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venerdì 16 novembre 2018

SANTITA’

SANTITA’

Ad una persona puoi dire che deve donare tutto ai poveri. Oppure che deve donare il 5% delle sue entrate.
Probabilmente otterrai di più nel secondo caso.
Ci sono certi vegani che sembra si divertano ad umiliare e schernire i vegetariani, la qualcosa demotiva un carnivoro come me a fare il primo passo.
In fatto di etica ho una mia regola personale: se un comportamento è giusto mi ritengo soddisfatto quando lo pratico sopra la media. Poi mi rilasso.

E’ questo un insulto alla santità?


In effetti il modello “santità” beneficia più te che gli altri. Il modello “mediocrità” più gli altri che te.

Mi piace comunque l’effetto valanga del secondo modello: più gente l’adotta, più la media si alza, più un’intera comunità va verso la santità.

giovedì 4 gennaio 2018

PECCARE

Ieri sembrava meno perché c'era meno di tutto. Oggi c'è un mercato per ogni peccato.
La tentazione non è un male. Male è cadere in tentazione.
Superbia. Tipica dei grandi manager che si credono intoccabili.. Esistono corsi appositamente per loro per superare indenni il periodo di prigione.
Avarizia. In Messico produttori e compagnie di assicurazione hanno stretti rapporti con i rapitori. Esistono siti che vendono la segnalazione di errori ortografici su ebay.
Lussuria. Prostitute ottantenni a Città del messico a 5 euro. Aziende russe che vendono alibi per assenze da adulterio. Vendita suoni di sottofondo per le proprie telefonate. Vendita moduli di consenso per amanti casuali.
Giri in limousine. Noleggio ospiti per matrimoni.

lunedì 18 dicembre 2017

Quinto passo: Dio è un modello (e ci insegna a vivere)

Quinto passo: Dio è un modello (e ci insegna a vivere)

