giovedì 12 ottobre 2017

13-14 Il mito della buona politica

Il mito della buona politica

No. Il cancro della povertà non si estirpa con la buona politica.
Le istituzioni non bastano, mi spiace.
Lo hanno creduto in molti studiosi di vaglia, Douglas North e Daron Acemoglu su tutti. Il mio rispetto è massimo ma nel loro resoconto qualcosa non quadra.
Il Medio Oriente – ma anche l’Oriente – tra il 1500 e il 1800 esprimeva società economicamente vitali, le (buone) istituzioni arrivavano ovunque, erano una panoplia estremamente curata. Come mai questa civiltà non si mise a capo nella marcia del mondo verso la ricchezza?
Gengis Khan ottenne la sua supremazia mongola attraverso un’applicazione rigorosa della “rule of law”. Implacabili sanzioni colpivano chi rubava una bestia, e gli animali erano il capitale di allora. Il risultato fu l’assai ammirata pax mongolica del XIII secolo. Pace e certezza del diritto assicurati per tutti. Ma come mai una simile pulizia istituzionale non partorì sviluppo e modernità? Come mai l’idea di “innovazione” sistematica non toccò mai queste linde lande?
I mercanti italiani dopo il 1300 continuarono a battere le rete viaria tra Ungheria e Corea elogiando la sicurezza e il controllo dell’autorità preposta alle comunicazioni.
Ma l’affermazione della legge si diffonde anche nelle società prive di autorità formale, nell’Islanda narrata dalle saghe, per esempio. Il motto dell’antica – e anarchica – Islanda: “solo la legge fa fiorire la vita dell’uomo”. Niente polizia in Islanda, ma una legge certa sì. Quando Gunnar Andersson uccise due membri della famiglia Giuriss, la famiglia fu autorizzata dalla legge ad ucciderlo e alla fine lo fece. Nessuno andò dalla polizia ma la legge parlava chiaro e fu applicata: la vendetta fu vista con favore da tutti. Il diritto trionfò.
I recenti esperimenti da laboratorio del premio Nobel Vernon Smith mostrano che la proprietà privata emerge dall’interazione spontanea anche in mancanza di un’autorità centrale. In compenso la storia ci dice come un’autorità centrale possa ostacolare la nascita del diritto di proprietà: la politica non è tutto, e a volte è molto meglio così.
Per sostenere l’ardita tesi per cui senza un re non c’è legge bisogna prelevare ad hoc campioni estremamente angusti della storia umana.
Le leggi nell’Inghilterra di fine Settecento dipendevano forse della politica? Uno studioso come Joel Mokyr ha dedicato buona parte dei suoi sforzi per negare con forza l’asserto! Non parliamo di uno studioso marginale e velleitario, parliamo di uno dei padri della storia economica contemporanea.
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Soprattutto l’etica, non la politica, teneva insieme le società di allora.
Le regole del gioco non ci fanno giocare bene se noi non vogliamo giocare a quel gioco.
Le regole del gioco non ci fanno essere persone corrette se noi non le sentiamo corrette.
I codici legali dell’antica Mesopotamia, come per esempio il codice Hammurabi di Babilonia, non bastano a proiettare un popolo nella modernità.
Sostenere che la buona legge fa la buona società è come dire che l’incendio nel granaio è causato dal granaio. Magari il granaio lo attizza ma…
Purtroppo, l’economista ha una deformazione professionale, vuole spiegare la storia solo con gli incentivi, e quando non ci riesce non rinuncia, non molla la sua preda nemmeno di fronte all’evidenza. Nell’ economista manca la volontà di prendere l’etica sul serio: lo capisco, vorrebbe dire rinnegare interamente il suo paradigma di riferimento.
Che la corruzione sia illegale è una regola che vale a Stoccolma come a Dehli. Eppure…
La differenza la fa l’etica, inutile girarci attorno.
La cultura italiana per esempio è una cultura di norme ambigue. E’ spesso la cultura del furbetto che salta la coda.  Queste istituzioni informali contano più delle regole scritte.
