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sabato 28 dicembre 2019

LA FILOSOFIA DEL RAGIONIERE

Poiché sono un ragioniere non ho mai studiato filosofia, e questo è stato sempre un mio cruccio. Qualcuno potrebbe parlare di frustrazione. Poi però ho scoperto che nemmeno al liceo si studiava filosofia, piuttosto "storia della filosofia", qualcosa di cui francamente faccio volentieri a meno. Per me una scoperta del genere è stata un vero sollievo.
La confusione tra filosofia e storia della filosofia è molto diffusa e si riflette indirettamente in una distinzione comune nella filosofia contemporanea tra stile "analitico" e stile "continentale".
La cosiddetta filosofia analitica si pratica principalmente nei paesi di lingua inglese (Inghilterra, USA, ecc.). I filosofi “analitici” pensano che il compito principale della filosofia sia quello di risolvere i problemi, di spiegare i significati delle parole e analizzare i concetti. Il loro obbiettivo è sostanzialmente quello di esprimere chiaramente le loro tesi, di fornire argomentazioni logiche a supporto e di rispondere poi alle obiezioni formulate da chi non è d'accordo con loro. Facile, puo' capirlo anche un ragioniere. Se un filosofo analitico sta discutendo di giustizia, per esempio, di solito comincia specificando cosa intende con la parole "giusto" e come collega il concetto di giustizia a quello di equità o correttezza.
I "filosofi continentali" sono generalmente molto meno chiari su ciò che stanno dicendo. Ad esempio, non definiranno esplicitamente i termini prima di procedere. Usano molti riferimenti indiretti senza alcuna spiegazione letterale. E' come se dessero molte cose per scontate, come se preoccupazioni del genere siano risolte dalla conoscenza della "storia della filosofia". Oppure si aspettano che le cose assumano una loro forma più definita nel corso della discussione che loro stanno iniziando. Quando avanzano un'idea, in qualche modo danno pure degli argomenti per sostenerla, ma è difficile isolare le premesse e le fasi successive di quel ragionamento che li ha condotti ad affermare cio' che sostengono. Un autore continentale non ti direbbe mai che il suo ragionamento si fonda su tre premesse, per poi elencarle come (1), (2), (3) (un passaggio obbligato per gli "analitici"). Nemmeno affrontano direttamente le obiezioni. In genere scrivono libri lunghissimi e molto discorsivi. Hanno un loro gergo ma non sembra giovi molto alla sintesi o alla comprensione. Autori del genere fanno crescere la frustrazione del ragioniere pagina dopo pagina. Quando non capisci un autore analitico sai che devi studiare di più, ma se non capisci un autore continentale sei in mezzo alla palude, non sai bene cosa devi fare, il dubbio è che tu debba realmente conoscere tutta la storia della filosofia, ovvero fare il liceo. Le opere della filosofia continentale, inoltre, spesso flirtano con il soggettivismo o l'irrazionalismo.
I filosofi generalmente tendono politicamente a sinistra, come un po' tutti gli intellettuali. Ma i filosofi continentali hanno inclinazioni ancora più pronunciate. Heidegger, il padre della filosofia continentale moderna, era letteralmente un nazista. Diciamo che i "continentali" hanno maggiori probabilità di avere opinioni politiche estreme, folli, orribili. Tra loro i comunisti e i fascisti spuntano come funghi. Non si può menzionare la distinzione analitico/continentale senza menzionare il disaccordo tra Martin Heidegger/Rudolf Carnap. Il secondo considerava i capolavori del primo un misto di banalità e nonsense.