Abbiamo visto che probabilmente esiste un Dio, che probabilmente coincide con il Dio cristiano e che è un Dio d’amore. Un Dio del genere probabilmente cistarà vicino facendosi uomo  e allevierà la nostra condizione. Ma noi cosa possiamo fare noi per lui?
Essenzialmente una cosa: per “risarcire” Dio dei nostri peccati siamo tenuti a vivere una vita perfetta.
Non ci riusciremo mai – e infatti Gesù l’ha fatto al nostro posto – tuttavia dobbiamo pagare il nostro debito per quanto possiamo, dobbiamo mostrare di fare quanto in nostro potere.
Come vivere una vita perfetta? Il primo problema èinformativo: dobbiamo sapere molte cose. Possiamo arrivare a comprendere cio’ che è dovuto, in fondo la morale di base è comune a tutti gli uomini dotati di ragione, ma ci sfugge necessariamente tutto cio’ che è lodevole.
Innanzitutto ci sono dei particolari insidiosi anche nella morale necessaria: uccidere è sbagliato. Ma uccidere un feto? E uccidere un agonizzante? La Rivelazione ci puo’ illuminare su particolari tanto insidiosi.
Detto questo è comunque logico chiederci: ma perché non basta pagare il “giusto”? Perché si rende necessario il “lodevole”? Perché insomma Dio ci impone degli obblighi ulteriori rispetto a quelli della morale di base?
Ci sono essenzialmente due motivi comprensibili dalla ragione umana: uno esistenziale e uno comunitario.
Motivo comunitario: condividere dei valori realizza un coordinamento. Se non vi fidate della dottrina cattolica consultate pure la teoria dei giochi.
Imponendo un giorno comune per la festa, per esempio, si coordinano le relazioni comunitarie.
Da quanto detto si scorge la natura politica della religione cristiana.
Per fare un parallelo: comprendiamo bene che ungoverno politico bandisca l’omicidio ma perché mai dovrebbe imporci di guidare tenendo la destra? Non ha nessun contenuto morale un comando del genere, eppure è imposto in modo coercitivo. La risposta in questo caso è evidente: per realizzare un coordinamento, ovvero la funzione primaria dei governi politici.
In questo senso bisogna ammettere che quando i cristiani non sono maggioranza nella comunità, e da quando la laicità si è fatta strada, viene in parte meno questo motivo “politico” legato al “lodevole”.
Ce n’è però un secondo, il cosiddetto motivo esistenziale: puntare in alto rende più soddisfacente la nostra vita. Il piacere dei sensi non è tutto, occorre che l’uomo si senta realizzato per vivere una vita appagante. Se non vi fidate della dottrina cattolica consultate pure la scienza psicologica.
Se l’impegno che ci viene richiesto domanda un investimento non banale in termini di energie personali, la nostra personalità fiorisce. Difficile sentirsi realizzati limitandosi a non uccidere il fratello, molto più facile esserlo aiutando lo sconosciuto o compiendo un gesto eroico.
Ogni buon genitore, d’altra parte, impone ai figli doveri che oltrepassano la comune morale. Fare l’elemosina in favore dei bambini africani non è un dovere in senso stretto ma il buon genitore abitua così il figlio alla magnanimità d’animo e a perseguire mete elevate che vanno al di là dello stretto indispensabile e danno un senso più compiuto alla propria esistenza…
Si noti che molte azioni di coordinamento sono pressoché arbitrarie: tenere la destra equivale a tenere la sinistra, cambia poco. Questa arbitrarietà fa sì che la ragione umana stenti ad individuarle. Anche per questo diventa decisivo che a fissare la regola sia una voce autorevole, in modo da realizzare “conoscenza comune”. In poche parole, si rende necessaria una rivelazione divina. Noi sappiamo che rubare è sbagliato ma non sappiamo il giorno in cui andare a messa o fare digiuno.
Questa esigenza di una voce autorevole è sentita sia dalla ragione che dalla religione storica. Nella religione cristiana, per esempio, Dio ha parlato all’uomo (si è rivelato) più volte.
Nel Credo si dice chiaramente che Dio si è rivelato all’uomo attraverso i Profeti.
Questa Rivelazione assume la sua pienezza con la vita di Gesù. Nell’insegnamento di Cristo e nell’ insegnamento della Chiesa di Cristo i doveri del buon cristiano si sono estesi a dismisura.
L’amore che ci ha insegnato Gesù va ben al di là dei dieci comandamenti. Con lui molti atti eroici diventano un dovere. La preghiere e l’adorazione devono essere continue. Alcuni obblighi, come quelli sessuali e famigliari non sembrano immediati ma sembrano piuttosto eccedere i doveri individuati dalla ragione: se l’adulterio appare a tutti come una scorrettezza, non è così per i rapporti pre-matrimoniali. E’ chiaro che il messaggio di Gesù non è solo strettamente etico ma comunitario: Gesù è il fondatore di una comunità armoniosa (la Chiesa).
L’ universalità del comando divino fa sì che molte situazioni speciali non saranno disciplinate al meglio. Per esempio: non TUTTI i precetti matrimoniali si attagliano a TUTTE le coppie. In alcuni casi il divorzio sarebbe la soluzione migliore.  Tuttavia, l’azione complessiva di questi comandi renderà la comunità più prospera.
Non si puo’ negare che sul punto da noi esaminato ci siano approcci differenti, in particolare se si confrontano cattolici e protestanti.
Lo standard morale dei cattolici è molto elevato (pensiamo solo al celibato dei preti), e richiede un contenuto di misericordia altrettanto elevato. Lo standard protestante è più basso e puo’ permettersi maggior rigore.
Poiché l’insegnamento più proficuo consiste nell’esempio, l’insegnamento divino ci viene impartito fornendoci un esempio vivente: Cristo.
L’esempio è ancora più necessario quando l’obbiettivo è quello di illustrare la perfezione, e non un semplice schemino dei doveri (come nel caso dei dieci comandamenti).
Ma ogni comunità ha i suoi costumi e le sue tradizioni, cosicché ogni insegnamento deve essere rimodulato in conformità a quei costumi e a quelle tradizioni. E’ a questo che serve una Chiesa, ovvero il corpo di Cristo che vive sempre nella contemporaneità del credente. La Chiesa reinterpreta continuamente la rivelazione divina mantenendo l’unità dell’insegnamento originario.
Questa considerazione razionale trova un riscontro nel Credo cristiano allorché si accenna ad un’ unica Chiesa Cattolica (universale) e Apostolica (discendente da Cristo).
Ma c’è un’altra funzione demandata alla Chiesa. Noi siamo deboli. A volte conosciamo cio’ che è giusto ma non riusciamo a realizzarlo. Per esempio, sappiamo che lo zainetto di marca non è necessario per nostro figlio, che è meglio investire altrove per lui e che è giusto respingere i suoi capricci; ma poi ci ritroviamo in un contesto in cui tutti hanno lo zainetto di marca e cediamo. Ecco, la Chiesa è anche un luogo di reciproco aiuto, una comunità dove si puo’ crescere al meglio sempre esposti agli esempi più elevati. Chi ha detto che per crescere non occorre un insegnante ma un villaggio?… La Chiesa è quel villaggio.
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lunedì 15 maggio 2017

