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giovedì 9 gennaio 2014

Haidt

Rita, in effetti le tue conclusioni sono in linea con quelle di Hiadt quando nei suoi libri sostiene che l’ etica dell’ uomo mira alla perfezione (purezza). Per quanto a volte cerchi di mascherarlo, anche secondo H. questo istinto è universale, quindi innato.

Ma guarda che sbagli se pensi che questa conclusione sia condivisa. L’ ortodossia, almeno fino a poco tempo fa, era tutt’ altra: l’ uomo magari parte con l’ idea di purezza ma poi, grazie al ragionamento, sviluppa un’ idea di etica ben differente differente.

Piaget (il grande nemico di Haidt) sosteneva che il bambino parte con certi precetti etici strani, dopodiché riesce a capire da solo (per Piaget l’ educatore è fonte di disturbo) che solo alcuni sono da conservare. Quando la nostra comprensione intellettuale è al massimo conserviamo infatti un unico fondamento: “non è giusto far del male agli altri”.

Come vedi un precetto che ha ben poco a che fare con la perfezione e la purezza. Le conclusioni di Piaget e dei suoi seguaci piacquero molto ai “liberal”.

Furono anche molto influenti. Tanto per farti un esempio. Nell’ ultimo sondaggio a tappeto condotto presso i filosofi morali ,la meta-etica della virtù (ovvero della purezza) si piazzava ultima, appoggiata da un mero 15% degli esperti. Deontologia e conseguenzialismo la sopravanzavano alla grande.

Haidt intendeva confutare il razionalismo di Piaget partendo dall’ osservazione di come i raffinati cervelli occidentali reagivano a certe sue storielle inventate. Storielle del tipo:

“… la famiglia Rossi assiste impotente alla morte per investimento dell’ amatissimo cucciolo fido che attraversa la strada sfuggendo per un attimo al controllo dei bambini… poi, avendo sentito che la carne di cane è succulenta, nottetempo fanno a pezzi la carcassa del cagnolino per divorarla spartendosela di nascosto da tutti… Domanda: la famiglia Rossi ha agito correttamente?”

Oppure:

“… il signor Gino va a far la spesa, compra una confezione di pollo, una volta a casa prepara la padella ma prima di mettere la carne sul fuoco si intrattiene con pratiche sessuali sulla carcassa dell’ animale… dopo lo cucina e lo mangia… Domanda: il comportamento del Sig. Rossi è corretto?”

Oppure:

“Giovanna e Michele fratelli che campeggiano insieme, una sera, al chiaro di luna viene loro in mente un’ idea: perché non facciamo l’ amore? Passano all’ azione e dopo aver preso meticolose precauzioni per la sicurezza trascorrono una notte travolgente distanti dagli occhi di chiunque… Domanda: il loro comportamento è corretto?”

E via dicendo.

Di sicuro la famiglia Rossi, il sig. Gino e Giovanna e Michele non fanno male a nessuno con il loro comportamento, non violano principi deontologici né producono conseguenze spiacevoli su chicchessia. quindi, secondo Piaget, individui maturi e con principi sviluppati non dovrebbero obiettare al loro stile di vita. Eppure…Haidt parte proprio dalla reazione di fronte a queste storielle per offrire la sua soluzione al puzzle e spazzare via Piaget, ovvero l’ ortodossia in campo di psicologia morale. Gli individui, non solo non hanno come unico principio il “non fare del male all’ altro” ma hanno anche un elemento unificante e innato in grado di unire tutti i principi (victimless): l’ idea di purezza associata inestricabilmente all’ idea di disgusto e ripugnanza.

Haidt ha sempre detto di essere un liberal. Da giovane era un liberal radicale, credeva che la libertà dovesse essere massima e rideva delle attitudini pruriginose dei conservatori. Oggi dichiara ancora di essere un liberal ma di rispettare e di aver capito, anche e soprattutto grazie ai suoi studi, certi comportamenti di chi prima vniva da lui liquidato come “bigotto”. Tutti noi siamo alla ricerca di un campo dove trasferire il nostro bigottismo, e magari lo facciamo proprio mentre irridiamo al bigottismo altrui. Purtroppo forme di puritanesimo (bigottismo) fanno parte della nostra natura e devono trovare un loro sfogo, negarlo puo’ essere dannoso.