La differenza tra le due scuole è innanzitutto di stile. Gli analitici sono più naive, offrono tesi chiare, argomenti logici e rispondono alle obiezioni. Il loro scopo ideale è quello di migliorare la conoscenza e la comprensione del mondo. Il filosofo non deve, ad esempio, confondere le persone, impressionarle con una prosa rutilante o per come padroneggia la storia della filosofia, non deve esporlo alla contemplazione di frasi ben tornite inducendolo a tacere e smettere di interrogarti. Per aumentare la conoscenza e la comprensione filosofica di un lettore, si deve generalmente dargli buone ragioni per credere a ciò che si sta dicendo. Se, invece, il lettore adotterà il tuo punto di vista a causa della tua abilità retorica, magari perché colpito dalla squisita raffinatezza di una prosa in grado di sopire ogni dubbio, allora non avrà acquisito conoscenza e comprensione della materia trattata.
Mi sembra chiaro che un ragioniere intimorito di fronte al colossale corpo di conoscenze filosofiche prodotto dall'umanità nel corso dei secoli, si rivolga agli analitici, ovvero a coloro che considerano la "storia della filosofia" qualcosa di completamente diverso dalla filosofia, un po' come uno scienziato considera la storia della fisica qualcosa di completamente diverso dalla fisica. Se si puo' infatti essere ottimi fisici senza conoscere la storia della fisica, se si puo' addirittura vincere il premio Nobel senza sapere nulla della fisica di Aristotele; allora, forse, si puo' comprendere un filosofo anche senza aver fatto il liceo o conoscere autori superati come Platone e Aristotele.
L'altra cosa da sottolineare è che le tesi più comunemente associate ai filosofi continentali sono sbagliate, a volte persino sconcertanti. Questo non li rende molto attraenti per un semplice ragioniere assetato di verità.
Per esempio, la filosofia continentale nega spesso l'esistenza di una realtà oggettiva. A volte sembra dire, ad esempio, che quando chiudo gli occhi, il resto del mondo esca in qualche modo dall'esistenza. Come se il mondo esistesse solo se percepito dagli uomini o comunque da un osservatore. Per la persona comune e per i filosofi analitici un mondo che esiste indipendentemente dagli osservatori è invece facilmente immaginabile e ipotizzabile. Negarlo sembra assurdo. L'errore dei continentali sta nel confondere l'affermazione che un determinato oggetto della conoscenza è rappresentato da una mente particolare con l'idea che il suo essere rappresentato da quella mente fa parte del contenuto stesso della rappresentazione. In altre parole: dal fatto che posso immaginare la Terra solo usando la mia mente, non consegue che posso immaginare la Terra solo come immaginata da me.
Uno si chiede il perché di simili gaffe che perpetuano gli stereotipi verso il filosofo con la testa nelle nuvole. Lo strano soggettivismo dei continentali serve forse per alimentare un poetico scetticismo che troppo spesso li seduce ispirando loro pagine su pagine dotate di un certo afflato più che di un contenuto reale. Come nel loro stile, l'idea centrale non è mai espressa in modo rigoroso, ci si limita ad evocarla all'incirca così: "è impossibile per noi sapere qualcosa senza usare le nostre menti, i nostri schemi concettuali, i nostri occhi... pertanto, non ha senso parlare delle cose come sono in se stesse, e nemmeno ha senso l'idea di "realtà oggettiva"..."
Insomma: "poiché abbiamo occhi con cui vedere, siamo ciechi". L'argomento degli "occhi" percorre la filosofia continentale in lungo e in largo, viene riproposto ossessivamente trattando dei temi più disparati. Un continentale non ti dirà mai che ritiene una certa sua affermazione vera al 40%. Farà invece la sua affermazione corredandola con il pleonastico argomento degli occhi. Il filosofo australiano David Stove ha battezzato questo argomento "The Gem" bollandolo come "il peggior argomento mai concepito nella storia della filosofia".
I filosofi continentali non amano molto la razionalità. Inutile dilungarsi sul perché invece un filosofo dovrebbe costituire l'epitome della razionalità, penso che sia fondamentalmente una tautologia: il pensiero razionale non è altro che il pensiero senza errori. Per essere onesti, poche persone diranno apertamente: "ehi, sono irrazionale, e dovresti esserlo anche tu!". Ma puoi leggere molti autori continentali che rifiutano i principi centrali della razionalità, come quello dell'obbiettività e della coerenza.