Difesa della virtù SAGGIO

L’ educazione alla virtù è piuttosto fuori moda, tuttavia Angela Knobel la difende nel saggio “Is Character Necessary for Moral Behavior?”.
L’educazione alla virtù dovrebbe tendere a forgiare un carattere “virtuoso” (coraggioso, prudente, forte, controllato…).
Essere virtuosi significherebbe quindi possedere un’inclinazione alla giustizia e all’azione degna di lode.
Aristotele e San Tommaso sono i filosofi che più hanno sponsorizzato questa via al bene.
C’ è chi si oppone all’approccio facendo notare che i caratteri sono piuttosto rigidi, anche in tenera età: volerli piegare alla virtù è velleitario e rischia di produrre forzature.
Ci sono anche altri rischi: l’educazione alla virtù fa uso della ripugnanza come segnale etico. In altri termini: una persona “ben educata” riconosce il male dalla sua “puzza”. Che ne penserà costui del “matrimonio omosessuale”? E del divieto di vendere organi umani (tipo i reni)? Si tratta di istituzioni che, al limite, possono essere accettate ragionando, se ci affidiamo al nostro istinto immediato potremmo prendere una decisione errata.
A difendere le virtù sono rimasti i religiosi: costoro non si accontentano di una morale minimale (cosa non bisogna mai fare) ma vogliono di più (cosa è lodevole fare). Ora, mentre esiste una bussola per la morale minimale, è difficile orientarsi quando si ambisce alla vita perfetta: quello che serve allora è una coscienza ben formata che sappia discernere al meglio nella contingenza.
A fianco dei religiosi c’è solo lo psicologo evoluzionistaper lui l’istinto prevale ed è quindi l’istinto, per quanto possibile, a dover essere “educato” in tenera età.
Ma quali sono i reali vantaggi della virtù? E’ davvero necessario essere coraggiosi per fare gesti coraggiosi?
A prima vista no: spesso persone non particolarmente coraggiose compiono azioni coraggiose se convinte della loro bontà.
Eppure c’è un collegamento tra prontezza nell’azione e carattere della persona. Considerate una situazione di questo tipo…
… Suppose you and a friend witness a terrible accident: a vehicle loses control, crashes into a tree, and begins to burn with the driver trapped inside. Let’s assume that it’s possible to save the driver, that going to his aid would be courageous, not reckless or foolhardy. Your friend, who is courageous, immediately springs into action. Before other bystanders have fully registered what has happened, he has rushed to the vehicle, found a means of breaking the window, and is in the process of dragging the unconscious driver to safety. If you are not particularly courageous yourself, it’s unlikely that you will react as your friend does. For one thing, you probably won’t react as quickly or decisively, even if you do want to help. You might, for instance, have a hard time deciding what to do and an even harder time doing it. In other words, you will have to wrestle with your fear of being burned or otherwise injured— even if you end up doing the courageous thing…
La persona coraggiosa compie il suo gesto senza un travaglio interiore. A volte costui sembra addirittura ansioso di compiere il “bel gesto”. Di certo agisce più prontamente, e questo in molti casi conta: in condizioni di emergenza è soprattutto su di lui che possiamo fare affidamento.
Ma cosa succede se non siamo di fronte al bambino caduto nel fiume o alla macchina che prende fuoco? Le virtù sono ancora utili? Sembrerebbe di no: il non-virtuoso, una volta risolta la sua crisi interiore, è anch’esso disponibile all’azione dopo che ha soppesato i pro e i contro.
Eppure, c’è un legame anche tra carattere e percezione morale. Per coglierlo facciamo un caso meno drammatico del precedente…
… Peter, seeing that the walks are icy and worried that his elderly neighbor might slip and fall, salts his neighbor’s walk as well as his own. Paul, seeing how much cleaning up there is to do after a friend’s party, stays behind to help wash the dishes…
Nelle nostre vite ci sono molte piccole cose buone che possiamo fare, ma pochi di noi se ne accorgono. Se qualcuno ce lo chiede esplicitamente poi acconsentiamo con entusiasmo. Altrimenti… Se il vecchietto della porta accanto ci chiede una mano noi ci precipitiamo. Se non lo anticipiamo intervenendo di nostra sponte – probabilmente - è perché non abbiamo un carattere morale ben formato.
Spesso non pensiamo di aiutare i nostri ospiti a riordinare la casa dopo una serata trascorsa insieme. Ebbene, ad una persona virtuosa un gesto del genere viene d’istinto. Una persona gentile è gentile, non deve pensare “ora è il momento giusto per essere gentili”, lo è per inclinazione, di conseguenza difficilmente “dimenticherà” di essere gentile.
La differenza tra l’ “essere” e il “fare” si riflette quindi sia nei grandi che nei piccoli gesti.
Ecco come pensa il vizioso:
… When we wake up to find our sidewalk coated in ice, our first thought is likely of the inconvenience this poses to ourselves— to our own risk of injury and our own well-being. It’s not that we consciously disregard the well-being of our neighbor but, rather, that we don’t habitually think of our neighbor’s well-being much at all…
Chi è gentile pensa in termini molto diversi, in casi del genere avere un carattere ben formato è un pre-requisito per agire in modo corretto: se non siamo virtuosi non riconosciamo il bene.
Qualcuno pensa che le le convenzioni sociali possano rimpiazzare la virtù soggettiva: facciamo in modo che certi comportamenti siano vergognosi e la virtù diventa superflua. Ma spesso la convenzione sociale fallisce…
… If I desire social approval and I know that society expects a certain kind of behavior, then I will have reason to do it— when someone is watching. Only when I see the relevant actions as desirable for their own sake will I have a reliable reason to do them no matter what…
E la legge formale come sostituto della virtù? Una società che imponga la “vita perfetta” è un incubo. Inoltre, non favorisce la conoscenza: la morale va esplorata consentendo esperimenti alternativi tra loro.
C’ è infine il problema della circolarità
… If I have to know what is virtuous in order to do it, isn’t virtue circular?…
Aristotele risolveva con il concetto di “phronimos”…
… Even if we are not ourselves virtuous, we can still recognize people who seem to have “gotten it right,” and we can imitate them. As we make progress in modeling ourselves after these exemplars, we grow in virtue…

