giovedì 21 febbraio 2013

Beati gli umili

… l’ umiltà è la presunzione di chi l’ ha preso in quel posto…
anonimo
Ma che significa essere “umili”?
In un saggio sull’ argomento, Robert Roberts, docente di etica alla Baylor University, comincia facendo quello che faremmo tutti, ovvero legge alla voce “umiltà” dell’ English Oxford Dictionary:
… umiltà è la qualità dell’ essere umili, ovvero dell’ avere una modesta opinione di sé…
Ma avere “una bassa opinione di sé” è tutt’ altro che una virtù!
Purtroppo, Hume e altri filosofi appartenenti alla tradizione empirica, identificarono il sentimento di umiltà con una carente auto-stima.
Qualcuno cercò allora di aggiustare il tiro pensando all’ umile come a persona che, esente da presunzioni, riesce a giudicare se stesso e gli altri con una certa accuratezza.
Anche qui non ci siamo.
Forse che il più grande pianista del mondo è umile perché ritiene – giustamente - di essere tale? Costui, è vero, non si sovrastima ma, non scherziamo, l’ umiltà è altra cosa. Giudicare sé e gli altri in modo corretto, al limite, rivela onestà intellettuale più che umiltà:
… andrei oltre dicendo che chi si concentra troppo sui giudizi, sia verso sé che verso gli altri, difficilmente coltiverà la virtù dell’ umiltà…
Altri confondono umiltà e conformismo:
… essere umili non significa andare con il gregge, sebbene nella tradizione orientale qualcosa del genere, magari spurgato delle connotazioni negative… puo’ essere vero…
Non parliamo poi di chi assimila umiltà e servilismo. Costoro usano il termine in modo denigratorio.
umili
Secondo la tradizione cristiana, Gesù di Nazareth è il perfetto modello di umiltà. Vediamolo allora da vicino:
… abbiamo di fronte una persona che si disinteressa del suo status…
Gesù non è interessato a confezionare accattivanti “biglietti da visita”. La cura dell’ “immagine” non è in cima ai suoi pensieri.
Nasce in una stalla e lava i piedi ai suoi discepoli. Più sfigato di così!
Allo stesso tempo, Gesù, è perfettamente consapevole della sua condizione superiore di figlio di Dio e, quando si viene al dunque, non fa niente per dissimularla. Anzi, sul punto è “scandalosamente” chiaro, la sua “scorrettezza politica” rischia spesso di offendere l’ interlocutore. Pagherà cara la chiarezza e la mancanza di peli sulla lingua.
Secondo questo modello, quindi, l’ umiltà coincide con un disinteresse per l’ apparire. Un disinteresse ben lontano dall’ ignoranza circa le proprie doti e la propria natura. Trascurare le apparenze per dedicarsi alla sostanza è tipico di Gesù.
In questo senso Socrate lo anticipa. Il filosofo greco prende continuamente le distanze sia dalla falsa modestia che dalla ricerca di approvazione sociale.
L’ esempio di questi giganti è straordinario, e ce lo conferma la scienza contemporanea:
… per i primati, incluso l’ uomo, la caratteristica saliente dell’ ambiente in cui sono immersi, è rappresentata dalle tensioni che la “caccia allo status” crea tra gli agenti… se mai esiste un sentimento universale nello spazio e nel tempo questi è l’ invidia…
Insomma, vogliamo essere degli “alpha”, se non in assoluto, perlomeno rispetto a qualcuno.
Solo quando questa ansia viene frenata – per esempio dall’ amore per Dio o da qualche altro interesse genuino – noi potremo imboccare la via dell’ umiltà.
Ricordiamo che dallo “status” dipende la nostra rispettabilità e la nostra reputazione sociale, nonché una serie di conseguenze pratiche. Per questo risulta tanto difficile trascurarlo.
Il progetto di fare dell’ umiltà una virtù si scontra allora con il fatto che potrebbe essere impossibile praticarla in modo verace e i “doveri impossibili” sono anche “doveri insensati”.
umil
La psicologia evolutiva interpreta praticamente tutto in termini di “caccia allo status”. Dallo status dipendono in modo cruciale le opportunità di riproduzione. Lo sfigato medio non ha una prole numerosa.
Perché desideriamo vestire bene? Perché essere eleganti ci piace, ma anche per curare il nostro status. Perché vogliamo una casa dignitosa? Perché abitare una bella casa è meglio che abitare una casa squallida, ma anche per coltivare il nostro status. Perché vogliamo fare “vacanze speciali”? Perché siamo alla ricerca di comodità o di emozioni forti, ma anche per innalzare il nostro status presso i terzi che ne vengono a conoscenza.
Non facciamo mai qualcosa (solo) per fare quella cosa, in realtà stiamo lavorando al nostro status. A chi nelle università  studia queste tematiche viene assegnato un sintomatico nomignolo: “departement isn’t”: non si cucina un piatto appetitoso perché ci piace mangiarlo, non si va a votare perché si sposa la linea di un certo partito, non ci si fidanza perché siamo intimamente innamorati di quella persona…
E le percentuali? Mah, vogliamo fare un 50 e 50?
Per lo psicologo evolutivo, insomma, l’ uomo è dominato da una fissa: lo status. Hai voglia a incitarlo all’ umiltà! L’ insegnamento di Cristo si rivolge a gente nei cui geni è scritta una storia differente. La personalità umile è  contro-natura.
Si parla di Homo Hypocritus proprio perché lo status, oltre a essere tremendamente importante, è anche facilmente falsificabile.
Lo status è sempre relativo, dipende quindi da un confronto con gli altri, una “guerra dei tutti contro tutti” in cui si sprecano energie preziose nel pompare in modo credibile il proprio e nel demistifcare il pompaggio altrui.
In questa guerra l’ arte dell’ ipocrisia è cruciale e poiché l’ umiltà intacca proprio l’ ipocrisia, cominciamo a cogliere il legame tra “umiltà” e “verità”.
In merito a umiltà, status e ipocrisia, il prof. Robert Trivers ha elaborato una teoria ingegnosa quanto convincente. Per lui l’ arte dell’ ipocrisia è funzionale all’ implementazione di strategie vincenti dal punto di vista evolutivo.
Se riusciamo a presentarci meglio di cio’ che siamo e, nello stesso tempo, coltiviamo competenze idonee a smascherare l’ ipocrisia altrui, saremo dei vincenti.
C’ è un piccolo inconveniente: le competenze sviluppate dagli altri per smascherare la nostra ipocrisia progrediscono quanto la nostra abilità a dissimulare.
Smascherare l’ ipocrisia altrui non è poi così difficile. Chi mente manifesta segnali di nervosismo e chi riesce a dominare il nervosismo fa emergere comunque la classica freddezza artefatta del mentitore; insomma, ci sono mille segnali che ci denunciano! Inoltre, al mentitore viene richiesto un grande sforzo cognitivo: deve infatti distruggere l’ edificio della verità e rimpiazzarlo con uno fasullo! Mica paglia: la memoria è sottoposta a uno stress non indifferente, bisogna ricordarsi e incastrare le proprie bugie per non cadere in contraddizione sul lungo termine. Guai a chi non organizza in modo “scientifico” le proprie ipocrisie!
Sono problemi ardui che potrebbero orientarci verso una soluzione di “second best”: la sincerità. Ricordiamoci che in questa morra il “bugiardo” sopravanza il “sincero” ma il “bugiardo sbugiardato” perde con tutti.
