I vescovi denunciano un giorno sì e l’altro pure la “finanziarizzazione” dell’economia, come una delle cause della mancanza di lavoro, e chiedono “una conversione spirituale”.
La finanziarizzazione dell’economia avrebbe raggiunto livelli ormai insostenibili. Il PIL mondiale ammonta a circa 75.000 miliardi di dollari, mentre il controvalore degli strumenti finanziari in circolazione è oramai pari a 1.000.000 di miliardi di dollari (oltre 13 volte il PIL mondiale) di cui il 70% sono titoli derivati.
Sono numeri buttati lì per impressionare: se uno saltasse su dicendo che c’è “troppa poca finanza” e facesse gli stessi numeri, io francamente non lo noterei.
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Ma c’è davvero troppa finanza nel mondo?
Primo: troppa rispetto a cosa?
Per un economista, almeno la risposta a questa seconda domanda, è facile: qualcosa è ” troppa” se in eccesso rispetto rispetto ad un’ allocazione efficiente delle risorse.
Torniamo allora alla prima domanda, la risposta migliore da dare è: “probabilmente sì”.
Probabilmente la finanza che ci ritroviamo è troppa, anche se non ha nessun senso sgranare numeri a vanvera, basta un ragionamento per concludere in questo senso.
La finanza è troppa perché il nostro sistema economico è “troppo” regolamentato. Ha troppe regole che eccedono quelle di mercato.
La catena logica è semplice: troppe regole, minori opportunità di profitto, ed ecco che ci si rifugia nella finanza. Ma chi glielo fa fare ad un imprenditore di sputare sangue lottando ogni giorno con burocrazia, tasse e sindacati? Meglio speculare al trading on line con i fondi che ha accumulato.
Ma in questo caso c’è di più. La finanza è un settore particolare. Praticamente tutti i paesi hanno deciso di assicurare i depositi delle banche a causa dell’ asimmetria informativa che rende difficile al risparmiatore valutare gli esatti rischi del sistema.
Il fatto di garantire i depositi è probabilmente un bene ma ha una conseguenza negativa, ovvero che il fallimento di una banca comporta l’intervento a sostegno dei contribuenti.
La conseguenza ulteriore è che l’imprenditore finanziario non risponde completamente dei rischi e quindi è incentivato a prenderne in eccesso.
La contromossa per riequilibrare questa situazione di solito consiste nel chiedere requisiti di “capitale minimo”. Alle banche è fatto obbligo di detenere una riserva minima di legge.
Per eludere il vincolo nasce il cosiddetto “sistema bancario ombra“.
Questo di per sé non sarebbe un grave problema, semplicemente finirebbero per convivere un sistema bancario regolamentato in cui i depositi sono garantiti dallo stato e uno non regolamentato e senza protezioni di sorta.
Il problema vero si configura quando la protezione dei depositi nel sistema bancario ombra, pur non esistendo ex-ante, sia credibilmente presente ex-post.
In altri termini, la lobby delle banche ottiene implicitamente ciò che si chiama “privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite” potendo così agire fuori dalle regole di mercato.
E’ un perverso incentivo all’assunzione inefficiente di rischi enormi da parte delle stesse, nasce un chiaro interesse ad esporsi oltre il giusto: questo meccanismo è noto come too big to fail.
Il settore tende a svilupparsi eccessivamente, si crea “troppa finanza” poiché esiste un’assicurazione implicita gratuitache tutti intendono sfruttare.
Le grandi banche sanno bene che il sistema politico non potrá lasciarle fallire e non si pongono più freni. Sanno in anticipo che la politica interverrà per acquistare le attività tossiche nei loro bilanci, salvando così, oltre che i depositi, anche azionisti e obbligazionisti.
La collusione tra banche e tesoro – e le regole implicite ed esplicite che da essa promanano – è all’origine della finanziarizzazione dell’economia.
Non è un caso che molti ministri del tesoro arrivino direttamente da Goldman Sachs.
Guardiamo per contrasto al mondo non regolamentato degli hedge funds, ovvero a quei fondi speculativi dove di solito investono i ricchissimi. Si tratta di un mercato caratterizzato da una competizione brutale, tutti sanno di non poter contare su nessun aiuto del governo né sulla simpatia dell’opinione pubblica. Ebbene, durante la crisi le prestazioni fornite sono state rassicuranti, negli USA solo 500 fondi su un totale di 7000 sono scomparsi, lo hanno fatto in silenzio e senza gravi effetti sistemici, e molti di loro hanno continuato nel corso della crisi a fare profitti.
Un effetto collaterale della dinamica descritta sono i compensi dei manager, altra grande fonte di indignazione nel mondo cattolico.
Guadagnano troppo questi soggetti?
Il problema in un certo senso è secondario, l’importante è che i manager guadagnino quando la loro società acquista valore e perdano quando ne perde.
Molti sostengono che gli incentivi ai manager fossero troppo a breve termine per realizzare incentivi corretti, ma anche questo è un problema secondario, le soluzioni tecniche ci sarebbero.
L’interrogativo più inquietante è un altro: perché mai gli azionisti delle banche avrebbero deciso di compensare i propri manager in questo modo all’apparenza assurdo? Non erano i contribuenti a pagare, in questo caso.
Che senso ha riservare a manager che hanno fallitoliquidazioni miliardarie?
E qui si torna al too big to fail: i manager di cui parliamo hanno fallito perché hanno preso rischi eccessivi, ma abbiamo appena visto come fosse razionale farlo. Quindi, in un certo senso, il loro comportamento non è censurabile, nemmeno dall’azionista. E’ solo andata male quando rischiare era doveroso.