Ma perché una simile sconcertante idiosincrasia? Il fatto è che se eludi la razionalità puoi continuare a sostenere le tue convinzioni sbagliate, in qualche modo, in questi casi, percepisci implicitamente che razionalità e obbiettività sono i tuoi nemici. Devi anche evitare di essere chiaro nella tua esposizione. La nebbia, la parzialità e la confusione sono elementi chiave per coltivare false credenze. L'esistenzialismo, una tipica filosofia continentale, ti lascia libero di credere e fare quel che vuoi, purché sia "autentico", ma per poter elargire un simile dono ai suoi adepti deve presentarsi come particolarmente confusa, disarticolata e zeppa di tesi ingiustificate. Direi che ci riesce benissimo, e non a caso nei licei europei è sempre andato fortissimo.
Ma anche la filosofia analitica nasconde una sua "miseria". Il suo problema principale è che è troppo... analitica.
Le affermazioni analitiche sono vere in virtù del significato delle parole che usano. Tipo: "tutti i rombi hanno quattro lati" e "il presente viene prima del futuro". Sarà per questo che i filosofi analitici passano gran parte del loro tempo a parlare del significato delle parole. Bello! Ma dopo un po' ti rompi i coglioni... e vorresti affrontare qualche problema sostanziale. Non so quante persone pensano ancora che il compito della filosofia sia di analizzare il linguaggio e roba del genere. Spero che non siano molti. Ma il passato pesa e ancora oggi ne circolano parecchi con questa sindrome: neuroni rubati all'agricoltura.
Il primo problema specifico della filosofia analitica è dato dal fatto che la gran parte delle sue analisi sono "infruttuose". La chiarezza non riesce a creare consenso: su quasi tutti i problemi maggiori si resta divisi, e quando le divisioni persistono per decenni è segno che non si saneranno mai. La conoscenza non si cumula, altro che scienza. Per contro, molte analisi semantiche sono così contorte che risultano di fatto inutili. Esempio, le analisi di cui ora discutono gli epistemologi sono così complicate e confuse che nessuno usa il termine "conoscenza" avendo in mente il loro lavoro. ma a che servono? Alla comprensione teorica dei filosofi accademici? È questo ciò di cui abbiamo bisogno? Un chiarimento dei termini che impegna decenni di riflessione per arrivare a conclusioni lontane dall'uso effettivo che viene fatto di quelle parole sembra uno spreco colossale.
Ad ogni modo, una buona dose di dibattito nella filosofia analitica, anche quando non si tratta direttamente dell'analisi semantica, degenera comunque in una noiosissima analisi semantica. niente di più palloso e inconcludente.
Esempio: quando un'affermazione è "giustificata"? Ci si divide tra internalisti ed esternalisti. I secondi ritengono che una credenza sia vera quando è verificata da una certa procedura descrivibile esteriormente. Gli internalisti invece pensano che il cuore della giustificazione sia il buon senso e l'intuizione, ovvero qualcosa che non si puo' descrivere se non come stato mentale dell'osservatore. "La neve è bianca" è vera solo se la neve è bianca. Ecco, questo scontro mi sembra uno scontro senza molta sostanza, uno scontro più sulle parole che sulle cose: l'internalista accetta buona parte di cio' che dice l'esternalista e viceversa, ma i due hanno modi diversi per esprimersi. E intanto la gente - scienziati compresi - continua tranquillamente a utilizzare il termine "giustificazione" senza aspettare di certo che i filosofi analitici decidano cosa significhi.