venerdì 23 novembre 2012

giovedì 22 dicembre 2011

Fortunelli e paraplegici

I filosofi antichi hanno ancora molto da insegnarci in tema di felicità, le parole del Buddah ci parlano ancora:

… il saggio non desidera nulla e non parla a vuoto… qualsiasi cosa gli capiti, nella disgrazia e nella fortuna, va per la sua strada senza attaccarsi a nulla…

Ma soprattutto risuonano quelle di Epitteto:

… tu non dei cercare che le cose procedano a tuo modo… ma volere che siano così come stanno… e bene starà…

Sembrano dirci che aspirare ai beni esteriori equivale a rincorrere il vento. La felicità si trova dentro di noi, nell’ accettazione di quel che siamo.

E la scienza conferma.

Lanciarci in progetti ambiziosi spesso non conviene: siamo pessimi nelle nostre previsioni affettive. Un caso macroscopico: pensiamo, per esempio, che tra il vincere alla lotteria un milione di euro e rompersi l’ osso del collo restando paralizzati esista un abisso in termini di felicità, ma non è così.

Certo, tra diventare miliardari e restare su una sedia a rotelle corre una certa differenza ma nel giro di un anno fortunelli e paraplegici saranno pressoché tornati ai loro livelli standard: la mente umana è sensibile ai cambiamenti ma non ai livelli. Conta più il viaggio della destinazione, più i progressi inattesi che il conseguimento della meta.

La salute, l’ età, la ricchezza, la bellezza… tutte cose che pesano molto meno di quanto si creda. Senza contare che gran parte del nostro sforzo è messo in campo per impressionare gli altri.

Se a cio’ aggiungiamo che il livello medio di felicità è ereditario arriviamo alla sconcertante conclusione per cui a lungo termine non importa poi molto quel che ci succede. Questa futilità degli sforzi riscontrata nella psicologia sperimentale è più che mai in linea con l’ insegnamento degli antichi maestri.

Eppure un filosofo come Robert Solomon ritiene che la filosofia del distacco sia un affronto alla natura umana.

In effetti anche questo è vero. Possiamo concludere – contro Buddah – che forse ad alcune cose vale la pena di aspirare, e la felicità viene anche da fuori se si sa dove cercarla.

Il trucco sta nell’ accettare le infelicità a cui ci si adatta per ottenere in cambio felicità durevoli. Alcuni consigli:

1. Rumore. Il rumore peggiora la nostra vita, ad esso non ci si abitua, così come a tutti i fattori che non possiamo controllare. Se esistesse un bottone per far cessare i rumori saremmo più felici a prescindere dall’ uso. Per questo che ci piace “partecipare” (voto, interventi, opinione…) anche se il nostro contributo al cambiamento delle cose è pari a zero: otteniamo l’ illusione del controllo.

2. Pendolarismo. Volete spostarvi in periferia e avere una casa più grande? Non fatelo!: alla casa grande ci si abitua, al pendolarismo no.

3. Vergogna. Un intervento mirato di chirurgia estetica puo’ migliorare sensibilmente e durevolmente la vita di una persona.

4. Relazioni. Non ci si adatta mai al conflitto interpersonale. Solide relazioni con il prossimo sono l’ ingrediente base in ogni ricetta per la felicità.

5. Flusso. Una persona è felice quando si immerge totalmente in un compito difficile che mette in gioco le loro capacità. Sciare, cantare, guidare velocemente su una strada tortuosa… nel flusso c’ è una sfida che cattura l’ attenzione: ci sono problemi e risposte immediate che sappiamo fornire. La cosa ci gratifica.

6. Sensi. Un buon pasto, una buona musica ci allietano la giornata se si sa mantenere il controllo.

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7. Senso. Dare un senso a cio’ che si fa conta. Accompagnare l’ azione con un ideale è buona cosa.

8. Armonia. Essere in ufficio la stessa persona che siamo tra le quattro mura di casa, aiuta.

Jonatahn Haidt – Felicità. Un’ ipotesi.