giovedì 20 aprile 2017

Le virtù e i vizi della Virtù

In campo morale lo scontro tra deontologia e virtù è millenario. Voi da che parte state?
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Vediamo di che si tratta.
Per la deontologia esistono solo dei doveri di base (minimali), tutte le altre scelte dell’uomo riguardano il gusto e non sono quindi criticabili.
Per i virtuosisti, invece, ogni decisione puo’ dirsi “giusta o sbagliata” in termini morali. Ci sono errori più gravi, scelte più o meno encomiabili ma il moralismo è onnipresente.
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Per la deontologia i soggetti devono conoscere i loro doveri e poi – ragionando nelle varie situazioni – ricavare il comportamento più corretto da tenersi.
Per i virtuosisti, invece, il carattere dei soggetti deve essere educato fin dalla prima infanzia affinché poi l’osservanza dei precetti risulti spontanea.
Questa differenza, si noti, discende da quanto detto prima: è chiaro infatti che se ogni comportamento ha rilevanza etica, lo spontaneismo diviene centrale: non si puo’ fermarsi a ragionare su ogni gesto che compiamo.
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Il virtuosista punta all’eccellenza, la deontologia al minimo indispensabile. Il virtusista mira alla santità, l’altro a non prendere multe.
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Vediamo quali sono i “pro” e i “contro” delle virtuosismo, ovvero dell’amore per l’eccellenza.
Pro: Concede sempre a tutti  uno spazio per migliorarsi, realizzarsi, essere fieri di sé. L’uomo si sente felice, non dico quando è Santo, ma comunque quando sente di adempiere ad un compito importante e difficile. Non a caso il virtuosismo è spesso connesso ad una religione.
Pro: Coordina meglio la società rendendola più prevedibile. Ci attendiamo tutti che venga compiuta l’azione considerata “buona” ma per chi si affida ai semplici “doveri” le azioni suscettibili di questo “marchio” sono poche,  prevalgono le azioni amorali e quindi l’incertezza nel comportamento altrui.
Pro: Con soggetti dal carattere ben formato l’ipotesi libertaria è meno utopica. Con soggetti che a malapena si astengono dall’aggredire il prossimo e su tutto il resto sono fragili e “dipendenti”, la proposta liberale suona velleitaria.
Pro: Diviene centrale l’educazione precoce, quella fondata sul buon esempio e sull’ affettività.
Pro: Noi siamo dotati di un “senso morale” pervasivo, l’approccio virtuosista è più confacente alla nostra natura.
Contro: Scade nell’arbitrio più facilmente laddove pretende di discernere ovunque bene e male, anche nelle piccole cose.
Contro: Pretendendo troppo, puo’ risultare esoso e produrre un “effetto Laffer” nella curva dei peccati.
Contro: Conformismo, formalismo, estetismo e soprattutto intolleranza sono pericoli sempre in agguato.
Contro: Il rischio di chiedere troppo si scontra anche con la rigidità della nostra natura. L’educazione, per quanto precoce, non è in grado di modellarla se non a costo di sofferenze prolungate che oggi giudichiamo intollerabili.
GOO

giovedì 15 ottobre 2015

Sacrifici inutili

L'utilitarista gli aborre ma ci sono almeno due motivi per difenderli:


  • allenano ai sacrifici utili. la volontà infatti si allena come un muscolo. del resto la scuola non è altro che un allenamento allo sforzo intellettuale: le nozioni che s'imparano sono per lo più inutili per lo più inutili. c'è da aggiungere che chi sta in fondo alle gerarchie sociali ed è privo di grandi talenti ha nella capacità di sacrificarsi l'unica sua arma per non perdere il contatto con chi sta sopra di lui.



