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sabato 14 febbraio 2009

Un cuore di pietra pomice

Leggendo D. F. Wallace viene naturale la tentazione di stanare il suo genio, di cercare dove si annidi. Perchè sul fatto che un genio ci sia e sia in azione, pochi dubitano.

Dopo aver letto due racconti sento già l' esigenza di saltare a conclusioni. Il contatto minimale che ho avuto con questo autore alza enormemente il rischio di esprimermi in forma di cazzate. Fa niente, il democraticissimo web è una fogna capiente che diluisce veleni ben peggiori.



DFW è un bambino geniale che ha appena scoperto un formicaio. Io sono una formica che guarda proccupata quell' animalone enorme e curioso affaccendato con le sue lenti. Una formica che capisce subito come verrà inserita nell' equazione che le è propria e inquadrata alla perfezione senza mai correre il rischio di essere compresa.

Per esempio, DFW non dirà mai che "... le ragazze passeggiando passano davanti ad un negozio di elettrodomestici...". Non potremmo mai attribuire a lui un rigo del genere.

Dirà invece che "... di fianco alle ragazze che passeggiano arriva un negozio di elettrodomestici...". Adesso sì che riconosciamo la lente del vecchio David.

Il suo occhio è astronomico. Osserva le traettorie di una moltitudine di corpi tutti parificati tra loro e le fa descrivere dai suoi diagrammi.

Le sopracciglia dei perplessi che popolano i suoi racconti non sono "corrucciate" ma "circonflesse".

Anche qui sentiamo che il suo occhio ci scruta. Questa volta è l' occhio dell' ermeneuta quando ficca l' unghia nel nodo dei segnali da decodificare. Tutto è testo, tutto è inchiostro spremuto dalla medesima essenza che scrive una storia piena di meraviglie ma priva di colpi di scena.

La malinconia del protagonista non ha certo più peso rispetto a quella evocata dalla musica che risale su per la Avenue e ci notifica "il canto stridulo e triste delle Wolkswagen in retromarcia...". In entrambi i casi chi puo' si goda il mero dato fenomenico senza prenderne nota mentale. Non ci saranno conseguenze da inferire ma solo salti in un altrove dove qualcos' altro accadrà senza nessuna ambizione di relazionarsi con alcunchè.

Gli occhi saranno pure le finestre dell' anima, ma la cosa non desta l' attenzione di DFW, il quale si concentra piuttosto sui nasi. In particolare sui nasi in circolazione a Los Angeles a mezzogiorno, oggi, 13 giugno 1987: sono tutti cavalcati da occhiali da sole. E' una città con ippodromi singolari quella ricostruita dal fantastico Lego di DFW.

Se due personaggi chiave della storia intrattengono un colloquio decisivo, ci aspettiamo che l' autore trovi il modo di farne trapelare il contenuto prima o poi. L' osservatorio astronomico di DFW si limita invece a rilasciare il seguente bollettino: "... mentre sono lì in piedi la postura dei due va lentamente peggiorando...". Molto geniale, molto inappagante. Si passa subito a registrare eventi che accadono all' altro capo della città.

Tutti noi aprendo la Coca teniamo la lattina il più lontano possibile dal nostro corpo. Tutti. Tutti lo facciamo senza che ci colga mai l' esigenza di comunicare a chicchessia questa sana abitudine. Per formalizzare la descrizione dell' evento occorreva una delle particolareggiate cronache marziane di DFW.

C' è una traettoria che il piano cartesiano di DFW descrive in modo impeccabile: quella che disegnano i volti delle star non appena si spegne la luce del "ciack si gira". Il modo in cui quei volti ricadono nelle pieghe ormai logore dei loro sorrisi professionali. Ogni residuo di umanità è soppiantato da un elemento tellurico dominato al meglio solo dal geografo. E DFW è un insigne geografo che colloca tutto in un reticolo di latitudini e longitudini, perchè il "tutto" è sempre lo stesso pezzo di carne che prende mille forme per tornare poi a trasformarsi sempre seeguendo la medesima legge.