 

martedì 20 dicembre 2011

Anna & Marco

U2 

Considerate questa storia: Anna e Marco sono fratello e sorella. Stanno viaggiando insieme in Francia durante le vacanze estive dell’ università. Una notte restano da soli in un capanno vicino alla spiaggia e decidono che sarebbe interessante e divertente provare a fare l’ amore. Quantomeno sarebbe un’ esperienza nuova per ognuno di loro. Giulia prende già la pillola anticoncezionale ma Marco usa il preservativo per ulteriore sicurezza. L’ esperienza appaga entrambi ma decidono di non ripeterla conservando un buon ricordo di quella notte che li fa sentire più uniti e vicini.

Ritenete accettabile che due adulti consenzienti, per combinazione fratello e sorella, facciano l’ amore?

Se siete come la maggior parte delle persone che ha collaborato all’ esperimento risponderete “no”. Ma come giustifichereste questo giudizio? Molti ricorrono all’ argomento per cui il sesso incestuoso conduce a anomalie nella prole. Ma quando faccio osservare che tutte le precauzioni per evitare un simile esito sono state prese nessuno dice: “Oh, bè, allora va bene”. Cominciano a cercare altri argomenti, del tipo: “danneggerà la loro relazione”. Quando rispondo che in questo caso il sesso ha rafforzato la relazione, prendono a grattarsi la testa, alzare il sopracciglio e dire: “lo so che è sbagliato, solo che faccio fatica a spiegare perché”.

Nei miei studi ho rilevato che il giudizio morale è un po’ come il giudizio estetico. Quando guardate un quadro di solito sapete all’ istante se vi piace o no, ma se qualcuno vi chiede di giustificare il giudizio, farfugliate qualcosa senza costrutto. Il neurologo Gazzaniga ha riscontrato che esiste un’ intera regione del nostro cervello deputata a “inventare ragioni” a posteriori.

… quando respingete le argomentazioni di una persona, di solito questa finisce per concordare con voi? Naturalmente no. Per il semplice fatto che la “ragione” che avete confutato non era la causa della sua posizione: era stata inventata a giudizio già preso…

Jonathan Haidt: Felicità. Un’ ipotesi.

Su Anna e Marco direi che se non esistono delle “ragioni” esistono pur sempre delle “tradizioni”.

Uniformarsi a una tradizione senza sapere perché è irrazionale?

Per rispondere bisogna pesare almeno due elementi: 1. non siamo onniscienti e le tradizioni, lungi dall’ essere casuali, sintetizzano la sapienza di molte persone; 2. una tradizione ben consolidata, a prescindere da tutto il resto, ha comunque valore in quanto “punto di riferimento”.

venerdì 18 novembre 2011

Ho visto degli atei felici

Jonathan Haidt: Felicità. Un’ ipotesi.

Ieri dalla Cri ci siamo incontrati per tenere il “gruppetto” dei ciellini, eravamo una quindicina e quasi non entravamo in salotto. Ma in questi casi si sta bene anche stretti. Non cambierei mai una sede del genere, soprattutto perché è sul mio pianerottolo e 1. ci possiamo andare in pantofole 2. possiamo rimpiazzare la baby sitter con il baby call.

Si commentava l’ insegnamento di Julian Carron alla Scuola di Comunità di qualche giorno prima.

Carron aveva detto che “la realtà è sempre positiva”.

Affermazione perentoria e in qualche modo scandalosa perché fatta reagendo al caso di una mamma che aveva perso il figlio. La tragedia era stata riferita da un prete intervenuto per l’ occasione; in questo genere d’ incontri si privilegia la riflessione su fatti reali, chi si abbandona a congetture è malvisto, quasi volesse sviare il discorso.

Eravamo ora chiamati a discutere per comprendere il senso profondo di quella lezione contro-intuitiva.

Ebbene, dapprima qualcuno ha avanzato l’ ipotesi che da eventi negativi ne possano pur sempre generare di positivi con l’ effetto di ottenere un saldo generale in attivo. Spesso è proprio così: ci siamo scatenati in una ridda di esempi, a ciascuno veniva in mente qualcosa: un fatto, un episodio, un’ esperienza personale. E se il “positivo” non si produce contestualmente al “negativo”, in fondo basta spostarsi un po’ più in là nel tempo e prima o poi il giochetto riesce.

Ma è la stessa ipotesi, a guardar bene, a essere irrilevante visto che non si oppone al fatto che esistano pur sempre “realtà negative” e “realtà positive”. Noi dobbiamo invece indagare sul perché “la realtà è sempre positiva”.