  • sono fonte di soddisfazione quando ci legano e ci identificano strettamente ad un valore che sentiamo profondamente: la mamma che non fa l'epidurale offre questo suo dolore al figlio e si sente realizzata.
continua

giovedì 26 febbraio 2015

Tre argomenti in favore della virtù

In questa post vorrei abbozzare una difesa della cosiddetta "etica della virtù" presentando tre argomenti a suo favore ma capisco che prima bisognerebbe capire meglio cosa sia.
In etica l' approccio legato alle "virtù" si contrappone all' approccio "deontologico" e per individuare con chiarezza dove risieda il discrimine discuto di un tema ricorrente nel dibattito contemporaneo: il "relativismo etico".
1. RELATIVISMO ETICO
Il "relativismo etico" è spesso chiamato sul banco degli imputati, gli ultimi Papi ne hanno fatto la sentina di tutti i mali della modernità.
Personalmente, ho sempre faticato a capire fino in fondo il significato dell' espressione.
Forse perché tra i "relativisti" fanno bella mostra di sé alcuni tra i "moralisti" più petulanti che sia dato ascoltare oggigiorno.
Ma come è possibile essere "relativisti" e al contempo mostrarsi infervorati come tanti Savonarola? (*)
Ma come è possibile puntare tutto sulla denuncia del degrado morale è poi indignarsi con chi accenna al concetto di valore non-negoziabile?
Ecco allora qui di seguito un modo per appianare il paradosso.
Assolutisti e Relativisti si scambiano accuse reciproche in un dialogo tra sordi, la mia ipotesi è che i primi lo facciano avendo in testa l' "etica come virtù", i secondi, per contro, pensano all' etica come deontologia.
Vediamo di chiarire meglio i termini.
Se l' etica è deontologica, allora tenere un comportamento etico equivale a ubbidire ad una regola o a un set di regole.
Se invece l' etica è una virtù, allora tenere un retto comportamento è la conseguenza naturale di chi da sempre, a cominciare dall'infanzia, coltiva sane abitudini. Per il virtuoso l' abitudine prevale sulla regola, i costumi sull'acutezza morale.
Per la deontologia il problema etico si consuma qui ed ora: che fare? Qual è la regola corretta da applicare al problema che mi viene sottoposto? Come "calcolarla"?
Per il virtuista, invece, il problema etico coinvolge una vita: l' educazione ci instilla delle attitudini che poi, nella vita,  ci faranno propendere verso il comportamento più corretto.
Prendiamo adesso una virtù specifica: il coraggio. Anche nel linguaggio comune è del tutto normale definire il "coraggio" come un valore assoluto.
Avere poco coraggio non è mai degno di lode, così come è impossibile averne "troppo". Infatti, non appena si esagera, non parleremo più di coraggio ma di temerarietà incosciente, che è ben altra cosa.
Tuttavia, fateci caso, se pensassimo in termini di "regole" non varrebbe niente del genere. Non esistono regole "assolute", nemmeno per l' "assolutista" che si batte contro il "relativismo etico".
Anche se pensassimo alla regola più ovvia: "non uccidere l' innocente", possiamo raffigurarci delle valide obiezioni.
Per esempio, se il sacrificio dell' innocente, magari un vecchio prossimo alla morte, ci consentisse di salvare 10 innocenti, magari bambini, potremmo anche ritenere sensata una trasgressione. Nessuno griderebbe al relativismo. (E se 10 vi sembrano pochi potete provare con 100 o 1000 finché raggiungerete di sicuro un numero a voi consono).
Insomma, la virtù è assoluta, la regola mai. Ecco allora dove si ingenerano equivoci. Il discrimine non passa tra assolutismo e relativismo ma tra deontologia e virtuismo.
Assolutisti e Relativisti se ne dicono di tutti i colori ma forse solo perché i primi hanno in mente un' etica fatta di virtù, i secondi di regole.
2. MORALITA' E MORALISMO
Una volta precisata la distinzione tra etica virtuistica ed etica deontologica, ipotizzo un vantaggio che la prima potrebbe avere sulla seconda, ovvero promuovere la moralità senza moralismi.
Anche qui attingo alla mia esperienza personale partendo dall' assunto difficilmente confutabile che il mondo religioso sia più sensibile alla virtù mentre quello ateo/laico alla deontologia.
Ebbene, nella mia esperienza riscontro molto più moralismo nel secondo! Qui le prediche sono continue e non manca mai nemmeno l' ateo che ti fa le pulci in quanto credente ("perché non aiuti di più i poveri tu che vai a messa?", "perchè non fai volontariato tu che frequenti l' oratorio?", "perché non difendi la legalità tu che sei così pronto alla sottomissione papale?", "perchè voti quel partito tu che dovresti essere il più solidale tra i solidali?", eccetera). Taccio poi di quella schiera di intellettuali non credenti che sembra abbiano una sola passione nella vita: insegnare al Papa come si fa il Papa. Il moralismo laico tende a vedere nel credente un ipocrita in pectore proprio perché nella religione non vede altro che precetti morali, non sa capirla in altri termini, per lui la fede è solo un modo per fondare stabilmente quei precetti e nel momento in cui il credente "manca" diventa per definizione un ipocrita.
Riconosco che in passato forse non era così, il perbenismo moralista allignava per lo più tra i credenti, ma ora ho la sensazione che le cose siano radicalmente cambiate. Di certo non viviamo nel paese del bengodi, sta di fatto che da noi crisi, mafia, corruzione, evasione, illegalità hanno trasformato in "pretonzoli" molti osservatori che, a corto si soluzioni, vedono come unica via di scampo l' avvento della "bontà universale", cosicché cercano di propagarla a suon di prediche (chi al bar e chi sui giornali più prestigiosi).
Qui voglio sostenere che questa percezione, ovvero il moralismo pervasivo del mondo laico, ha una spiegazione razionale, ovvero che è in un certo senso è il portato necessario di un' etica deontologica. Ecco allora il primo argomento di cui al titolo: l' etica delle virtù ci salva dal moralismo.