Non sono ornati da occhiaie quei volti stanchi, bensì da sacche di sangue scuro, si mastica gomma stimolando sulla tempia un muscolo a forma di vermetto, le ciabatte sul piede nudo fanno cic ciac imitando il rumore del sesso, la pioggia che batte sul tetto è una carne che frigge in lontananza, gli occhi dei bimbi non guardano la TV ma penetrano nel cartone animato, si controlla l' ora con minuscoli gesti che il sismografo di DFW non manca di rilevare, alle 22,30 le moquette sussurrano negli uffici delle multinazionali e in fondo ai corridoi gli ascensori aspettano muti a bocca spalancata...

Tutti noi che circoliamo tra i racconti di DFW ci riconosciamo, certo, ma abbiamo una pessima cera, regoliamo con fare stranito i nostri conti. Forse è quel pallore, ma c' è senz' altro qualcosa in più. Forse non stiamo bene, sarà quell' aria di "animali senza espressione". Forse addirittura sbrighiamo tutte le nostre faccende essendo già morti. Il mio sospetto è che lì dentro non agiamo semplicemente da morti: lì dentro siamo già crepati e ci hanno già fatto pure l' autopsia!

Ogni espressività è smascherata: basta digitalizzare i movimenti che il sismografo registra. Tutto in fondo è riducibile ad una somma di banalità numeriche. E' il continuo succedersi di banalissime onde a differenziare il Misterioso Oceano dall' insulsa pozzanghera. Se le facce degli uomini stessero ferme una buona volta, scopriremmo il loro nulla, scopriremmo la mucca che è in noi. E invece sono maschere in perenne agitazione, sono come le antenne dell' insetto che continuano a ondeggiare per sintonizzarsi anche quando tutto il corpo si è ormai bloccato in una marmorea quiete. L' onesta mucca ci guarda irrigidita nell' unica inespressività di cui dispone, la medesima che usa per fissare qualsiasi cosa. La nostra fidanzata invece ci inganna spostando di continuo i muscoli facciali da una configurazione all' altra di pura inespressività. Basta questa ginnastica per convincerci del suo amore.



Per molti il suicidio di DFW ha costituito un enigma. Letti due racconti, forse riesco a spiegarmi questa sensazione spiazzante: è difficile coniugare lo scandalo del suicidio con una vita interiore ingabbiata nelle canaline dei cristalli liquidi. La disperazione non alberga nei cuori costruiti in pietra pomice ruvida ed arida. Mi tranquillizza invece leggere il gesto estremo come provvidenziale e inevitabile ritrattazione di fatto.

sabato 28 giugno 2008

La Grande Madre Lombarda

Ci sono lettori che mentre leggono hanno sempre in bocca la propria saliva e non smettono mai di rimestarla e degustarla. Solo quel succo li appaga. L' unico cocktail che tollerano se lo procurano con la giunta del latte materno.

Se poi il loro fango è stato plasmato in Lombardia, vagano tra i volumi sempre sulle piste di una Madre Lombarda da mingere.

Ma non è facile trivellare la pagina alla ricerca dei pozzi di oro bianco. Occorrono sensibilissime bacchette da rabdomante.

L' orbato dai libri compie le sue indagini risalendo le correnti letterarie, tassellando i vari testi per l' assaggio. Difficilmente è possibile rintracciare i sapori secreti dalla grande Tetta Primaria, per quanto i grandi scrittori sappiano espellere mille succhi e coprire uno spettro infinito di sfumature.

Nemmeno pedinare la genitrice puo' essere di qualche utilità, visto che spesso s' impegna con zelo a ricoprire nei modi più vari proprio quei prodotti che lei considera deiezione e noi gerovital.

Per non smarrirmi tra i crepacci mi tengo ben attaccato alla corda della letteratura para-dialettale, gli odori mi sembrano quelli giusti. Ma se l'olfatto si accontenta di poco, il gusto è più esigente e proclama di continuo la sua insoddisfazione.

Passo in rassegna alcune ghiandole insoddisfacenti prima del gran finale.

La Tetta di Franco Loi, succhiata recentemente, ha emesso umori asperrimi, non ci siamo. La plumbea drammaticità di quell' esperienza sempre pronta all' autocoscienza, è ben lungi dall' umanissima vigliaccheria dei grambi più accoglienti. Lui stesso diffida e minaccia gli orfanelli che si avvicinano al suo rigo teso con l' intento di un omaggio ancestrale.

I Ghirigori di Arbasino esorcizzano la petrosità mondana.