Fortunatamente (o sfortunatamente), Madre Natura ha sviluppato nel nostro organismo un’ arma letale: l’ autoinganno. Ricorrendo all’ autoinganno, dominare il “nervosismo” e l’ “organizzazione” delle mezze verità diventa molto meno impegnativo. Autoingannandoci potremo sfoggiare un’ ipocrisia calma e coerente.
*** 
L’ umiltà è dunque un obiettivo molto ambizioso per almeno due motivi: 1. la presunzione è pur sempre una brutta gatta da pelare (temiamo il giudizio altrui) e 2. noi per primi crediamo di essere già umili a sufficienza (temiamo il giudizio della nostra coscienza).
Non ammetterei mai di avere preoccupazioni di status nel momento in cui scelgo una camicia, oppure se sistemo la casa dei miei sogni, né tantomeno quando si tratta di scegliere se e dove andare in vacanza. Anzi, trovo offensivo che qualcuno possa anche solo insinuare l’ esistenza di preoccupazioni tanto meschine. Oltretutto mi sento sincero quando nego un collegamento che invece è patente. Questo perché, spiega il Prof. Trivers, sia la trasparenza che l’ ipocrisia nuda e cruda sono strategie perdenti. L’ ipocrisia unita all’ autoinganno, per contro, vince su tutti i fronti!
Inutile aggiungere che, poiché la selezione naturale ci ha prescelti, la nostra strategia deve necessariamente essere quella vincente.
Il libro del prof. Trivers è ricco di aneddoti illuminanti. In uno, per esempio, le fotografie delle “cavie umane” vengono manipolate in modo da abbellire o imbruttire le persone che vi compaiono. Si è notato come gli interessati si riconoscano più velocemente nelle prime. Evidentemente – autoingannandosi - si pensano più belli di quel che sono.
In un altro viene detto a dei bambini di non spiare il giocattolo racchiuso in una scatola presente nella stanza dove verranno lasciati soli. Naturalmente la maggior parte di loro, tradendo la parola data, spia. Ma la cosa più interessante è che la probabilità di spiare cresce con l’ IQ del bambino. Poiché l’ intelligenza ci serve per rintracciare strategie vincenti, se ne deduce che la “propensione al tradimento” sia tale. L’ inganno e l’ autoinganno non fanno che rispecchiare una “propensione al tradimento”.
… l’ ipocrisia ci aiuta a rappresentare e a rappresentarci il mondo in modo distorto per affrontare al meglio la competizione con gli altri… cio’ comporta una continua inflazione delle nostre conquiste e delle nostre competenze… una svalutazione dei fallimenti e una razionalizzazione degli errori… l’ ipocrisia gioca un ruolo fondamentale in questo processo in quanto si mente molto più efficacemente agli altri se si sa mentire a se stessi… la capacità di autoingannarsi è un  caratteristica vincente selezionata dall’ evoluzione per vivere in società proprio come la pelle chiara è selezionata per vivere nelle regioni nordiche e quella scura per vivere all’ equatore…
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C’ è chi si rassegna a considerare l’ ossessione per lo status connaturata all’ uomo e cerca di consolarsi: meglio le guerre non cruente che quelle cruente. Meglio la caccia allo status veicolata dalla pubblicità che quella veicolata dalle guerre.
Ci sono dei “rassegnati” che cercano poi di metterci una pezza esortando a costruire una società ricca e variegata in cui ciascuno di noi possa trovare una nicchia in cui primeggiare e appagare le sue vanità.
C’ è invece chi non si rassegna e grida “beati gli umili”, convinto che l’ umiltà si possa conquistare indipendentemente dal cablaggio dei nostri cervelli.
La mia posizione? Trovo che, tutto sommato, l’ introspezione sia un buon antidoto all’ autoinganno. Ma, proprio perché il resoconto di RT sembra abbastanza convincente, non saprei se raccomandarlo a tutti (me compreso): un’ introspezione troppo accurata potrebbe disarmarci lasciadoci inermi.
La conclusione è dunque sorprendente: l’ umiltà è una virtù élitaria. Roba per pochi. Roba per chi riesce a compensare l’ ipocrisia con altre doti evolutive. In partenza avrei detto il contrario, l’ umiltà mi appariva più come una virtù tipica della massa.
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P.S. Umiltà e conoscenza
Una cosa comunque è certa: se l’ umiltà dichiara guerra alla “ricerca dello status”, dichiara guerra anche all’ “auotinganno” divenendo così, almeno all’ apparenza, uno strumento di verità.
Veniamo così alla cosiddetta “umiltà intellettuale”: perché desideriamo conoscere? In parte per amore della verità, in parte per coltivare il nostro status.
E le percentuali? Anche qui 50 e 50? Secondo il San Paolo della lettera ai Corinzi, quello per cui “la conoscenza inorgoglisce, l’ amore edifica”, probabilmente anche 40 e 60!
Ma l’ umiltà è poi davvero “strumento di verità”? Non ne sono del tutto convinto. Sicuramente alimenta il nostro amore per la verità, ma da qui a essere funzionale al suo conseguimento ne corre.
Purtroppo gli esempi di grandi scienziati “poco umili” sono parecchi.
Galilei non dubitò mai delle sue tesi pur avendo in mano ben poche prove oggettive.
James Watson
… nella sua biografia ammette candidamente che lui e Francis Crick, allorché scoprirono la struttura fondamentale del DNA, erano motivati da molto più che un desiderio di conoscenza scientifica… cercavano un posto nei libri di storia e il riconoscimento dei colleghi… in particolare temevano che Linus Pauling arrivasse prima alla scoperta e non esitarono a utilizzare la strumentazione ideata da Rosalind Franklin senza chiedere il suo permesso…
Spesso percepiamo la nostra immagine sfregiata dallo spettro di una correzione ricevuta da un nostro pari. Quando cio’ avviene, emerge l’ istinto di correre a buttarla in rissa pur di provare (innanzitutto a noi stessi) che siamo nel giusto e che la nostra condizione primigenia è stata ripristinata:
… per chi difetta di umiltà è particolarmente seccante essere corretto in un forum pubblico… il disturbo che se ne riceve fa passare presto in secondo piano la ricerca della verità…
Un sintomo dell’ arroganza è l’ attacco ad hominem:
… chi è intellettualmente umile considera gli argomenti indipendentemente dalle persone che li espongono… costui non sferrerà mai un attacco ad hominem, non è interessato alle persone e ai confronti tra persone… ma unicamente alle idee di cui sono portatrici...
RR si concentra poi sulle radici dell’ arroganza intellettuale:
… nella ricerca, i precoci successi rischiano di portare una certa arroganza negli scienziati affermati…
In effetti ho notato che è senz’ altro importante studiare il lavoro dei Nobel, purché ci si concentri su quello prodotto prima del ricevimento del premio. Quello successivo, spesso nemmeno esiste, e quando esiste di solito ha scarso valore.
Si osa perfino portare Einstein come esempio negativo:
… il suo biografo disse che dopo l’ elaborazione della teoria della relatività, non essendo riuscito ad accettare i fondamenti della meccanica quantistica, non riuscì mai nemmeno a dare un contributo apprezzabile in un campo tanto importante…