Dimostro la tesi con un esempio.
Giovanni è persona morale, Giuseppe è un moralista.
Qual è la differenza tra "morale"? e "moralismo"?
Giovanni vede nel comportamento morale una virtù. Il comportamento morale ha in sé qualcosa di spontaneo, non lo si inculca. E al limite, se lo si inculca, lo si inculca da subito, da bambini, la virtù , lo dicevo nel paragrafo precedente, poi cresce con noi. Se non è innata, è per lo meno un' abitudine radicata.
Giuseppe, invece, vede nel comportamento morale l' osservazione di una regola (deontologica). La regola sta lì davanti a noi, ci viene calata dall' alto e noi siamo chiamati ad osservarla. La nostra libertà, poi, ci fa decidere pro o contro.
Giovanni è un "evoluzionista": la regola morale "emerge" in noi e fa parte di noi, è consustanziale alla nostra natura e all' educazione ricevuta.
Giuseppe è un "riformatore": per lui l' autorità morale stabilisce la regola ottima e la propone alla nostra intelligenza. Gli altri ne prendono atto e scelgono se ubbidire. Quando l' autorità muta, cambierà i calcoli e riformerà la regola ottima e gli altri si adegueranno obbedendo.
Per Giovanni i precetti etici sono assimilabili ad una legge naturale, per Giuseppe il concetto di etica converge con quello di legalità.