La legislazione è un conto, la regola interiore un altro. Altrimenti, nel giro di una settimana trasformeremmo l’Africa in un’ immensa Svezia: basterebbe traslare laggiù le leggi di lassù.
Senza una comprensione adeguata della moralità e delle convenzioni sociali, lo storico non può nemmeno comprendere l’influenza reale delle istituzioni formali.
Con l’invenzione della stampa la regola può essere fissata una volta per tutte, ma questo non fa perdere in nulla l’importanza dei costumi.
La legge reale emerge da una dialettica tra l’ethos della popolazione e la legge formale. Qualcuno ha detto che la legge è una “conversazione”. Potremmo anche paragonarla ad una “danza”: una danza non può essere ridotta ad uno schema di passi.
Lo aveva capito Aristotele nell’ Etica Nicomachea, lo aveva capito l’autore dell’ Esodo e lo aveva capito anche l’autore della Mahabharata: la scelta di sottomettersi a una regola è un doloroso esercizio di identità. Non c’è una regola scritta e un soggetto che la osserva; c’è invece un soggetto in cerca della sua identità che si confronta con la regola scritta e delibera nel foro della sua coscienza.
Non c’è solo la l’autorità che verga un codice: c’è la dialettica, la conversazione, la storia, la vergogna, il senso del sacro… tante cose interagiscono. Cio’ che succede è la risultante di tutto questo. Se uno si limita al codice non capirà mai nulla di quello che accade.
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A cosa si deve la resurrezione di San Francisco dopo il terrificante terremoto del 1906?
Non alla politica, la politica in quel frangente fu messa da parte. Un comitato di imprese e leader civici prese in mano la situazione. Grazie alla coscienza e all’opera di queste persone la città si riprese prontamente. La politica ha avuto un ruolo marginale.
Nel 2005 la storia si ripete a New Orleans con Walmart e Home-Depot che si sostituiscono alla politica.
A volte un economista come Oliver Williamson fa finta di prendere l’etica in considerazione ma lo fa riducendola a semplice incentivo.  Non riesce a pensare che in termini di incentivi.
Chi svaluta il ruolo dell’etica dice che muta lentamente, che il suo gradualismo non dà conto dei fenomeni ma li segue pedestremente.
Sbagliato. L’etica che giudicava le donne al lavoro è cambiata repentinamente nel corso degli anni 60 e 70. L’etica presso i romani alla fine del primo secolo è cambiata rapidamente passando dai valori repubblicani e quelli imperiali. L’etica della cristianità tedesca agli inizi del XVI secolo si è trasfusa rapidamente dal rilassato regime delle indulgenze a quello rigoroso del protestantesimo. L’etica con cui gli inglesi giudicavano il commercio e le innovazioni tecnologiche alla fine del 700 è passata dal disprezzo all’ammirazione, e non lo ha fatto gradualmente ma pressoché di colpo.
Un cambio molto più rapido di quello istituzionale!
I tribunali, nel frattempo, hanno continuato a “giudicare” secondo le prolisse procedure precedenti. Il diritto di proprietà non si smuoveva. La legge penale era ancora fortemente sbilanciata contro i poveri. Eppure, il giudizio e la retorica sugli innovatori è cambiata. È bastato quello per realizzare una rivoluzione.
L’etica può svoltare in un attimo. Considera in Italia le vicende di mafia nei primi anni 90 e la sollevazione di popolo a favore di certi giudici: una svolta inattesa quanto repentina che ha cambiato le carte in tavola dopo decenni di omertà. È stato un cambio ideologico, non istituzionale.
L’istituzionalista e l’economista di fronte al mistero delle idee e dell’ideologia restano spiazzati e si oppongono, di solito tendono a ridurre l’idea a puro stimolo biologico. Ci si appella alle scienze neurobiologiche. Tutto deve essere inquadrato come “meccanismo”, l’ umano va espulso.
Ma per comprendere l’azione rivoluzionaria delle idee pesa di più l’approfondimento umanistico che discende dall’abbracciare 2000 anni di storia che l’approfondimento scientifico sul cervello partito negli anni 80.