mercoledì 20 febbraio 2013

venerdì 15 febbraio 2013

Il problema del male

Eccolo a voi in tutta la sua impertinenza:
… vivendo in questo mondo, c’ imbattiamo di continuo in ogni sorta di male. Se ci fosse veramente un Dio quale lo descrivono i suoi devoti (un Dio buono e di infinito amore), vi pare che dovremmo fronteggiare una realtà tanto orrenda?… se ne ricava che il Dio di cui ci parlano i devoti è un essere immaginario…
Per il credente che vuole giustificare la sua fede non è un problema da poco.
Forse la cosa migliore da fare è chiedere soccorso a Peter Van Inwagen, il filosofo contemporaneo che più di altri lo ha affrontato di petto.
Secondo PVI l’ argomento del male portato dall’ ateo è “fallimentare”, ovvero, non supera un test base:
… il test consiste nell’ ottenere l’ assenso di una platea neutrale e ragionevole disposta ad ascoltare sia l’ esposizione ideale dell’ argomento da parte di un “ateo ideale”, sia la “replica ideale” da parte di un credente… se – concesso un tempo ragionevole – l’ ateo non è in grado di convincere la platea neutrale, allora il suo argomento “fallisce”…
Il dono della Libertà che Dio fa all’ Uomo, secondo PVI, giustifica la presenza del Male nel mondo. Vediamo come.
Dio concede all’ uomo la possibilità di “scatenare i demoni” più terribili. Qualora costui decida liberamente di farlo, quel che succede dopo è facilmente intuibile.
Evidentemente Dio dà un valore maggiore alla libertà rispetto al rischio del male che si puo’ produrre esercitandola. Un rischio che è poi una quasi-certezza.
Insomma, la libertà di Mao vale la vita delle persone che ha sterminato (50m). Lo stesso dicasi per Stalin (20m) o per Hitler (12m). Vi pare cosa da poco?
In questo senso Dio è un libertario, e per chi ritiene tale posizione tutt’ altro che assurda, il Dio dei credenti è un essere dal comportamento tutto sommato ragionevole.
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L’ Ateo obietta: e l’ Onnipotenza di Dio? Se Dio fosse davvero Onnipotente avrebbe comunque il controllo di quel che succede potendo limitare i danni senza conculcare le libertà.
In effetti, una tradizione filosofica illustre – Hobbes, Hume, Mill – ha professato il “compatibilismo”, ovvero il fatto che libero arbitrio e determinismo fossero compatibili.
Oggi gran parte dei filosofi scientisti è “compatibilista”, in questo modo riescono ad accordare scienza e libertà. Ma anche molti teologi, soprattutto nel medioevo, hanno professato il compatibilismo, in modo da accordare libero arbitrio e onnipotenza divina.
Il “compatibilista” sostiene che noi siamo liberi perché “facciamo quel che vogliamo”, tuttavia “non possiamo volere quel che vogliamo”, ovvero, quel che desideriamo non è determinato dalla nostra volontà ma da una forza esterna.
Chiunque comprende che se la libertà fosse davvero quella descritta dai “compatibilisti”, l’ argomento del male sarebbe vincente poiché Dio avrebbe il potere di donare all’ uomo la libertà evitando al contempo tutti i mali a cui assistiamo. Sarebbe un Dio sommamente crudele quello che si astenesse dal porre un freno pur potendolo fare.
… un creatore che volesse che io scelga X anziché Y non dovrebbe far altro che “impiantare” nella mia volontà il desiderio di X e farmi agire poi liberamente…
Al credente che intende giustificare il male, a questo punto non resta che l’ opzione libertaria, ovvero la posizione che nega il compatibilismo. Non a caso PVI è un filosofo specializzato nella difesa della posizione libertaria, ovvero nella difesa dell’ “icompatibilismo”. Tutti i suoi maggiori lavori sono su quell’ argomento.
Per fortuna del credente il “compatibilismo” non sembra una buona teoria della libertà:
… considerate gli strati sociali più umili della società immaginata in “Brave New World”, X e Y. Questa povera gente ha il cervello controllato dai dominatori Alfa. Tutto cio’ che X e Y desiderano è fare cio’ che gli Alfa chiedono loro e questo perché la loro mente è controllata dai dominatori che sono così in grado di produrre un esercito di “schiavi volontari”.  Sinceramente è difficile pensare a individui che rappresentino meglio la mancanza di libero arbitrio, eppure, secondo il compatibilista, X e Y rispondono alla descrizione dell’ uomo perfettamente libero... non ho una teoria vera e propria della libertà ma sono certo che in virtù di conseguenze controintuitive come questa la teoria compatibilista sia sbagliata…
Se la teoria compatibilista è errata, cio’ comporta almeno due conseguenze: 1. l’ argomento della libertà giustifica la presenza del male e 2. la teologia dell’ Onnipotenza divina va precisata se non rivista.
Per quanto riguarda il secondo punto, risulta evidente che Dio, donando la libertà all’ uomo, rinuncia a parte della sua proverbiale potenza.
L’ ateo, a questo punto, potrebbe insistere: anche qualora il tuo Dio sia “depotenziato”, un essere onnisciente avrebbe comunque l’ opportunità di evitare molto del male che ci affligge.
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In effetti, un essere onnisciente sa esattamente come reagirà un uomo libero in certe circostanze, e molti teologi (domenicani, gesuiti, tomisti e anche Alvin Plantinga) non intendono rinunciare alla perfetta onniscienza di Dio.
… supponiamo che se avesse tuonato nell’ esatto momento in cui Eva meditava la sua decisione sulla mela, la nostra antenata, distratta, avrebbe liberamente rinunciato a coglierla… Ebbene, a un Dio onnisciente basterebbe organizzare il contesto in modo tale da evitare la catastrofe senza ledere la libertà di scelta degli uomini…
PVI non vede davvero come un credente possa rispondere a questa obiezione mantenendo fermo l’ attributo dell’ Onniscienza divina.
Secondo lui anche onniscienza e libertà sono incompatibili.
Meglio allora rinunciare ai tremendi sforzi fatti dalla teologia per mettere d’ accordo i due concetti, dobbiamo invece trattare l’ onniscienza proprio come abbiamo trattato l’ onnipotenza:
… Dio puo’ fare tutto il fattibile ma non puo’ fare cio’ che non si puo’ fare (per esempio per ragioni logiche), allo stesso modo Dio conosce tutto il conoscibile ma in un uomo libero albergherà sempre un residuo di mistero inconoscibile in virtù della natura stessa della sua libertà…
***
E la platea agnostica? Ricordiamoci sempre che è l’ ateo a dover provare qualcosa. Riassumiamo:
… l’ ateo sfodera l’ argomento del male per convertire all’ ateismo una platea agnostica ma il credente risponde con l’ argomento della libertà… l’ ateo confuta l’ argomento della libertà postulando una teoria compatibilista, il credente sostiene che una teoria libertaria della libertà è più confacente al buon senso, tocca solo rivedere il concetto di Onnipotenza e di Onniscienza divina, una revisione che non implica però gravi inconvenienti… a questo punto sembrerebbe che il credente abbia più frecce al suo arco e che la platea di agnostici debba consegnargli la palma…
Secondo PVI l’ ateo dovrebbe concedere qualcosa all’ argomento della libertà e ripiegare su altre obiezioni, per esempio:
… ma perché il male è così sovrabbondante?… e perché esiste un male (es. terremoti) che sembra non aver nulla a che fare con la libertà umana?…
PVI non sembra impensierito dalla prima obiezione: noi possiamo immaginare una vita molto più malvagia rispetto a quella che ci è dato vivere.
Come puo’ l’ ateo dimostrare e concludere che sulla terra il male sia tanto sovrabbondante? Dovrebbe provarlo, ma la cosa sembra difficile e quindi l’ obiezione puo’ essere accantonata.
La seconda obiezione è più seria poiché l’ “argomento ristretto” della libertà non sembra in grado di giustificare i terremoti.
Per farlo occorre allora un “argomento esteso della libertà” (teoria del Peccato Originale) che PVI cerca di illustrare con la storia della creazione dell’ uomo riveduta e corretta secondo i dettami della scienza moderna:
… grazie ai processi di selezione naturale, un gruppo di primati nostri antenati formarono una ristretta comunità che arrivò a contare qualche centinaio o qualche migliaio di membri… nella pienezza dei tempi Dio intervenne miracolosamente su questa comunità donando la ragione ai suoi membri… la ragione implicò il linguaggio, il pensiero astratto e il libero arbitrio… questo dono si rivelò necessario poiché solo grazie alla libertà l’ uomo avrebbe potuto amare nel senso pieno del termine… Dio non solo donò la ragione, non solo fece di questi esseri cio’ che noi chiamiamo “uomo” ma li fece anche entrare in una sorta di unione mistica con lui… cio’ consentì ai nostri antenati di vivere insieme in armonia di perfetto amore reciproco: nessuno faceva del male all’ altro e grazie a poteri “preternaturali” erano in grado di proteggersi dalle bestie feroci, dalle malattie e da qualsiasi imprevedibile evento naturale… insomma, il loro mondo non conosceva il male… Eppure, in qualche modo che a noi resta misterioso, essi mostrarono un certo malcontento abusando della loro libertà e perdendo così questa breve condizione paradisiaca… le conseguenze furono orribili poiché la smarrita armonia li costrinse ad affrontare inermi i casuali eventi distruttivi della natura… come se non bastasse, pur mantenendo una sorta di razionalità, perdettero il pieno controllo sulle loro passioni (egoismo, invidia…), cominciando ad aggredirsi l’ uno con l’ altro con una certa frequenza… questa loro nuova natura si perpetuò attraverso i geni alle generazioni future giungendo fino a noi…
L’ “argomento esteso” formulato da PVI giustifica anche la presenza del “male naturale” in termini di abuso della libertà ma questa volta il protagonista è il nostro antenato, colpevole di aver rinunciato volontariamente a vivere in armonia con Dio.
Ma la platea di agnostici potrà mai accettare la storia raccontata da PVI?
Possiamo solo prevedere che non ci saranno obiezioni scientifiche, visto che la storia è coerente con il racconto della scienza.
Ma potrebbero esservi obiezioni filosofiche.
Esempio: di fronte alla “caduta” un Dio immensamente buono si sarebbe chinato verso l’ uomo ripristinandolo nella sua armonia.
Non mi convince: se la caduta deriva da un abuso della libertà, il ripristino puo’ avvenire solo con un esercizio genuino della libertà. Siamo proprio in uno di quei casi in cui l’ Onnipotenza divina è impotente.
PVI usa l’ analogia del malato: Giovanni è malato e puo’ guarire solo grazie a uno sforzo di volontà. Disponiamo di una medicina che allevia le pene ma, allo stesso tempo, disincentiva la volontà necessaria alla guarigione. Che fare? Somministriamo la medicina? E’ plausibile che un medico buono vi rinunci. E’ plausibile dunque che il Dio-buono esista e sia coerente con la realtà che viviamo.
Altra obiezione, altro esempio: è iniquo che il comportamento dei padri si ripercuota sulla sua progenie.
Non mi convince. Tutti i giorni noi accettiamo come equi inconvenienti del genere.
Se il padre perde in borsa, il figlio erediterà meno. Non trovo che cio’ sia particolarmente iniquo. Se il figlio eredita le predisposizioni genetiche del padre, nessuno trova niente di particolarmente iniquo in tutto cio’. Possiamo anche fare un caso estremo: se il padre commette un crimine andrà in carcere e cio’ avrà ripercussioni sui figli ma tutti noi riteniamo che la pena inflitta al padre (e quindi, indirettamente, al figlio) sia equa.
Altra obiezione, altro esempio: e la sofferenza delle bestie? Anche quello è un male e la “storiella” della creazione non sembra giustificarlo.
… scoppia casualmente un incendio nella foresta, Bambi si trova davanti un muro di fuoco e muore orribilmente. In questa morte il Male fa capolino, eppure la storiella non ci spiega perché visto che Bambi, la vittima, non ha ricevuto il dono della razionalità e quindi nemmeno ha potuto abusarne…
L’ obiezione deve essere accolta: né l’ argomento ristretto, né l’ argomento esteso hanno alcun potere giustificatorio in questo caso. La libertà dell’ uomo non spiega alcunché. PVI ripiega su altri argomenti che qui tralascio.
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C’ è poi il caso del male specifico. Davanti al dolore di una mamma che perde suo figlio investito dall’ auto pirata, cosa dire?
Nulla, la “storiella” non ci dà argomenti, l’ obiezione deve essere accolta.
Possiamo anche speculare che quel male rientra in un ordine comprensibile ma non potremmo mai fornire una giustificazione specifica sul “perché è toccato proprio a te”. Abbiamo (liberamente) turbato l’ “armonia” e ora il male naturale colpisce a casaccio.
***
Il libro di PIV è scaricabile qui al costo di 15 euro.