Ma le mamme sgravate non dubitano mai un attimo di quella inestinguibile consistenza che l' "alchimista damerino" vorrebbe trasmutare. Il loro ex-feto è sempre lì a caricarle di adempimenti che annientano la riflessione, figuriamoci quella impreziosita da un ciuffo come il trompe l' oeille dialettico.

Altra dissonanza: le "Belle di Lodi" fanno avanti e indietro dalla riviera.

Ma nel "petroso mondo" la riviera è una california da conquistare in carovana sull' autosole con 1100 e 124 in un viaggio che tra radiatori raffreddati e carburatori tossicchianti, ha tutta l' aria di essere di sola andata. E intanto, tra i calori esalanti a pelo d' asfalto, compare l' Autogrill Pavesi di Modena, nostra Abilene.

Vano è poi l' impegno con cui Arbasino decora la pagina attingendo dalla tavolozza le tinte dorate del commentario sinuoso, del bel motto polisemico e della chiosa erudita. Sono smalti stranieri a chi conosce solo la polpa del corpore vivi e del pane & salame & caffè nero bollente di Abilene; per coloro i quali anche l' aria condizionata era un esotismo ("copriti che sei sudato").

Piero Chiara lo incontro sempre in latteria. Porge a me fiducioso un bel bicchierozzo dalla stabilità classica, opaco, sbreccato nei punti giusti e che trasuda promesse. Già la sniffata d' apertura raffredda i miei entusiasmi. La sorsata gli deprime, non si tratta di latte. E' solo un' acqua liquida.

E' un liquido però che frizza. La spina giocosa delle prime bollicine comincia a pungermi. Sono le bolle esilaranti del Lago Maggiore, vanno dritte nel cervello producendo stupefazioni da doping.

Sotto quell' effetto tutto il repertorio delle immaginazioni da bar/latteria prende corpo e comincia a sfilare una dissacrante processione.

Ed ecco che dal fumoso biliardo, le bolle ti traslano nell' afosa alcova della Bella di Paese. E' l' attacco di una sequela paganeggiante di vicende ben incastrate tra loro. Di solito sono mille e si tengono di notte. Si tratta spesso di Quella Cosa in Lombardia (qui nella versione cantata di Fortini). Di solito hanno ambientazione paesana e sono costellate di corna, tradimenti e dolci trasgressioni da perdonare all' istante; non per carità verso il peccatore ma per meglio offendere l' architrave ipocrita della società normalizzata.

Ma l' antenata, quell' architrave aveva l' aria di lucidarla in continuazione con la cera grey e fino all' epicondilite. Camuffare con imperizia certe timide trasgressioni - in modo che le si scoprisse sempre abbinate al giudizio ufficiale - sembrava uno dei suoi compiti primari.

Niente Chiara quindi. Niente bollicine, qui si cerca una bevanda da masticare, mica l' acqua della Sponda magra, imparentata più ai gas che ai liquidi.

Il fatto è che Chiara cade dalla torre portandosi dietro la popolosa cordata dei paganeggianti che va da Gianni Brera (scrittore all' impiedi) fino giù giù al Dottor Andrea Vitali (scrittore in panchina).

C' è del rumore laggiù in Sangiano. Non sono i fuochi di Laveno, sono gli schiamazzi del magnifico buffone. Ha fatto bene Dario Fo a predersi il suo Nobel e a portarselo a casa incurante delle critiche. Ha fatto bene perchè la sua casa è anche la mia e con un mobilio del genere ci guadagnamo tutti. Hai fatto bene Dario!... mi piaci anche solo per il fatto di aver "pendolato" sui miei stessi treni - e fa niente se nel salone di Stoccolma non hanno cosparso la segatura privandoti di quella capriola senza la quale la tua presenza è mutilata e non più radiante.

Forse la scomposta ganascia di Fo nella pagina soffre, è in cattività e non libera la sua sincope. Ascoltarla invece all' aperto, condita con la ritmica delle sputacchiate fertilizzanti, colorata dai sovracuti dello stupore villico, illustrata con la gestualità epilettica dell' analfabeta che la paga cara se non si spiega alla svelta - è la cosa più naturale.

