiglia a quella delle bestie addomesticate. Ogni gregge ha pochi arieti e molti agnelli. Lo stesso si riscontra nella comunità degli schiavi. Sul mercato le femmine in età riproduttiva sono i pezzi più pregiati.
L’impiego prevalente degli schiavi è nei lavori pubblici. Bertold Brecht si chiedeva retoricamente: “chi costruì la Tebe dalle sette porte?”. Ora sappiamo la risposta.
CONCLUSIONE
Bene, dopo amish, zingari, pellerossa e donne abbiamo fatto il “caso generale”, abbiamo individuato il “progresso umano per eccellenza”, ovvero il passaggio dalla vita “breve, violenta e brutale” alla vita “sicura” all’interno delle mura statali. Il passaggio dalla barbarie alla civiltà. Ma l’esito non sembra cambiare: nessun “barbaro” ha inteso o intende di fatto “progredire“, non solo, le sue ragioni per resistere sono più che solide e ben comprensibili anche a noi, lo abbiamo appena toccato con mano!
Conclusione: dopo questa passeggiata nella storia i dubbi che il Progresso sia un mito permangono e si rafforzano. Forse siamo stati davvero rapiti e confinati su una barca nell’ oceano, e ci permettiamo di dubitare se qualcuno ci fa notare che l’evento costituisce un progresso per il semplice fatto che non scendiamo da quella barca per tornare a casa di corsa.