Per Giovanni il passato ha un valore importante visto che le virtù si dimostrano tali nella prova con il tempo e reggono il vaglio evolutivo. Per Giuseppe il tempo ha meno importanza, se i nostri calcoli ci dicono che le vecchie regole sono sbagliate la cosa migliore è fare tabula tabula rasa e ricominciare da zero.
Per Giovanni le prediche e le crociate hanno poco senso. Le regole morali sono in buona parte innate nella nostra persona, e se anche non lo fossero, vengono comunque interiorizzate dal soggetto solo grazie ad abitudini che si radicano in una vita intera. Non ha senso "esportare" la morale a terzi, a meno che si ritenga che un certo comando morale appartenga già alla natura del "terzo". Gli uomini, o perlomeno gli uomini adulti, sono "irriformabili", non ha senso convincerli con una predica o una crociata. Cio' non significa che siano immorali ma che possiedono una loro sostanza morale che magari è differente dalla nostra.
Per Giuseppe le prediche e le crociate hanno invece senso. Se c' è un comando che Tizio non rispetta, noi possiamo convincerlo o costringerlo a rispettarlo. L' uomo immorale puo' essere "riformato" perché la sua scelta è un' opinione e tutte le opinioni possono cambiate. L' uomo immorale puo' essere convertito poiché la regola morale deriva da un "calcolo" e i "calcoli", se sbagliati, devono e possono essere corretti.
Certo, ad un discorso del genere non mancano le obiezioni, ne vedo emergere almeno un paio obiezioni ficcanti:
1. Sebbene la crociata di "conversione" degli altri adulti sia insensata per chi crede nelle virtù. resta praticabile la crociata di "conversione" dei bambini.
2. Sebbene la crociata di "conversione" dia insensata per chi crede nelle virtù, resta praticabile la crociata di "sterminio".
La prima, più che un' obiezione, è un argomento di segno opposto che accetto, i rischi ci sono e se la virtù è caduta in disgrazia lo dobbiamo agli eccessi del passato. La seconda mi sembra poco verosimile, voglio sperare che certe epoche buie appartengano ad un passato irreversibile.
3. LAICITA'
Per quanto sia possibile dividere la deontologia dalla virtù, nessuno di noi aderisce completamente ad un' opzione piuttosto che all' altra. Anche il "deontologista" più radicale è disposto ad assegnare un ruolo all' educazione, così come il virtuista ammetterà sempre l' esigenza di regole precise.
Chi distingue tra queste due realtà etiche è nelle condizioni ideali per elaborare il concetto di laicità: Il laico distingue tra regole e virtù ammettendo che le prime richiedano un' applicazione coercitiva mentre per le seconde basta la sanzione della propria coscienza.
4. IL DISCORSO DELLA MONTAGNA
Mentre l' antico testamento prediligeva un approccio deontologico - il decalogo calato dal Sinai è esemplare - Gesù ci introduce alla virtù: nel discorso della Montagna, da un lato invoca la Misericordia nel giudizio divino sugli uomini, dall' altro inasprisce i doveri di questi ultimi: non basta evitare l' adulterio ma si è chiamati a non pensare nemmeno alla donna d' altri. Non basta andare d' accordo con la propria sposa, non bisogna nemmeno separarsi da lei (revocata quindi la possibilità di divorziare introdotta da Mosé). Se con Mosé, poi, era illecito uccidere, con Gesù non bisogna nemmeno adirarsi. Se prima vigeva la legge del talione ora bisogna "porgere l' altra guancia".
E' chiaro che in un' ottica virtuosistica la Misericordia è imprescindibile. Lo è per il semplice che non esiste più il "giusto", tutt' al più esiste il "giustificato" e non si puo' essere giustificati senza un atto di misericordia.
Da sempre i cattolici sono i custodi della virtù contro l' etica deontologica.
5. LIBERALISMO E VIRTU'
C' è chi pensa che l' etica della virtù sia incompatibile con il liberalismo: avere standard troppo elevati ci rilassa sull' applicazione delle regole minime.
Non mancano gli argomenti a favore di questa ipotesi, a cominciare dalle deludenti performance di molti paesi cattolici. Inoltre, la nostra riserva di moralità sembrerebbe limitata; chi punta in alto rischia di mancare sui fondamentali.
Però esistono anche argomenti che rendono l' abbinata liberalismo/virtù particolarmente avvincente, e qui vengo al mio secondo argomento.
Dobbiamo riconoscere che l' esercizio spontaneo della virtù è essenziale affinché una società libera funzioni: non basta non uccidere il nostro prossimo per vivere una vita felice. Voi che ne dite?
La stessa sacrosanta libertà di espressione, se non temperata dalla virtù e dal buon senso, puo' fare danni irreparabili.
Di fronte a questa realtà ineludibile come si comporterà chi non crede nella virtù o non la tiene in conto? Semplice, non ha che una scelta: stabilire una moltitudine di regole minute e coercitive che rendano la vita sociale accettabile.
Se la libertà di espressione rischia di essere dannosa la restringeremo grazie ad una regolamentazione stringente che vagli caso per caso cosa è lecito e cosa non lo è.
Questa via fatta di proibizionismi non è invece una via obbligata per coloro che credono e promuovono la virtù. Costoro possono pensare: fissiamo alcune regole di base (deontologiche) e per il resto affidiamoci alle virtù che l' uomo sa sviluppare spontaneamente. In questo modo le regole coercitive di base possono realmente minime, ovvero coerenti con l' assunto liberale.
Ecco allora emergere il secondo argomento di cui al titolo: l' etica virtuistica ridimensiona l' uso della coercizione.
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6. FELICITA' E VIRTU'
La psicologia mi offre il destro per enunciare il terzo argomento di cui al titolo: chi crede nella virtù e cerca di praticarla è una persona mediamente più felice.
Capisco che il tema della felicità umana sia insidioso, il bulldozer della scienza ha abbattuto molti ostacoli ma forse per addentrarci in questo genere di misteri una novella di Flaubert   è ancora il modo migliore (consiglio: "Un cuore semplice"). Tuttavia, su alcune tesi si riscontra una convergenza tale che mi parrebbe strano  non contengano un grano di vero.
L' uomo è felice se sente  una certa "nobiltà" nella propria missione, una certa "grandezza", un significato che vada oltre le preoccupazioni prosaiche della vita quotidiana. L' obiettivo che persegue deve comportare un sacrificio, essere generosi, per esempio, aiuta a sentirsi bene, il dono di sè a quanto pare è importante innanzitutto per se stessi.
Ebbene, il rispetto della regola deontologica minimale ci massifica, è difficile sentirsi "realizzati" perché abbiamo compilato correttamente un modulo o perché non abbiamo violentato il nostro vicino di casa. Per contro una vita virtuosa ci nobilita: se ci siamo sacrificati, anche oltre il ragionevole, per il bene dei nostri figli il nostro cuore è in pace e possiamo goderci la vecchiaia. Se abbiamo resistito alle lusinghe di un facile amorazzo, che a pensarci bene non avrebbe fatto male a nessuno, torneremo ad amare ancora più felici nostra moglie. Insomma, la vita virtuosa ci proietta nella dimensione ideale per perseguire una realizzazione personale, ci fa sentire partecipi di un progetto ambizioso. La vita virtuosa ha il pregio di essere contemporaneamente elitaria e a disposizione di tutti. Crescere un figlio è "qualcosa di unico che fanno tutti". C' è qualcosa di miracoloso in tutto cio', sarebbe da stupidi lasciarselo scappare.
NOTE
(*) Sia chiaro, il timore del relativismo non è campato in aria, è il frutto di una storia ben precisa del pensiero occidentale, senonché oggi, secondo me, abbiamo superato quello stadio. A titolo esemplificativo redigo una piccola storia della pedagogia che illustra un percorso di andate e ritorno rispetto ai Valori. Qui si vede bene come il pericolo relativista incombesse ma anche come sia ormai alle nostre spalle:
  1. Aristotele: è doveroso formare il carattere morale del ragazzo inculcando un' etica basilare fatta di: 1) rispetto (dell' altro e della sua proprietà), 2) lealtà (alla parola data), coraggio (voglia di intraprendere con l' altro) 3) buone maniere (non approfittarsi del diritto alla libertà) 4) temperanza (self contro e successo sono legati a doppio filo). il bambino, secondo Aristotele, è un "barbaro da civilizzare". Tra noi e gli animali spicca una differenza: noi possiamo trasmettere la nostra cultura, loro devono ricominciare sempre da capo, tanto è vero che noi andiamo avanti e loro restano fermi.
  2. La pedagogia aristotelica è condivisa un po’ da tutti nella storia: greci, romani, illuministi, romantici, vittoriani. Nel novecento il paradigma muta.
  3. Si realizzano eccessi che trasformano il metodo di Aristotele in un metodo "zero-tollerance": qui l' educatore si allontana dal discente  trasformandosi da civilizzatore in punitore distante.
  4. L' accusa della pedagogia progressista scatta immediata ma non prende di mira la sopravvenuta lontananza del genitore quanto cio' che viene chiamato indottrinamento se non "lavaggio del cervello". Tuttavia, "violentare" il carattere di una persona è possibile solo se la persona è autonoma, cosicché viene postulata l' autonomia del bambino.





















