Ma l' escadescenza lacustre di Fo non contagia mai del tutto la Santa Madre terraiola che ne ride nascondendo meccanicamente la bocca quasi avesse dentatura equina. Quel dispendio concitato di energie preoccupa. Quelle sintassi frantumate in modo osceno che svelano una condizione... messe in piazza così poi. Ma dài! Quasi fossero merde su cui ben presto si affolleranno i giudizi come mosche stercorarie. Non va bene per chi vuole il figlio "dutur...", che "vada avanti...".

Il Fo fa troppo chiasso per le Mamme Ladre che tutti i giorni devono rubare un po' di vita per portarla nel nido come un vermicello.

Dal chiasso puerile al chiasso straziato. Il Tempestoso Testori, per quanto ricrei l' ambiente giusto (Il Fabbricone, Novate, la Ghisolfa, il Calzaturificio...), ama agitarlo fino alla convulsione, manco fosse la boccia con la neve del Duomo. E questo non va bene per chi ama i piedi per terra e soffre i capogiri.

Io per me, figurarsi, m' immergo volentieri nella sua vasca, mi sottopongo con finta ritrosia all' idro-bombardamento della sua pagina offensiva. La sua è la vera lingua madre, ricca della verace ferialità di provincia, ubertosa al punto giusto per allevare il tuttifrutti.

Purtroppo la moltitudine di mulinelli spasmodici, che anzichè covare negli abissi si presentano in bella vista a pelo d' acqua, mi convincono che l' omaggio a questo grande sia da tributarsi per motivi differenti a quelli ricercati, la stilla originaria del latte materno non sta nemmeno lì.

L' apoteosi di Testori è l' urlo dilaniato e formidabile; per lui è urlata anche la gloria divina: sia che il Dio si presenti nei cessi della Centrale di Milano, sia che appaia alla giovane operaia del calzaturificio posseduta da spasmi di egoismo amoroso, sia che, in Basilica San Vittore a Varese, sormonti i vortici con cui l' amato Cerano movimenta la sua pittura deforme e a sua volta urlante.



D' altronde il culmine del film più testoriano, Rocco e i suoi Fratelli, è l' idiotismo urlato con la genialità concessa solo al dialetto (ma qui siamo nell' enclave milanese di Potenza). Il fratello cattivo Salvatori, sotto il Ponte della Ghisolfa e sguainato il coltello, lo scaglia badando bene che impatti contro l' unica persona della cui comprensione è sicuro, il fratello buono Delon: "... cercami perdono!...".

Solo il dialetto rende al meglio l' atto d' accusa che il carnefice cosciente della sua colpevolezza, rivolge alla candida vittima. Il capo d' imputazione che il peccatore già pentito addossa con furia al dio contro cui ha appena mancato, tanto per scendere ancora un gradino verso l' abisso e farla finita.

E poi Testori ha la bestemmia facile. Elemento altamente disturbante per chi da mezzo secolo pur mantenendo soglie di attenzione bassissime, non ha mai mancato una Santa Messa. Preciso: sto parlando di quella santissima deconcentrazione che evita l' udienza della parola ponderandola fino alla macerazione interiore, fino a fare di essa un vero prodromo ai comportamenti più bizzarri e antisociali. Quella Santa Deconcentrazione che forse i Controriformatori avevano in mente puntando tutto sulla sfuggente oralità non verbalizzata, anzichè sull' inamovibile e paralizzante sigillo del geroglifico scolpito.

Il Gadda poi, quanto a latte, è una vera vacca. La Tetta di Gadda secerne un prodotto scevro da ogni pastorizzazione.

Si diventa grassi a popparne troppo, e nell' albo forografico a noi ci conti le costole. La pinguedine dello stile è grave lacuna per chi gira le pagine con un paio di braccia accorciate dalla guerra. Gravissimo e impraticabile scialo per chi è in fila nel formicaio lafontainiano con nello zaino la sua ambizione borghese.

Eppure nessuno come Gadda ha narrato lo struggente sentimento dei gretti così sapientemente; modulato e miscelato dal macchinario sublime dei dolci egoismi settentrionali. Macchinario provvidenziale attraverso cui l' Ingegnere drenava tutta la feccia umida e melliflua.

Anatomizzando poi il dispiacere della Madre del Figlio Cattivo, Gadda è arrivato al cuore di tutti i discorsi, in primis al cuore del discorso materno, ha afferrato ben saldo il Dolore e la sua Cognizione. E' confortante un simile successo sul fronte dei contenuti. Quando si ha in mano un bolide da Xmila cavalli e le strade sono tutte intasate, la cosa più facile è che lo si faccia romare a vuoto.