Riassumendo:

  • il credente afferma che il male esiste come conseguenza del dono della libertà (Dio rinuncia alla sua onnipotenza)
  • l'ateo obbietta: ma Dio non poteva rimanere padrone delle cose senza rinunciare al dono della libertà? Ci sono le teorie compatibiliste che consentono di farlo.
  • credente: le teorie compatibiliste sono insoddisfacenti. L'unica teoria soddisfacente è quella libertaria (in cui Dio rinuncia alla sua onniscienza)
  • obiezione atea: ma c'è troppo male nel mondo!
  • credente: come fai a dirlo? è possibile credere che non sia affatto così.
  • ateo: c'è molto male che non sembra affatto derivare dalla nostra volontà, per esempio i terremoti.
  • credente: il corso dei nostri atti ha conseguenze imprevedibili. IMHO: se Dio non interviene per deviare tale corso è anche per non interferire con le leggi di natura consentendo così che si realizzi appieno nell'uomo un altro dono: quello della ragione e della conoscenza. D'altronde in casi estremi Dio interviene, come nel caso dei miracoli.
  • credente: gli eventi malvagi che non dipendono in alcun modo dalla libertà umana sono da interpretare come banco di prova ad hoc per saggiare al meglio le nostre qualità
  • obiezione dell'ateo: ma un dio misericordioso salva.
  • risposta: la libertà è troppo importante
  • obiezione: che risposta dare alla mamma che perde un figlio e dice perché a me?
  • credente: nessuna. Possiamo avere una teoria generale del male non una teoria specifica.