Chi trascura la cultura e si concentra sulle regole del gioco, non comprende che le regole del gioco sono sempre in discussione.
Quando, tanto per dire, l’economista pensa alla teoria della “broken window” elaborata nel mondo della criminologia da Kelling e Wilson la pensa come mero incentivo e non come “conversazione”, ovvero come messaggio culturale del tipo: “questo posto è carino e ben curato perché chi abita qui trova che valga la pena di averne cura, vuoi unirti a questa comunità civile? Vuoi partecipare anche tu?”. No, l’unica cosa a cui pensa l’economista è la logica law&order: dove c’è ordine, c’è nascosta la pula da qualche parte.
L’economia trascura il linguaggio. L’economia è una scienza prelinguistica. In Marx come in Samuelson la valenza del linguaggio è azzerata.
Ma per avere un obbligazione bisogna sentirsi in obbligo, bisogna riconoscere un dovere, bisogna saperselo rappresentare, bisogna avere le parole giuste per rappresentarselo.
Agli economisti piace molto la teoria dei giochi, che come premessa ha il “taci e gioca”. In quel taci c’è l’azzeramento del linguaggio: tutti giocano capendo il gioco allo stesso modo, lo si dà per scontato. Il gioco, in un certo senso, si oppone al linguaggio.
Se ti prometto di fare qualcosa tu reagirai a seconda di cosa intendi con il termine “promessa”. Io che ricevo la tua promessa farò altrettanto. Dentro questa presunta comprensione scatta un corto circuito che sfugge all’economista ma non è affatto irrilevante.
L’economista dà per scontata l’ inequivocabilità del linguaggio quando l’equivoco è dietro l’angolo ovunque.
Pensiamo al significato della parola “onestà” presso la nostra cultura e presso quella africana del popolo che intendiamo aiutare. Spesso c’è un abisso. Pensiamo poi alla parola “onore”, l’abisso si approfondisce. Con queste premesse aiutare sul serio dando delle indicazioni diventa difficile.
Chiamare una persona disonesta nella società aristocratica implica un duello, per esempio. Chiamare una persona disonesta nella società borghese implica scherno e derisione. I significati cambiano a seconda della cultura e l’equivoco è sempre in agguato.
Nella cultura aristocratica l’innovazione non era testata dal mercato. Inventare una nuova macchina da guerra era di per sè ammirevole anche se la profittabilità dell’innovazione restava dubbia. Il significato del termine muterà radicalmente.
Quando possiamo dire che esiste un accordo tra due parti? Che un patto è stato stipulato? Per l’economista non esistono problemi di questo genere, per lui tutto è scontato: c’è un accordo! Eccolo lì! Per lui un patto è un “fatto bruto”. Ma nella realtà le cose sono assai diverse. La società è tenuta insieme da convenzioni che ci fanno capire quando un accordo esiste, quando un patto è siglato. Queste convenzioni sono sempre sotto pressione, sono sempre in discussione, sono sempre soggette a slittamento.
Come esprimere una preferenza? Anche questo problema affonda le sue radici nel linguaggio. Bart Wilson è uno studioso che ha molto da dire in merito, e non si tratta di banalità. Noi siamo sicuri di ciò che sta nel nostro cuore ma come possiamo esserlo di ciò che sta tra noi e l’altro? Nella decifrazione di questa intercapedine la cultura gioca un ruolo centrale. Nel generare cooperazione, per esempio, la cultura è decisiva. E che cos’è il capitalismo se non cooperazione volontaria?
E’ l’approccio umanistico a gettare luce sulle istituzioni, non viceversa.
L’economista vede l’istituzione come un vincolo esterno, non come qualcosa sempre in discussione che la cultura crea e negozia di continuo. Le cose non possono essere ridotte a “preferenze+vincolo di bilancio”. Troppo facile.
Poi ci chiediamo perché in Africa certe istituzioni palesemente vantaggiose non allignano. Abbiamo smesso di capire cos’è l’uomo, se ci impantaniamo non è sorprendente!
La scienza economica, per capire, ha bisogno di più “significati” e di meno “regole del gioco”!
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