Poi Emanuela ha fatto riferimento ai drammi vissuti in famiglia (sia suo padre che suo fratello sono mancati in circostanze tragiche).

Ebbene, nel racconto di questa esperienza ha voluto enfatizzare come quella triste realtà l’ abbia colpita duro ma al contempo abbia impreziosito legami stretti in precedenza con persone intorno a lei; tutto cio’ le ha consentito di uscire rafforzata e “risvegliata”. Il dato esperienziale è stato decisivo per ritonificare il suo spirito.

Qui ci avviciniamo al nocciolo della questione: l’ incontro con l’ asperità ci rende più forti. E’ un po’ come se ci mettesse o rimettesse in moto scuotendoci dal torpore che ci avvolge quando le cose filano lisce per troppo tempo. E’ come un tornare al mondo, in un mondo dove possiamo fare incontri che riattivano la nostra umanità.

L’ intervento dell’ Ema ha raccolto un certo consenso.

Ma anche qui non mancano i problemi: quel che ha detto l’ Ema, avrebbe potuto dirlo anche un ateo. Parola per parola. E perché no?

Calma, non mi sono dimenticato del libro, ci arrivo; ho solo fatto questo preambolo perché Jonathan Haidt, nello svelarci il “senso della vita”, ripete paro paro quello che, a quanto pare, per molti intervenuti al “gruppetto” sembra bastare.

Solo che Haidt è un ateo doc e parla unicamente quel linguaggio positivista che i ciellini reputano insufficiente a descrivere l’ umano.

Il libro di cui parliamo è appassionante perché oltre a costituire un resoconto scientifico, ci riferisce le vicissitudini esistenziali dell’ autore. Veniamo a sapere di come il giovane Haidt considerasse sterile la filosofia contemporanea inaugurata di Wittgenstein, disinteressata com’ era a una comprensione profonda della natura umana. Sono inconvenienti che capitano quando si trascura la psicologia in favore della logica.

Fortunatamente, da qualche tempo, le cose sono cambiate e l’ indagine sul “senso della vita” ha riguadagnato la scena.

La nostra vita, dice Haidt, è come un film che cominciamo a vedere da metà. Accadono molte cose che non riusciamo a spiegarci ma che sentiamo come dotate di senso. Perché lei ammiccava a lui? Perché il protagonista si trovava lì proprio in quel momento? Eccetera.

Esiste per caso uno spettatore che ha visto il film per intero e che possa illuminarci?

Per Haidt, attraverso il metodo scientifico, possiamo venire a sapere chi era in sala quando si sono spente le luci ed è iniziata la proiezione, dobbiamo rintracciarlo e chiedere a lui.

Purtroppo, per la scienza e per i testimoni che riesce a riesumare, la nostra vita non ha alcun senso. Ma forse si puo’ affrontare una sotto-questione non da poco: “come dobbiamo vivere?”. Come posso avere cioè una vita piena, appagante e… “significativa”?

Non è detto che la domanda di senso (questione principale) sia legata a doppio filo alla sotto-questione. In fondo la seconda ha natura empirica, ed essa, a volte, è risolta brillantemente anche da chi non dà alcun contributo per sbrogliare la prima.

Volendo sintetizzare la monumentale letteratura positivista in merito, direi che per essere felici occorre un “impegno vitale”, preferibilmente nel campo del lavoro o dell’ amore. Per approfondimenti faccio un solo nome: Mihalyi Csikszentmihalyi.

Un “impegno vitale” implica a sua volta relazioni umane forti e ideali alti. Richiede poi che vi sia armonia tra il corpo, la mente e l’ ambiente sociale in cui si vive.  Quando tutto cio’ è presente, le persone percepiscono un “senso” in quello che fanno.

Anche senza alzarsi troppo da terra si puo’ godere di una vista meravigliosa sul mondo.

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In più ora sappiamo anche che il dono di sé ha un suo senso dal punto di vista biologico. Il nostro “corpo” non si oppone necessariamente a queste pratiche. Voglio dire, forse non siamo necessariamente dei gretti “egoisti naturali” temperati dall’ ipocrisia come ci dipinge qualcuno.

La ricetta di Haidt e la ricetta dell’ Ema convergono in modo preoccupante. Dico “preoccupante” perché l’ ateo e il ciellino non possono  permettersi abbracci tanto affettuosi.