martedì 5 febbraio 2013

Il liberismo yankee come patrimonio dell’ umanità

[attenzione: post con link!]
Il cuore tenero dei “sinceri democratici” di tutto il mondo avanzato è in tumulto, una preoccupazione non da poco lo tormenta: l’ asperrima diseguaglianza sociale che regna nella superpotenza americana.
Il fenomeno diventa di giorno in giorno più sgradevole e la risonanza internazionale di un movimento come Occupy Wall Street sta lì a testimoniarlo.
LIBERISMO
Certo che a ben vedere si tratta di un allarmismo non sempre facile da spiegare: la povertà negli USA è meno diffusa e meno severa rispetto a quella che riscontriamo in molti altri paesi del mondo. Le diseguaglianze sono certamente elevate per un paese ricco ma non possono essere definite “estreme” se si prende a riferimento lo standard internazionale.
Sfortunatamente, le  preoccupazioni “progressiste” promuovono poi politiche che, pur volte in buona fede (?) a ridurre la povertà in USA, rischiano di aumentarla nel resto del mondo.
Il fenomeno per cui ridurre il numero dei poveri incrementerebbe la povertà globale getta il neofita nello sconcerto pur essendo noto da tempo agli studiosi. Vediamo allora meglio il meccanismo sottostante che favorisce un effetto tanto perverso.
Gli USA sono sempre stati uno dei paesi più innovativi del pianeta, da sempre esportano tecnologia ovunque. Cio’ è dovuto, almeno in parte, alla cultura della competizione sfrenata e al sistema economico liberista che regna laggiù. Il welfare striminzito consente una bassa tassazione e la bassa tassazione assicura che i benefici per chi lavoro sodo, prende rischi e intraprende, siano maggiori che altrove. La deregolamentazione dell’ economia, inoltre, garantisce l’ assenza di rendite di posizione per chi si afferma. Insomma, non è consentito riposarsi sugli allori; qualsiasi persona di talento puo’, se è in grado di farlo, partire con la sua impresa e ribaltare lo status quo.
Ora, non voglio dare giudizi su quale sia la politica migliore, ognuno faccia come crede, voglio solo formulare ipotesi che trovo sensate, per esempio questa: puo’ darsi che addolcire le spigolosità di una società competitiva migliori il benessere di un certo numero di americani ma rende senz’ altro più costoso sperimentare in vari campi vari: dalla scienza al business, dalle arti alla robotica…
La sperimentazione e le innovazioni che ne conseguono generano enormi e durature “esternalità positive” poiché possono poi essere copiate ovunque a basso costo e arricchire così la vita di molti uomini sparsi sull’ intero pianeta. Ci sono e ci saranno sempre tentativi di contenere l’ effetto positivo delle innovazioni in modo da compensare più adeguatamente l’ innovatore, ma si tratta di tentativi falliti e destinati perlopiù a fallire anche in futuro: non esiste un diritto o una tecnologia per trattenere e rivendere la gran parte della ricchezza e delle opportunità prodotte. Cio’ significa che da sempre l’ innovatore è anche benefattore netto per l’ umanità.
LIBERISS
Tanto per tenere alta l’ attenzione, veniamo alla cronaca spicciola. In questo periodo si parla molto di crescita e in Italia non manca mai chi nei dibattiti alla TV si riempie la bocca con espressioni del tipo “bisogna far ripartire i consumi”, oppure “ci vuole una politica industriale adeguata”. Ma lo vogliamo capire o no che la “crescita” dipende solo dal grado di innovazione? O, in alternativa, dall’ imitazione parassitaria dell’ innovazione altrui. Proprio Domenica lo spiegavano bene sul Corriere due economisti:
… nel dopoguerra la politica industriale governativa fu un elemento sostanziale della nostra rinascita economica, tanto è vero che l’ IRI fu presa ad esempio da altri paesi come il Giappone che creò il MITI (ministero del commercio e dell’ industria)… ma si trattava di tempi molto diversi. Italia e Giappone erano all’ inizio della loro esperienza industriale, non era necessario inventare cose nuove, bastava importare tecnologia dagli Stati Uniti e riprodurla, possibilmente facendo meglio di chi l’ aveva inventata. Fu così per l’ acciaio: l’ impianto siderurgico di Taranto fu copiato dalle acciaierie texane di Houston e suscitò l’ ammirazione degli americani stessi… oggi crescere per imitazione non è più possibile perché siamo troppo vicini alla “frontiera tecnologica”… oggi si cresce innovando e non imitando, in questo contesto la mitica “politica industriale” serve a poco… come puo’ un funzionario di stato capire quali settori avranno successo? Vi immaginate quattro alti papaveri dell’ IRI che in un garage s’ inventano Apple? O un azzimato impiegato del Ministero che chiede udienza al suo capo per illustrargli il “progetto facebook”?…
La competizione all’ ultimo sangue e il liberismo selvaggio danneggeranno giusto qualche americano (200.000? 300.000?) ma le ricadute positive beneficiano più o meno direttamente milioni di persone in tutto il mondo, anche perché i benefici di un’ innovazione non si esauriscono alla produzione ma si accumulano riversandosi generosamente sulle generazioni future.
Purtroppo, una sempre maggiore fetta della spesa governativa americana viene oggi destinata alla redistribuzione verso i bisognosi, alla sanità, alla protezione sociale, alle pensioni, eccetera. L’ ingrigito Obama è  la classica figura impiegatizia che incarna bene il crescente trend verso la spesa parassitaria. Questa spesa non investe sul futuro e non genera benefici a cui possa poi accedere il mondo intero. Si limita a premiare una ristretta cerchia di americani, e poiché si tratta di benefici che devono essere finanziati dalle tasse di altri americani, tutto cio’ si traduce in disincentivi al lavoro, all’ investimento e all’ innovazione.
E quando saremo tutti “parassiti” che succederà? A chi succhieremo il sangue? Da chi ci faremo “trainare”? La decrescita felice sarà a quel punto una necessità più che una scelta.
Morale, chiunque fosse interessato a combattere le diseguaglianze globali senza pensare che un manipolo di americani debba essere posto su un piano superiore rispetto a milioni di persone che hanno il solo torto di vivere fuori da quei confini, dovrebbe riflettere prima di augurarsi che gli USA s’ incamminino sul serio verso un modello di stampo europeo. Un’ economia di tipo “estrattivo” porterebbe con sé quella sclerotizzazione in cui il vecchio continente è incagliato da anni. Se cio’ accadesse, forse non sarebbe lecito parlare di “catastrofe americana” - su questo punto, sia chiaro, sospendo il giudizio - di sicuro sarebbe una catastrofe di portata globale.
Qualche anno fa si parlava di “locomotiva americana”, mi chiedo dove possa mai arrivare un treno (un mondo) fatto solo di vagoni. In questo senso gli “spietati conservatori” del Tea Party sono molto più compassionevoli degli illuminati progressisti di Occupy Wall Street. E sempre guardando le cose da quest’ ottica, spero che l’ UNESCO si decida quanto prima a dichiarare il laissez-faire-cut-throat a stelle e strisce Patrimonio dell’ Umanità intera.
LIBERISSSS
P.S. Una trattazione scientifica di questi temi si trova qui.

Film visto ieri: Gli aristogatti

In amore la “mobilità sociale” fa sempre effetto. Qui Romeo, gattaccio dei bassifondi, conquista Duchessa, micetta altolocata…
La cosa più riuscita del film: la lezione di musica in salotto.
La cosa meno riuscita: l’ impiego dei dialetti per segnalare l’ estrazione popolare.
E poi, dài, non si puo’ avere il protagonista maschile con una voce da basso/baritono. Stride ogni volta che apre bocca! La parte del “bello & coraggioso” si assegna al tenore, è risaputo. Nel paese dell’ Opera certe sviste saltano all’ occhio.
Non sono un particolare cultore di “inseguimenti” ma quelli che ingaggiano Edgard-Napoleone-Lafayette valgono quelli di Tom & Jerry, così come il parossismo e l’ inventiva delle loro risse non sfigura nemmeno di fronte a quelle di Braccio di Ferro.
A proposito di Edgard… che strano, di punto in bianco e senza alcuna premonizione diventa “il cattivo” della storia. Di sicuro è più simpatico lui della stucchevole vecchia. Forse – proprio come gli spettatori più tradizionalisti (penso a mia mamma) - ha ricevuto unO choc nell’ apprendere che, dopo un’ onorata esistenza “a servizio”, era stato diseredato… in favore dei gatti!
Aristogatti

“Non proprio quel che avevano in testa”