Ma nell' industrioso formicaio le priorità sono ben altre: non servono cognizioni ad ampio raggio, come nella chorus line basta seguire e sincronizzarsi con le mosse e le posture dei vicini. Sciegliersi bene il cappuccio della falsa coscienza più adatta puo' essere decisivo mentre il Dolore è solo uno sbrego da cicatrizzare al più presto.

Varco il secolo e mi tolgo la berretta perchè sono sotto la statua del Manzoni. Una statua che incute... non so cosa ma incute. Incute troppo.

Sarà certo rigore giansenista, adatto all' isolamento cogitabondo nella levigata urbe meneghina, meno tra la nebbiolina che esala dalla rustica fatica campestre obnubilando anche i cervelli più promettenti.

Il suo mondo fatto di grandi conversioni corrucciate, non coincide con quello di chi s' identifica con la propria placenta, con quello di chi si sprofonda ogni giorno di più nel posto dove è nato dentro e crede ad altre province abitate come crede ai marziani.

La sacralità marmorea dei sui Inni prende le distanze dalle litanie berciate di chi in Processione arriva con la boffa e i scarp del tennis alla sommità del Sacro Monte votivo pregustando gazzosa & salamino.

Le santità sacrificale della celletta cristoforiana, non comunica con la religione vissuta in piazza come pretesto, buon senso e consolazione, in attesa che il miracolo della Misericordia la trasformi in Fede autentica e gloriosa.

L' alto e peripatetico ragionamento dipanato con il Rosmini in Villa nella quiete arborea e lacustre di Stresa, non si coniuga con l' iterata passeggiata al camposanto con cui la Vedova di lungo corso si stordisce e su cui impernia la settimana facendone una ventennale cadenza in attesa del grande Re-incontro coniugale - pensato in realtà solo con il lobo più periferico a disposizione.

I freddi ricami della Provvidenza potrebbero non conciliarsi con il formicolio febbrile della Sagra caciarona dove Lei trascina ovunque il braccino di un Figlio frignante alla ricerca dell' Altro disgraziato che chissà dov' è finito. E intanto le frittelle si raffreddano.

Il Pessimismo (filosofico, non benevolo) sull' uomo è un freno a mano lussuoso che non puo' permettersi chi sospinge tutti i giorni il suo fardello di dipendenze e interrelazioni portandosi sempre appresso il bilancino della diplomazia tarato sulla difensiva.

L' aculeo con cui il Porta fa sentire la sua puntura è qualcosa a cui il bonaccione pragmatico non resta indifferente, sebbene alla lunga lui preferisca l' ago del materassaio.

Con il Porta il Bonaccione Pragmatico entra nei palazzi dei Siori ma passa metà del tempo allo zerbino strofinando lo scarpone e l' irriverenza del poeta, mentre all' inizio lo diverte, poi lo inquieta e alla fine lo disturba. Non è a suo agio, si vede. Molto meglio starsene all' ingresso con il cappello sul petto a ricevere i sorrisi dei Fortunati e la curiosita dei pargoli (tutti biondi e che giughen dumàa in càa).

Quando poi il Porta produce il suo slancio romantico, il BP torna a casa sua che son pronte le verze, lasciando che l' ispirato si "slanci" da sè. All' umile non piace udir cantata con il trillo la propria umiltà. Lui, che passa la vita a sentirsi "un po' di più" di quello che è, non lega molto con chi trova tanto poetico figurarselo come "un po' di meno" per meglio compatirlo.

Il raffinato Parini poi, nei palazzi ci abita. Impugna uno squisito fioretto con cui vince tutti i duelli. Ma sono conti nati e regolati al di là della barricata. Ci si compiace per le stoccate che assesta ma non ci si immischia. Un bel calcione alla Vergin Cuccia puo' essere un lenitivo ma nella lista delle priorità materne bisogna scendere parecchio per rintracciarlo. Difficilmente le spallate del reverendo abbasseranno mai un qualsiasi ponte levatoio.

Se nel 900 al ricerca è stata infruttuosa, le cose migliorano solo di poco con l' ottocento e il sette. Niente paura, c' è ancora il sei. E' proprio lì che ho munto il Latte migliore. Spero settimana prossima di poterne parlare.