lunedì 16 febbraio 2015

Ancora su etica e virtù

Alcuni dati sperimentali sembrano dirci che la nostra scorta etica è limitata: se facciamo i "bravi" qui faremo i "cattivi" di là.

Nell' eterna battaglia tra virtù e deontologia la cosa sembrerebbe deporre a favore di quest' ultima: puntare troppo in alto rischia di minare i fondamentali.

mercoledì 19 novembre 2014

Il mistero del relativismo etico

Il "relativismo etico" è spesso chiamato sul banco degli imputati, gli ultimi Papi ne hanno fatto una sentina di tutti i mali della modernità.

Personalmente, non ho mai capito fino in fondo il significato dell' espressione.

Forse perché tra i "relativisti" fanno bella mostra alcuni tra i "moralisti" più petulanti che sia dato ascoltare oggigiorno.

Ma come è possibile essere "relativisti" e al contempo mostrarsi infervorati come dei Savonarola?

Ecco allora un' ipotesi in grado di dissipare un possibile equivoco.

Assolutisti e Relativisti si scambiano accuse reciproche in un dialogo tra sordi: i primi lo fanno pensando all' etica come virtù, i secondi pensando all' etica come deontologia.

Vediamo di chiarire meglio i termini di questa distinzione.

Se l' etica è deontologica, allora tenere un comportamento etico equivale ad ubbidire ad una regola.

Se invece l' etica è una virtù, allora tenere il retto comportamento è la conseguenza naturale di chi coltiva sane abitudini.

Per la deontologia il problema etico si consuma qui ed ora: che fare? Quale regola applicare? Come "calcolarla"?

Per il virtuista, invece, il problema etico coinvolge una vita: l' educazione ci instilla delle attitudini che poi, nella vita,  ci faranno propendere verso il comportamento più etico.

Prendiamo adesso una virtù specifica: il coraggio. Anche nel linguaggio comune è del tutto normale definire il "coraggio" come un valore assoluto.

Avere poco coraggio non è mai degno di lode, così come è impossibile avere "troppo" coraggio. Infatti, non appena si esagera, non parleremo più di coraggio ma di temerarietà, che è ben altra cosa.

Tuttavia, fateci caso, se pensassimo in termini di "regola" non vale niente del genere. Non esistono regole "assolute", nemmeno per l' assolutista.

Anche se pensassimo alla regola più ovvia: "non uccidere l' innocente", possiamo raffigurarci delle valide obiezioni.

Per esempio, se il sacrificio dell' innocente, magari un vecchio prossimo alla morte, ci consentisse di salvare 10 innocenti, magari bambini, potremmo anche ritenere sensata una trasgressione. Nessuno griderebbe al relativismo. (E se 10 vi sembrano pochi potete provare con 100 o 1000 finché raggiungerete di sicuro un numero a voi consono).

Insomma, la virtù è assoluta, la regola mai. Ecco allora dove si ingenerano equivoci. Il discrimine non passa tra assolutismo e relativismo ma tra deontologia e virtuismo.

Assolutisti e Relativisti se ne dicono di tutti i colori ma forse solo perché i primi hanno in mente un' etica fatta di virtù, i secondi di regole.