Cosa c’ è allora che non va?

Forse bisogna concentrarsi sull’ espressione “alti ideali”, uno degli ingredienti imprescindibili nella ricetta scientifica della “felicità”.

L’ ateo li puo’ sentirli ma non puo’ permettersi di pensarli, altrimenti gli svaniscono tra le mani poiché li troverebbe insensati. In altri termini, non puo’ permettersi di “alzare la testa” e ampliare i suoi orizzonti: la scienza, ovvero il suo riferimento, in fondo non assegna nessuno scopo alla sua vita.

L’ Ema, invece, puo’ anche alzare la testa, farebbe male a concentrarsi unicamente sull’ elemento “esperienziale” visto che puo’ permettersi di pensare l’ esperienza per riempirla ulteriormente di senso senza fermarsi a una epidermica sensazione, per quanto appagante.

C’ è la “vita” e la “vita pensata”, ad alcuni basta la prima, altri devono averle entrambe. Le persone non sono tutte uguali, alcune si appagano col piacere che traggono dalle loro esperienze, altre non possono fare a meno di meditarle in modo ragionato. A questi ultimi è difficile impedire di “alzare la testa”. Ecco, Dio e la religione si offrono soprattutto a costoro.

La parabola esistenziale dell’ ateo Jonathan Haidt si conclude con un cambiamento interiore non da poco: oggi, pur rimanendo un incrollabile ateo, ha abbandonato il compiaciuto disprezzo per la religione che aveva a 20 anni. Lo studio della psicologia evolutiva gli ha fatto concludere che la mente umana, molto semplicemente, “percepisce” la divinità, al di là dell’ esistenza o meno di un Dio.

Detto in altri termini, la religione è tremendamente “fitting”, tanto è vero che è uno dei pochi universali accertati.

Come potremmo mancarle di rispetto? 

giovedì 27 ottobre 2011

Indignados mano nella mano a passeggio con i Tea party

Come mai di fronte alla crisi finanziaria movimenti tanto diversi raccomandano la stessa soluzione, ovvero il default delle banche?

In altri termini, come mai due morali tanto diverse convergono su un tema tanto cruciale?

Cerca di rispondere Jonathan Haidt:

We really hate cheaters, slackers, and exploiters. By far the most common message I saw at OWS was that the rich (“the 1 percent”) got rich by taking without giving. They cheated and exploited their way to the top…  It’s high time that they started giving back, paying what they owe.


As a point of comparison, a similar look at signs found at the Tea Party rallies suggests that protesters there are also chiefly concerned with fairness. The key to understanding Tea Partiers' morality, though, is that they want to restore the law of karma. They want laziness and cheating to be punished, and they see liberalism and liberal government as an assault on that project. The liberal fairness of OWS diverges from conservative and libertarian fairness in that liberals often think that equality of outcomes is evidence of fairness.

Ottimo punto che ci aiuta a far salire un po’ la nebbia.

Per i tea party non ci sono problemi, chi fallisce merita di per sè di fallire… quindi…

L’ indignados invece vorrebbe fare un’ eccezione per i “buoni”, ma niente paura, operare il discrimine è semplicissimo: per essere cattivi basta essere “ricchi” o “ex- ricchi”. Essere ricchi o esserlo stato, per la morale dell’ indignados, è una colpa di per sé. Essere una banca equivale a essere ricchi e quindi a essere cattivi: lasciamo fallire le banche. Facile.

Conosco religioni gnostiche che semplificano ulteriormente: basta nascere per essere cattivi, al di là dei ticket che staccherete in seguito.

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Se dovessi scegliere tra le due morali io non avrei dubbi. E voi?

 

 

 

mercoledì 7 settembre 2011

Perché ragioniamo

The answer, according to Mercier and Sperber, is that reasoning was not designed to pursue the truth. Reasoning was designed by evolution to help us win arguments. That's why they call it The Argumentative Theory of Reasoning. So, as they put it, and it's here on your handout, "The evidence reviewed here shows not only that reasoning falls quite short of reliably delivering rational beliefs and rational decisions. It may even be, in a variety of cases, detrimental to rationality. Reasoning can lead to poor outcomes, not because humans are bad at it, but because they systematically strive for arguments that justify their beliefs or their actions. This explains the confirmation bias, motivated reasoning, and reason-based choice, among other things."

http://econlog.econlib.org/archives/2010/08/not_robin_hanso.html

lunedì 14 febbraio 2011

"Dignità"... quanti crimini in tuo nome.