E’ un saggio del prof. Arnold Kling sulla burrasca finanziaria del 2007/2008.
Signori, parliamoci chiaramente, abbiamo avuto la fortuna/sfortuna di vivere uno degli eventi più significativi della storia economica di tutti i tempi!
Bene, lecchiamoci pure le ferite ma, per favore, cerchiamo anche di imparare qualcosina. L’ occasione è d’ oro!
Citando non so bene chi mi tocca dire che chi non impara dal passato è condannato a ripeterne gli errori.
Questo libro puo’ allora aiutarci, l’ Autore sembra avere le carte in regola. Più di Beppe Grillo, almeno.
Innanzitutto ci racconta le cose dal di dentro: ha lavorato a lungo nel mercato dei mutui americani, è stato “senior economist” in Fannie Mae e Freddie Mac, nonché autorevole consulente del Board of Governors del Federal Reserve System. Inoltre dimostra discreta onestà intellettuale, lo si nota anche dal solo fatto di proporre le sue ragioni “a integrazione” (e non in “sostituzione”) della vulgata.
***
Ma di cosa parliamo quando parliamo di crisi finanziaria?
Un libro del genere lo dà per scontato ma forse per noi è meglio partire da zero.
Dedico un paio di capoversi alla faccenda.
Nel corso degli ultimi decenni i cosiddetti “derivati” americani hanno “colonizzato” i bilanci di tutte le banche al di là e al di qua dell’ Oceano. Sigle esotiche spuntavano tutti i giorni sui nostri giornali (CDO, CDS, SIV…), ma cosa cavolo è un “derivato”? Semplice, è un titolo di credito che si appoggia in qualche modo a un mutuo ipotecario o a una combinazione di mutui. Poi, naturalmente, ci sono anche i derivati dei derivati, le assicurazioni sui derivati, i derivati sulle assicurazioni di derivati, eccetera eccetera. Andando al sodo, il castello di carte puo’ essere costruito nei modi più ingegnosi dosando con il bilancino i rischi incorporati, purché si sappia che alla base ci sta sempre un prestito immobiliare; il debitore ultimo, insomma, è chi compra casa: tu, banca, stipuli un mutuo con ipoteca sull’ immobile e, dopo averlo opportunamente ricombinato con altri prodotti finanziari, rivendi il tuo credito a terzi, i quali lo riconfezionano e lo rivendono a loro volta. E così via.
All’ epoca in cui si sgonfiò la bolla immobiliare statunitense, i valori delle case andarono a picco rispetto all’ entità nominale dei mutui stipulati. Una riduzione tanto drastica delle garanzie, accompagnata dalle prime insolvenze, trasformò i derivati in “titoli tossici”. Valutarli nei bilanci all’ infimo valore di mercato (principio contabile market-to-market) significava una sola cosa per tutte le banche che li avevano “in pancia”: portare i libri in Tribunale.
Un terremoto del genere ha fatto vacillare molti edifici, le costruzioni finanziarie più fragili sono andate al tappeto. E non è affatto detto che le “costruzioni finanziarie più fragili” fossero in prossimità dell’ epicentro: una moneta come l’ Euro, pur apparentemente distante dai “misfatti”, era costruita talmente male da aver barcollato paurosamente per mesi.
Ah, dimenticavo: la recessione dell’ economia e la disoccupazione sono la simpatica codina di tutte le crisi finanziarie di un certo peso. Si tratta di fenomeni che si prolungano, specie se i sistemi economici contagiati sono rigidi e faticano a cambiare.
Alt, mi fermo qui. Anche perché non è mia intenzione occuparmi di ciò che sta “a valle”, bensì di cio’ che sta “a monte”, e con lo scheletrico resoconto appena fornito, spero di aver chiarito cosa intendo quando dico “cio’ che sta a monte”.
Poniamoci allora una semplice domanda: perché una crisi tanto devastante e con radici ormai rintracciate con dovizia di particolari, a oltre quattro anni di distanza non ha ancora trovato cure adeguate? Certo, si cerca di attutirne gli effetti nefasti, ma sulle cause?
Sicuramente il Beppe Grillo che è in noi avrà già capito tutto e squadernerà la soluzione: siamo in presenza di un mercato selvaggio, di mancanza di regole, di far west finanziario e di spiriti animali scatenati: mettiamo le regole che mancano, facciamole rispettare in modo spietato e tutto si aggiusta. C’ è un buco nella rete del pollaio e le galline sono scappate? Rappezziamo il buco e non scapperanno più. Ma cosa lo impedisce, Beppe? Ovvio, la famelica lobby dei banchieri. Basta che i “buoni” sconfiggano i “cattivi” e il gioco è fatto!
D’ altronde, chiedetevi solo cosa deve pensare il profano che sente o legge il giornalista-unico mentre parla o scrive di “derivati”. Semplice, aboliamo i “derivati”, mettiamo in galera chi li ha inventati e tutto si risolve. Come se la “bolla di internet” si possa combattere “abolendo” internet o mettendo in galera “chi l’ ha inventata”.
[… nota bene: “Beppe Grillo” è solo un luogo della mente, la metafora del grande semplificatore, di colui che titilla la nostra pigrizia con soluzioni portatili. Avrei potuto fare altri nomi. Ricordo bene un Report sulla crisi dei mutui americani, una sequela di strazianti interviste a “neri sotto un ponte” – per lo più precari che avevano tentato l’ acquisto… del villone da 800 mila dollari –; con la solita formula televisiva “20%-informazione-80%-suggestione” si intendeva presentare come “buono” il debitore insolvente e come “cattivo” il creditore che l’ aveva preso in quel posto. ma perché meravigliarsi? Quando l’ educazione sentimentale della platea catodica italiota è affidata da anni alla coppia Santoro/Floris, anche una messa in scena del genere diventa plausibile… Chiudo la parentesi verde con un’ ammissione: sì, lo so bene, anche la presente condanna sommaria di certo giornalismo ha un sapore beppegrillesco; quindi, mi ricompongo e cerco di proseguire con un certo aplomb…] 
Ecco, se Beppe Grillo vi basta, potete anche scendere qui (laggiù c’ è la piazza dove urlare i vostri slogan). In caso contrario, potreste sentire cosa ha da dire in merito il prof. Kling.
Cominciamo allora con una dichiarazione di principio:
… il problema della regolamentazione finanziaria non assomiglia a un problema matematico, di quelli che quando trovi la soluzione poi giace lì “risolto” per sempre… è invece come un gioco tra regolatore e regolato, un gioco in cui il secondo si adatta ai vincoli messi dal primo, il quale è chiamato di volta in volta a rettificarli quando non a capovolgerli… ogni regime regolatorio si ritrova immediatamente sotto assalto e spesso l’ efficacia delle regole degrada fino a sparire… cio’ che oggi ci appare medicina, sarà il veleno che ci intossicherà domani… E’ relativamente facile modulare regole che impediscano il ripetersi di una crisi identica a quella passata, ma è altrettanto facile prevedere che la crisi futura sarà completamente diversa da quella passata e che regole buone per la prima non faranno che esacerbare la seconda…
C’ è inoltre un chiaro problema di “time inconsistency”:
… prima della crisi il regolatore cerca di convincere il sistema che nessun soggetto a rischio verrà salvato e che si lascerà fare alla disciplina di mercato… tuttavia, in tempi di crisi, il regolatore è soggetto a pressioni politiche che lo spingono puntualmente al “salvataggio”… poiché lo schemino si ripete nella storia, la lezione viene presto appresa dai protagonisti e si crea un problema di azzardo morale che sfuma i confini tra responsabilità private e responsabilità governative…
***
Ma andiamo con ordine, passiamo in rassegna cio’ che maggiormente ha pesato sugli eventi che ci interessano.
Innanzitutto, non si puo’ negarlo, ci sono state una serie di “cattive decisioni” prese dagli operatori (bad bets):
… una cattiva decisione è una decisione di cui a posteriori ci dispiaciamo… se una serie di investimenti speculativi hanno gonfiato la bolla immobiliare… si trattava evidentemente di decisioni sbagliate… se un investitore decide di detenere titoli garantiti da mutui stipulati a carico di soggetti insolventi, compie “una cattiva decisione”… se un soggetto come AIG si specializza nell’ assicurare le perdite di valore dei titoli summenzionati, compie “una cattiva decisione”…
Ha contato poi anche l’ eccessiva “leva finanziaria” degli operatori:
… le banche e gli altri intermediari finanziari hanno preso rischi eccessivi senza avere una commisurata riserva di capitale… a posteriori molti di questi soggetti si sono rivelati colossi dai piedi d’ argilla non riuscendo a far fronte al crollo dei prezzi delle case su cui vantavano le loro ipoteche…
Non dimentichiamo la costante minaccia del cosiddetto “effetto domino”:
… la stretta interconnessione tra gli operatori ha reso difficile isolare e bonificare le aree di crisi… a poche ore di distanza da quando Lehman Brothers ha dichiarato fallimento, hanno cominciato a vacillare le quotazioni di soggetti fino a ieri insospettabili…
Non si capisce mai bene se faccia più guai l’ “effetto domino” o la consapevolezza che esista qualcosa del genere:
… i reali danni dell’ “effetto domino” ci sono sconosciuti poiché la politica si perita di intervenire puntualmente per tamponarlo puntellando le strutture che vacillano… d’ altronde questa linea d’ azione è nota in anticipo agli operatori stessi i quali, in molti casi, sanno benissimo di essere “too big to fail” (TBTF) perdendo, di fatto, ogni incentivo di mercato a comportarsi con prudenza…
In questi casi, va da sé, paga il contribuente (bail out).
L’ ultimo fattore da considerare è la legge fallimentare:
… si crea una pericolosa tensione finanziaria in quelle situazioni in cui chi si libera prima di titoli pericolosi ha un concreto vantaggio su chi è meno pronto nel farlo… se solo le leggi fallimentari potessero applicarsi velocemente stabilendo con chiarezza la priorità dei vari crediti, si eviterebbero mesi di incertezze legali e di stallo dei fondi…
E’ importante tenere a mente che la crisi richiede la compresenza di tutt’ e quattro i fattori elencati: senza “bad bets”, niente crisi. Ma anche le eccessive esposizioni sono state cruciali, così come il potenziale effetto domino o l’ impotenza nel pianificare con precisione sufficiente i fallimenti bancari.
***
Quanto detto finora è, almeno in parte, compatibile con la narrativa convenzionale della crisi finanziaria: lavorare stanca (e rende poco), cosicché si preferisce provare con il casinò della finanza, qui pullulano le decisioni avventate (bad bets) prese da soggetti avidi (un tocco moralistico non guasta) che si sono esposti eccessivamente al rischio (leva finanziaria). Ora paghiamo noi per loro errori pur di esorcizzare la catastrofe (effetto domino) che non riusciremmo a schivare altrimenti (mancanza di un’ adeguata legge fallimentare).
Ma Kling ritiene monco questo racconto e, nonostante molte delle sue premesse siano compatibili con la narrazione tradizionale, imbocca presto una strada ben diversa. Cominciamo ad averne sentore quando introduce la distinzione tra mancanza di fiducia” e “decisioni errate”. 
Gli osservatori, e anche i politici, tendono a dare eccessiva importanza alla “perdita di fiducia” che si viene a creare. Leggete il giornale, guardate la TV, non si fa altro che parlare di “perdita di fiducia” e di “fiducia da ripristinare”. La “fiducia” diventa il bene supremo, la razionalità passa in secondo piano:
… le risposte del regolatore si focalizzano sulla “mancanza di fiducia” piuttosto che sulle “cattive decisioni”… tutti gli sforzi dei soccorritori sono tesi a ripristinare la fiducia andata perduta… si fa ben poco per incentivare decisioni più oculate, un aspetto che tende a scivolare in secondo piano… In questo senso la politica riflette i sentimenti dei protagonisti… le banche e le istituzioni finanziarie in genere si sentono sempre vittime di una “scarsa fiducia”… ma chiunque si ritrovi sul lastrico nutre un (ri)sentimento del genere: “se solo mi dessero ancora una chance!”… chiedete al CEO di un’ impresa fallita cosa ha causato il tracollo, si parlerà a lungo di quel maledetto funzionario di banca che non ha più rinnovato il fido, molto meno delle passate “bad bets”… ma se la mancanza di fiducia fosse davvero l’ elemento decisivo, allora qualche altra azienda troverebbe lucroso subentrare nella proprietà di banche solo temporaneamente a malpartito…
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Comincia qui una disanima storica della regolamentazione americana. Prendiamo, a titolo di esempio, un passaggio relativo ai mutui ipotecari:
… i tentativi di disciplinare questo mercato risalgono agli anni trenta, durante la Grande Depressione… vennero introdotti i mutui ipotecari trentennali a tasso fisso… prima i mutui ipotecari si articolavano in prestiti quinquennali con facoltà di rinnovo, e erano quindi accessibili solo ai debitori più solidi… si ritenevano che la soluzione “deregolamentata” strozzasse eccessivamente l’ economia limitandosi a servire una clientela elitaria… contestualmente si pose un tetto ai tassi d’ interesse praticabili e, contestualmente, i depositi bancari ricevettero una garanzia governativa con l’ effetto evidente di depotenziare l’ incentivo a curare il portafoglio rischi delle istituzioni finanziarie… la crisi  che ne seguì fu essenzialmente indotta dalle misure messe in campo per “tamponare” la crisi precedente… per fare un esempio, l’ alta inflazione rese assurdo porre un tetto ai tassi e proprio per aggirare questa regola obsoleta che prese piede il cosiddetto processo di “disintermediazione”… nacquero una serie di soggetti spericolati (“sistema bancario ombra”), spesso controllati dalle banche stesse, ma che operavano al di fuori dal circuito tradizionale …
Veniamo ora a vicende relativamente più recenti: cosa successe dopo il fallimento di “Save & Loan”?:
… dopo la crisi S&L il regolatore si convinse che i mutui ipotecari  “cartolarizzati” fossero qualitativamente superiori ai mutui ipotecari ordinari… si riteneva che l’ accesso ai mercati finanziari potesse sottoporre i mutui al vaglio di soggetti quali i fondi pensioni e altri investitori istituzionalizzati in grado di saggiare al meglio la qualità del rischio incorporato… inoltre era emerse con chiarezza l’ inaffidabilità dei “valori di libro” nella contabilizzazione del conto titoli, cosicché si pensò bene di passare al principio market-to-market… da ultimo si imparò una lezione che all’ epoca sembrò fondamentale: l’ entità delle riserve doveva essere commisurata alla qualità dei rischi incorporati nell’ attivo, bisognava trovare solo il modo di “misurarlo oggettivamente” attraverso modelli matematici… Oggi sappiamo che i mutui cartolarizzati divennero i “titoli tossici” che ben conosciamo e che i criteri market-to-market assieme alle regole del capitale di rischio “misurato oggettivamente” hanno contribuito in modo decisivo a esacerbare la crisi innescando l’ effetto domino… anche in questo caso la storia ci suggerisce che la risposta del regolatore a una crisi passata è spesso il primo passo verso la crisi successiva…
La politica USA sulla casa consisteva nell’ incoraggiare più persone possibile a divenire proprietarie. L’ impeto con cui i soggetti a basso reddito furono indirizzati verso i mutui ipotecari non ha eguali, le forme di sussidio sono sempre state numerose. In tutto cio’ un ruolo importante fu giocato dalla lobby dell’ edilizia:
… le politiche che spinsero verso i mutui immobiliari furono molte: innanzitutto la deducibilità degli interessi in dichiarazione dei redditi… poi una fiscalità privilegiata sui  capital gain relativo alla vendita della prima casa… inoltre una serie di garanzie federali per taluni mutui ipotecari…
Andrebbe sempre ricordato che la cartolarizzazione dei mutui fu dapprima un fenomeno governativo:
… nel 1968 il governo federale creò la Government National Mortgage Association come veicolo per piazzare mutui cartolarizzati garantiti con fondi pubblici e soggetti a regole di favore… in seguito programmi del genere, insieme a tutti i privilegi che si portavano dietro, vennero realizzati attraverso enti di fatto “parastatali” quali Fannie Mae e Freddie Mac… non è un caso se l’ epicentro della crisi furono proprio queste due istituzioni…
***
Ma gli effetti più perversi sono legati soprattutto alla regolamentazione del capitale bancario:
… l’ accordo di Basilea (la madre di tutte le regolamentazioni finanziarie internazionali) spinsero il sistema verso l’ uso delle cartolarizzazioni e l’ impiego dei “derivati”, inoltre misero al centro l’ opera delle agenzie di rating… i titoli che incorporavano i mutui stipulati da Freddie Mae e Freddie Mac ricevettero “per legge” un privilegio su tutti gli altri in termini di peso del rischio, cio’ scatenò nei tardi anni novanta la corsa delle banche a detenere derivati su quei prodotti in modo tale da potersi permettere poi leve finanziarie più favorevoli… insomma, un derivato dei mutui FMFM tra le attività, migliorava la qualità dei bilanci rispetto a un mutuo stipulato in proprio… successivamente, il trattamento di altri soggetti fu parificato a quello di FMFM, questa evoluzione fece perdere quote di mercato all’ ente parastatale che pensò bene di reagire abbassando gli standard qualitativi per l’ accesso ai mutui scatenando una “race to the bottom” che coinvolse l’ intero settore…  
A Basilea ci si complimentava di aver finalmente messo in sicurezza i mercati finanziari…
… cio’ che emerse negli anni, invece, fu un sistema finanziario complesso quanto vulnerabile che si appoggiava completamente su mutui ipotecari a lungo termine e quindi, in ultima analisi, sul mercato immobiliare americano…
AK offre inoltre parecchie testimonianze di come il regolatore fosse “consapevole & contento” del fenomeno venutosi a creare: mutui per tutti!… e al centro del sistema soggetti con un filo diretto col governo. Anche l’ emergere si un “sistema bancario ombra” non sfuggì ai regolatori, i quali se ne mostrarono compiaciuti; le parole del Fondo Monetario Internazionale erano di questo tenore:
… la cartolarizzazione dei mutui e la loro incorporazione nei derivati consentono di disperdere meglio il rischio sul mercato rafforzandone la solidità e gli equilibri…
Come puo’ il profano sintetizzare in modo icastico tutto cio’? Potrebbe provarci pensando alla cronaca recente in questi termini: leggendo i giornali sul caso MPS, capiamo molto bene che c’ è una caccia al “colpevole”, ovvero del soggetto che ha imbottito di “derivati” la banca senese. Leggendo Kling, invece, capiamo molto bene che solo qualche anno prima il “colpevole” non sarebbe stato altro che un “benemerito” il cui contributo consentiva di mettere in sicurezza gli attivi della banca secondo le indicazioni dei più autorevoli regolatori internazionali.
Concludo questa sezione spendendo ancora due parole sulle agenzie di rating, ne vale la pena:
… quando il lavoro delle agenzie è al servizio del regolatore piuttosto che dell’ investitore, ecco che vengono a mancare i giusti incentivi di mercato per conservare una qualità accettabile… la reputazione di questi soggetti, fissata una volta per tutto dall’ ufficialità della Legge, cessò di essere coltivata quale asset principale dell’ intrapresa… come se non bastasse, le agenzie lasciavano volentieri trapelare l’ approssimazione del lavoro svolto sui conti delle banche, cio’ garantiva, dopo il nuovo ruolo assunto, di non disperdere del tutto il business degli investitori poiché questi ultimi avrebbero senz’ altro chiesto rating più accurati pagandoli come ai bei tempi…
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Si passa poi alla regolamentazione concorrenziale del settore bancario americano. L’ abolita separazione tra banche commerciali e banche d’ investimento (abolizione del Glass-Steagall Act) è stata vista da molti come deleteria:
… dopo l’ abolizione del GSA il sistema bancario divenne in effetti sempre più tentacolare e complesso ma non fece che evolvere su tendenze già consolidate… anzi, gran parte delle innovazioni finanziarie protagoniste di questo processo furono congegnate proprio per aggirare un divieto che, in ultima analisi, rendeva di fatto ancora più opaco il panorama… Ricordiamoci che il GSA non era altro che una “barriera all’ entrata”… è del tutto naturale (e salutare!) che un mercato protetto destinato a creare extra profitti sia costantemente assediato dall’ “innovazione tecnologica”… difficilmente una “barriera all’ entrata” promuove solidità e trasparenza, molto più facile che realizzi rendite passive… la domanda fondamentale è allora la seguente: l’ inefficienza di un “mercato protetto” è un prezzo congruo per la sicurezza marginale che eventualmente potrebbe garantirci?…
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Ci sarebbe molto da dire sull’ innovazione finanziaria degli ultimi 40 anni, la gran parte di esse sono buone. Pochi di noi vorrebbero vedere una parte della popolazione completamente esclusa dall’ accesso al credito. Pochi di noi vorrebbero tornare all’ epoca degli usurai. Purtroppo, pochi di noi si rendono conto che se certe epoche non torneranno lo dobbiamo alle nuove “tecnologie finanziarie”. Una campeggia su tutte: il “credit scoring”:
… il “credit scoring”, affidandosi alla statistica e agli automatismi, rimpiazzò in molti casi la relazione personale tra prestatore e prenditore, risparmiandoci così centinaia di dollari in commissioni… inoltre, anche il soggetto più “problematico” trova un suo posticino tra i clienti della banca a tassi adeguati… cio’ detto, difficilmente si puo’ negare che il “credit scoring” sia al centro delle turbolenze di cui ci occupiamo… durante il boom del mercato delle case ci fu chi attribuì meriti al “credit scoring”… evidentemente l’ ottimismo su questo strumento era malriposto… se le banche lo impiegarono massicciamente c’ è un motivo ben preciso, e cioè che fu soprattutto il regolatore a rimanere stregato dal suo fascino pretendendo che il rischio di portafoglio dei “regolati” fosse “pesato” secondo parametri prefissati… nessuno a quel punto potè più esimersi dall’ adottarlo… anche le banche “resistenti” venivano così “modernizzate” a suon di “regole”…
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Con il senno di poi si puo’ anche dire che la politica monetaria espansiva del periodo 2001-2003 preparò il terreno per la bolla immobiliare successiva:
… c’ è chi vide la politica monetaria americana di quel periodo come a uno strumento volto a traslare la “bolla internet” in una “bolla immobiliare”… tassi d’ interesse troppo bassi mantenuti artificiosamente troppo a lungo spingono verso decisioni d’ investimento non ortodosse…
Devo dire che Kling propone questa ipotesi solo come contorno. Anch’ io, nel mio piccolo, trovo più convincente chi sostiene la presenza di un errore contrario: la FED non è stata abbastanza “prodiga” di liquidità nel 2007-2008, quando un terremoto scuoteva alle fondamenta il mondo finanziario.
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Che insegnamento trarre da tutto quanto precede? Essenzialmente uno: ci vuole più umiltà.
Forse, in assenza di un indirizzo governativo e di distorsioni nella regolazione del capitale di rischio delle banche, il mercato avrebbe scelto soluzioni diverse per organizzare il mondo dei mutui ipotecari. Chi lo sa?
Se il problema è l’ ignoranza, allora sappiamo almeno due cose: la presunzione la fa degenerare e l’ umiltà la cura.
Se il problema è l’ ignoranza, le buone intenzioni non ci salvano, ci salvano solo l’ umiltà e la prudenza.
Se il problema è l’ ignoranza, tu puoi fare mille progetti ma devi sapere fin da subito che nel mondo della finanza si vive di feedback, non di “progetti”; devi sapere in anticipo che non si realizzerà mai “quello che hai in mente” (capito adesso da dove viene il titolo?). Questo non sembra essere molto chiaro né ai “regolati”, né ai “regolatori” disinvolti.
Più umiltà, caro Beppe Grillo! Qui non ci sono (solo) “buchi” da rappezzare, non ci sono (solo) furbetti da rieducare. Buco e furbetti sono una parte irrilevante della vicenda. Ci sono invece tanti ignoranti, e sono schierati su tutti i fronti, stanno sia tra i “regolatori” che tra i “regolati”.
Più umiltà cara Gabbanelli! Mettendo alla berlina l’ avidità dei banchieri si suscitano tante emozioni ma qui l’ avidità non c’ entra molto. Intervistare qualche disgraziato con la casa pignorata ci fa sentire più buoni e alza lo share ma spiega ben poco della crisi, i “mutui predatori” sono una componente irrilevante di essa. Il metodo di “narrare storie” funziona in TV ma inganna chi vuol capire come gira il mondo.
CRISI
All’ insegna dell’ umiltà sono quindi anche le soluzioni proposte dal prof. Kling. Il principio guida è semplice “not hard to break but easy to fix”.
1. Invertire gli incentivi fiscali: oggi è più conveniente indebitarsi che ricapitalizzarsi. Gli interessi sono deducibili, i dividendi no.
2. Decentralizzare la fonte delle regole. Il “casino” in certi casi è salutare, fa sorgere soggetti diversi con rischi non correlati, e quindi anche meno esposti all’ “effetto domino”.
3. Laddove è necessario, ricorrere pure allo “spezzatino” delle banche più grandi. E’ l’ unico modo per prevenire il TBTF e ripristinare la disciplina di mercato.
4. Limitare il ricorso allo strumento del mutuo ipotecario intervenendo sulla deducibilità degli interessi in dichiarazione dei redditi.
5. “Subordinated debt”. L’ idea: richiedere alle banche di emettere con regolarità obbligazioni non garantite. Cio’ le sottoporrebbe sempre al giudizio degli investitori, in questo modo verrebbe costantemente segnalata la percezione del rischio che hanno soggetti informati. Ma soprattutto ri-orienterebbe il lavoro delle agenzie di rating verso gli investitori.
6. rendere più flessibili i principi contabili in modo da stabilire le fattispecie in cui sia possibile passare dal “m2m” al “book value” nella valutazione del conto titoli. Non so se chi vive con il mito del “falso in bilancio” riesce a realizzare che l’ ottanta per cento delle valutazioni di bilancio sono soggettive.
7. riformare la legge fallimentare senza escludere forme di  nazionalizzazione delle banche in modo da far davvero piazza pulita delle cattive gestioni.
Un punto ce lo aggiungo io (Kling non sarebbe d’ accordo):
8. “NGDP targeting” per la banca centrale. Tradotto: la banca centrale deve mirare alla costante la crescita del PIL nominale. Ritradotto: più generosità della Banca centrale in tempi di “trappola della liquidità”. L’ inflazione (anche solo annunciata) garantisce tassi negativi e diminuzione dei salari, altrimenti troppo rigidi.
E l’ etica? Mettiamocela pure, inseriamo pure un nono punto. Ma evitiamo anche qui quell’ ambizione che puzza tanto di superbia. Evitiamo allora sia il sacro fuoco del savonaroleggiante Beppegrillo che i pietismi francescanoidi della Gabanelli. Ci basti un semplice “non rubare” (rispetto della proprietà altrui) e un semplice “non dire le bugie” (si ottemperi ai contratti); per il resto che sia consentito, se non auspicato, di fare al meglio gli affaracci propri (ovvero dei propri azionisti).