Altro esempio, ci sono dibattiti in metafisica sull'esistenza degli "oggetti compositi". Esistono veramente? C'è chi lo nega e pensa che se prendi alcune particelle elementari, non c'è nulla che tu possa farle per assemblarle e realizzare un oggetto autonomo. Quindi, per esempio, le tabelle non esistono, le persone non esistono, ecc. Altri filosofi affermano invece che gli oggetti possono comporre altri oggetti. Se hai un oggetto A e un oggetto B, allora c'è sempre un terzo oggetto che ha sia A che B come parti. Immaginatevi l'interesse delle persone per una questione del genere, immaginatevi l'ansia con cui si attende il verdetto, immaginatevi l'attesa con cui si attende che la filosofia analitica dirima la questione.
Ma c'è qualcosa di ancora più grave: i filosofi analitici, ahimé, decidono quali domande porsi in base alla possibilità di applicare o meno il loro metodo (definizione/deduzione). Risultato: parlano solo di cazzate. Pardon, affrontano temi che non interessano nessuno eludendo le domande che contano realmente. Nel solco di Wittgenstein ("di cio' di cui non si puo' parlare si deve tacere") finiscono per produrre solo noia e virtuosismo intellettuale fine a se stesso. Ci si chiede perché non si dedichino alla settimana enigmistica.
Esempio: qual è il motivo per cui dovremmo obbedire al governo? Il filosofo analitico trasforma la domanda in modo da renderla più "trattabile". Tipo: come dovrebbe essere in astratto un ordine politico ideale? Qui comincia ad elencare le condizioni, tutte rigorosamente astratte. Tutti i paroloni con accezione positiva (libertà, uguaglianza, bene, giustizia) vengono tirati in ballo senza specificazione significativa. A questo punto si potrebbe osservare che, poiché nella realtà non esistono governi del genere, non esiste un obbligo di obbedienza. Ma a questa conclusione il filosofo analitico non arriverà mai poiché si tratta di un'affermazione con un contenuto empirico, non gli riguarda. Purtroppo per il lettore, è anche l'unica affermazione interessante. In breve: il filosofo analitico è uno specialista nel sostituire la domanda che conta con una domanda di cui non frega niente a nessuno (se non forse ai suoi colleghi), perché quest'ultima non gli chiede di alzare il culo dalla sua poltrona.
Altro esempio, in passato ho cercato di affrontare in modo analitico il problema teologico del male. Ecco un modo semplice per comprenderlo: Dio, se esiste, dovrebbe essere onnisciente, onnipotente e buono. Ora, se Dio non è a conoscenza di tutti i mali del mondo, allora non è onnisciente. Se è consapevole del male ma non è in grado di fare nulla al riguardo, non è onnipotente. Se è consapevole del male ed è in grado di eliminarlo, non è buono, visto che quel male esiste. Un bel problema per i credenti. Un modo per risolverlo consiste nel mettere in evidenza come Dio, avendo concesso all'uomo una libertà radicale, ha in qualche modo limitato la propria onnipotenza. Osservando la reazione di un filosofo analitico impegnato nel difendere la posizione atea, ho notato che considerava questa risposta "inammissibile". Motivo? "Rettificava le premesse": non si puo' difendere una tesi ridefinendola. Avete capito bene, a un filosofo del genere non interessa nulla di come stiano le cose, lui è solo preso nei suoi giochetti di parole, e se uno fa un passo indietro, rimette a posto certi concetti in modo che quadrino le cose, tutto quello che ha da dire è che "non vale", come se si stesse facendo un gioco in cortile. Ho trovato questo caso sorprendente. Quindi, se si scopre che esiste un essere estremamente potente, intelligente e buono che ha creato l'universo, ma l'essere non è in grado di fare tutte le azioni logicamente possibili, allora questo essere non desta alcun interesse per il filosofo analitico? Un tipo del genere è più preso dai giochi di parole che dalla comprensione della realtà. Capisco che ci siano casi in cui difendere una tesi ridefinendola la rende poco interessante. Ad esempio, se difendessi il "teismo" definendo "Dio" come definisco la "Natura", ciò snaturerebbe la mia difesa. Ma il caso del dio onnipotente è molto diverso!
Conclusione. la filosofia migliore su piazza è quella che utilizza il rigore degli analitici ma affronta i temi dei continentali.