Drizzo le antenne ogni volta che leggendo un testo m' imbatto nel termine "dignità", i miei sensori in questi casi segnalano chiara la presenza di una certa disonestà intellettuale.

Perchè mai sempre più frequentemente ci si appella alla "dignità" anzichè ai "diritti" o all' "autonomia" della persona? Il rispetto della dignità di Pincopalla non è forse il rispetto dei suoi diritti e della sua autonomia?

Domanda cruciale. Evidentemente la pulce nell' orecchio ce l' aveva anche Giovanna Cosenza se ha ritenuto di scrivere questo allarmato post a latere della manifestazione di ieri facendo notare come nel manifestino propagandistico compariva ripetutamente la fatidica parolina appesantita da tutto il suo fascio di ambiguità.

In merito mi sono permesso solo di precisare che "dignity is a useless concept", e a dircelo senza mezzi termini sono i bioeticisti visto che da tempo hanno smascherato questo insidioso cavallo di Troia con tutto l' arsenale di trappole che si trascina dietro; loro più di altri sanno come offuscare tramite questo virus lessicale la chiarezza di una discussione delicata come quella che anima i loro disaccordi.

L' utilizzo del termine "dignità" è, detto in parole povere, un espediente per aggirare gli inconvenienti derivanti di un concetto come quello di "diritto" (o come quello di "autonomia"): mentre il diritto costringe a battersi per la tutela di TUTTI, parlare di "dignità" consente di combattere battaglie in nome di una PARTE contro l' altra senza apparire di primo acchito faziosi.

Ed è proprio cio' che serviva al neo femminismo nostrano in versione 2011: un movimento puritano e anti-berlusconiano come quello deve combattere CONTRO l' immoralità e il berlusconismo, ma deve farlo in silenzio se non vuole essere squalificato, deve agire facendo passare la sua battaglia come la battaglia di e per TUTTI.

Qui bisogna ricorrere alla retorica e bisogna farlo in modo avveduto. Ma per fortuna in questo campo le risorse non scarseggiano.

Non si puo' assolutamente invocare il "diritto" poichè esiste pur sempre un diritto ad essere IMMORALI e BERLUSCONIANI. Ecco allora che per le esigenze di propaganda capita a meraviglia la parolina "dignità". Ovvero: tu sei una donna come me e, poichè la tua esistenza intacca la mia dignità, io sono pur tenuta a difenderla; bada bene, non combatto contro di te sebbene ti apponga la famigerata lettera scrlatta, combatto per la mia dignità. Non mi limito a vivere secondo il mio modello lasciando che tu viva secondo il tuo: ti boicotto strepitando, ne va della mia dignità.

Ecco, avete visto come in nome della "dignità" il noioso quanto imbarazzante concetto di "diritto" possa essere aggirato? Avete notato quanto sia facile sentirsi autorizzati ad infastidire il prossimo colpevole di esercitare un proprio diritto? Semplice, no?.

***

p.s. Peccato che del "trucco" si siano innamorate, in altri contesti, anche le alte gerarchie cattoliche. Non sarà un caso che vedo citato il termine incriminato puntualmente in passaggi che fanno scuotere la testa.

p.s. Femministe contro? Basterebbero le divisioni documentate sul Corriere per testimoniare che c' è anche chi ragiona. Ma c' è pure chi sa bene quanta perplessità divoratrice di energie produca ogni forma di pensiero e preferisce quindi liquidare come "giornalismo miserabile" chi dà la parola per un nano secondo all' altra campana, quella dai rintocchi sgraditi.

p.s. Lo studioso più impegnato nell' analisi scientifica del neo-puritanesimo progressista è John Haidt, lo ispira la visione di Avatar, cosicchè il suo campo d' indagine si concentra sul "neo-sacro", ovvero cibo e ambiente; ma presto dovrà occuparsi anche del "sacro conteso", ovvero quella sacralità che la sinistra vorrebbe ora sottrarre alla destra, parlo del "sesso" naturalmente.

add:

davide:



diana:



ric: