martedì 31 gennaio 2012

Il privilegio dell’ addizionale

I tributi che colpiscono le rendite (dividendi, interessi, affitti, capital gain…) in realtà non sono tasse bensì sopratasse.

Chi urla di continuo “le rendite sono colpite con aliquote troppo basse” in realtà sostiene la penalizzazione ingiustificata di alcuni contribuenti rispetto ad altri.

I concetti di fondo non sembrano chiari nemmeno a molti giornalisti finanziari. Meno male, mi chiedo cosa farebbero i blogger senza le bufale a getto continuo della stampa più blasonata.

Prima dell’ esempio, partiamo con un concetto di base che tutti condividono: la pressione fiscale effettiva si esprime come percentuale che misura la perdita di reddito disponibile dopo l’ applicazione della tassa.

Bene, ora prendiamo Giovanni e Giuseppe.

Situazione 1 (S1). Entrambi vivono in un paese senza tasse e guadagnano 100 grazie al loro lavoro. Giuseppe decide di consumare 100; Giovanni, per un suo usto, preferisce investire, raddoppiare il suo capitale e consumare 200 dopo un anno. Fine della storia.

Situazione 2 (S2). Viene introdotta una tassa sui redditi di lavoro pari al 50%. Ora Giuseppe consumerà 50 (il 50% in meno rispetto a S1). Giovanni investirà 50, raddoppierà e consumerà 100 (anche lui il 50% in meno rispetto a S1).

La tassazione sembra equa: nel passaggio da S1 a S2 i redditi disponibili di Giuseppe e Giovanni calano entrambi nella stessa misura (50%).

Situazione 3 (S3). Ora, a fianco della tassa sui redditi da lavoro, viene introdotta una tassa del 10% sul capital gain. Nulla cambia per Giuseppe, continuerà ad avere un reddito disponibile pari a 50. Giovanni invece ora lo ha pari a 95 (il capitale reinvestito sarà infatti tassato per un importo pari a 5).

Nel passaggio da S1 a S3 Giuseppe sopporta una decurtazione dei redditi disponibili pari al 50% mentre Giovanni si carica un bel 52.5% (così impara a fare la formichina).

Insomma, contro la retorica dominante la tassazione sulle rendite si rivela essere una semplice addizionale sui redditi da lavoro.

In altri termini, Giovanni viene penalizzato con un’ addizionale per la sua semplice scelta di non consumare subito tutto, una scelta che in quanto tale non si vede perché debba essere penalizzata.

Adesso andate pure a spulciare i giornali per constatare di persona con quanti salamelecchi ci si riverisce alla “doverosa tassazione sulle rendite”, vera e propria misura tesa a implementare forme di giustizia fiscale. Lo spettacolo è esemplare: un’ ignoranza talmente compenetrata da trasformarsi in cristallina buona fede, con il solito seguito a rimorchio da feroci greggi furiosamente belanti disinteressate a capire ma interessatissime al sangue del lupo.

Christian Tagliavini forse l' imperatore non è proprio nudo

… forse l’ imperatore non è proprio nudo, ma di sicuro porta abiti stranissimi…

Fine dei distinguo

Noi ragionieri abbiamo un debole per le tassonomie e in materia di tributi ci sbizzarriamo, forse per gettare fumo negli occhi del profano.

Mia mamma parla genericamente di tasse senza tanto sottilizzare, e forse ha ragione lei. Mi spiego.

In relazione ai tributi l’ unica classificazione di sostanza distingue le tasse sul lavoro dalle tasse sul capitale. Sfido a dire diversamente.

Ma posso andare oltre: le tasse sul capitale o sono una doppia tassazione (patrimoniale) o sono una sovra tassa (capital gain, dividendi, interessi, reddito d’ impresa). Sfido a dire diversamente.

In ultima analisi qualsiasi tassa colpisce il reddito di lavoro.

C’ è solo un tributo e colpisce i redditi da lavoro: fine di ogni tassonomia, aveva ragione la mamma. Sfido a dire diversamente.

Postilla: ogni tassazione sul lavoro in realtà è una tassazione sul consumo, questo perché colpire una ricchezza quando entra (nella mia disponibilità) o quando esce è esattamente la stessa cosa. Sfido a dire diversamente.

Queste osservazioni semplificano (fine delle tassonomie) ma, nello stesso tempo, complicano (sovra tasse?), tanto è vero che mi aspetto molte “sfide”.

Clark Goolsby

… l’ avida mano del fisco nell’ immaginario di Clark Gooldby…

Robin Hood

Robin rubava ai ricchi per dare ai poveri. (Bravo!).

Non si sa bene se la sua storia sia da leggere come un apologo morale o un racconto di fantascienza.

Mi sembra più costruttiva la seconda ipotesi: diversamente da quel che molti pensano non è affatto semplice “rubare” ai ricchi e dare ai poveri.

L' aritmetica ci dice che per accrescere il tenore di vita dei poveri a spese dei ricchi è necessario abbassare quello dei secondi, arduo problema.

Vale la pena di fare un esempio.

Prendiamo un mondo in cui le auto siano l’ unico bene di consumo; in questo mondo vive alla grande l’ ereditiera Paris Hilton forte del suo fantastiliardo depositato in banca: la biondina non fa che girare tutto il giorno salendo e scendendo dalle sue venti fuoriserie.

E’ lo stesso mondo in cui vivacchia l’ appiedato Ginetto.

Robin vorrebbe rubare tassare la ricchezza spropositata dell’ ereditiera trasferendola in parte al povero Ginetto, il quale potrà finalmente concedersi un’ utilitaria.

Detto, fatto.

Eppure, compiuto l’ “atto di giustizia”, notiamo che Paris, com’ era facilmente prevedibile, continua esattamente come prima a godersi le sue 20 fuoriserie, i conti non quadrano: chi ha rinunciato ai suoi consumi per concedere a Ginetto la macchinetta nuova fiammante?

Probabilmente lo sfigatissimo Ginone: aveva programmato l’ acquisto di un’ utilitaria, era sul punto di chiudere i contratti quando la banca ha alzato i tassi d’ interesse facendo saltare l’ accordo.

Ma la banca non ha agito per capriccio: purtroppo il capitale depositato da Paris è stato intaccato dalle tasse e questo depauperamento di risorse disponibili in cassaforte modifica necessariamente le politiche del credito. La penuria impenna il prezzo e il prezzo in casi del genere coincide con il tasso dei finanziamenti concessi.

Ricapitoliamo il finale: Ginetto se la gode, Paris mantiene inalterato il suo tran tran di miliardaria (cambia solo qualche zero nei documenti – mai letti - che invia la banca), Robin se ne va in giro a mostrare le sue medaglie appena lucidate. L’ unico a stare in un cantone è l’ oppresso Ginone, per lui è davvero la fine di un sogno. A meno che da qualche parte esista un Ginaccio messo peggio di lui e un Robin che, abbagliato dalle proprie onorificenze, non abbia imparato la lezione.

Morale: tassare i ricchi è difficile, praticamente impossibile, per lo meno fuori dai racconti di fantascienza.

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… anche le verità più solide talvolta inciampano…

sabato 21 gennaio 2012

Scatola nera e fantafisco

1. Slogan che non mi piacciono: “aboliamo tasse e leggi”.

2. Slogan che mi piacciono: “trasformiamo le tasse in prezzi e le leggi in regole”.

Il primo è romantico ma il secondo è criptico.

Per capirlo meglio ricorrere all' esempio della scatola nera da montare in macchina, recentemente tornata in auge con il decreto Monti.

FASE 1: con la scatola montata sull’ auto, sconti dell’ assicurazione.

FASE 2: con la scatola obbligatoria, le assicurazioni, ovvero gli unici soggetti realmente interessate alla sicurezza, fissano tra loro un codice della strada personalizzandolo poi con il cliente.

FASE 3: con la scatola montata arriverà a casa la “bolletta della strada”.

Nella fase due delle regole contrattuali prendono il posto della legge, nella fase tre un prezzo (pedaggio) prende il posto di una tassa in modo tale di trasferire i costi dalle spalle del contribuente a quelle dell’ utilizzatore.

Cosa osta? Non la tenere ragione, bensì l' arcigna cultura.

Fantafisco, quindi. Eccezion fatta per Singapore.

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venerdì 20 gennaio 2012

Cambio vita: filosofia della patata

Compilare il blog quotidianamente è entusiasmante ma anche parecchio faticoso, uno che lavora mica se lo puo’ permettere a lungo e forse è giunta per me l’ ora di prendersi una pausa.

Da domani cambio “vita”, con post stringati mi dedicherò solo alla materia fiscale visto che in qualche modo sarà un impiego del tempo con ricadute positive anche sul mio lavoro. tanto più che si avvicina la parte d’ anno più impegnativa.

Cercherò di evitare i link rendendoli disponibili nell’ eventuale discussione che seguirà.

Svolgerò micro-considerazioni di interesse generale sulle imposte, nulla di specifico.

Mi piacerebbe avere un blog fiscale e comincio a fare qualche sperimentazione.

Piccole “riflessioni fiscali”, quasi un “haiku del commercialista”. Inevitabile restare sul vago, chi è interessato puo’ sempre discuterne visto che alle discussioni non mi sottraggo.

Anche il ritmo di postaggio mi sa che non sarà giornaliero, si fisserà empiricamente e attendo anch’ io di conoscerlo.

Inutile comunque diffondersi in programmi, si sa che queste cose poi prendono una loro direzione (di solito circolare in modo da ritrovarsi al punto di partenza).

La materia è piuttosto arida, lo so, ma se approcciata dall’ alto puo’ offrire qualche spunto interessante. Tuttavia mi rendo conto che la monotematicità degli interventi non è fatta per elettrizzare l’ interlocutore.

La gente difficilmente parla di chimica o di fisica: per quanto rispetti e ammiri il sapere prodotto in queste scienze, in genere, senza confessarlo apertamente, lo ritiene noiosissimo. E chi puo’ dargli torto? Prendete l’ evoluzionismo darwiniano, a chi credete che interessi se non ne parlate trasformandolo in una specie di teologia (magari negativa)?

Di fisco, imposte ed economia, invece, parlano tutti, quasi sempre a sproposito. Perché?

Avanzo due ragioni:

1. Il fisco, come l’ economia, ci tocca da vicino di continuo; è dunque una materia interessante. Con la mia piccola preparazione economica sbrano il giornale ogni giorno, praticamente mi interessano tutti gli articoli e su tutto avrei da opinare. A un giovane consiglio caldamente lo studio dell’ economia? Niente rende più felici e più “protagonisti”. Con tutte le cazzate che circolano in materia anche un orbo è re nel paese dei ciechi.

2. Nelle materie fiscali e economiche – ma direi nelle scienze umane in genere - la distanza tra il sapere predittivo dell’ uomo della strada e quello dell’ esperto non è mai abissale, anzi (vedi Tetlock). Non è una tara di quelle discipline, è che sono fatte così. Mi spiego meglio: si studia per anni e anni solo per saperne un pochino di più della media. Ma veramente poco, in fondo. In tempi di crisi ve ne sarete anche accorti dalle critiche piovute sulla categoria. Forse quel “pochino di più” vale la pena di saperlo, forse no. Boh. Sta di fatto che la cosa consente a tutti di azionare la bocca e il mantice del fiato. Nel mondo economico singolari fenomeni prendono forma, la materia è talmente complessa che spesso un sovrappiù di errori ha il pregio di correggere la traettoria centrando il bersaglio. Cosicché a girare onusto di medaglie è il più ignorante della compagnia.

Bè, direi che con questi due punti il primo post sul fisco è già bell’ e fatto, ma non prendetelo come standard visto che in futuro cercherò di essere molto più sintetico.

Un’ ultima cosa: (per ora) non rinuncio alle tag cineclub, musiclub e bookclub, lascerò traccia di ogni film visto, di ogni disco ascoltato e di ogni libro letto: ma per ciascuno saranno due-parole-due. Promesso.

Ultimissima, lo giuro: poiché non intendo farmi del male da solo, nonostante quanto detto, mi riservo il diritto di ricambiare vita anche domani.

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Avete notato, ho postato la foto di una strana patata.

Perché? E’ simpatica, non è facile essere una patata e essere anche simpatici, provateci voi. Trovo la cosa alquanto singolare. Non lo so quindi perché ho messo quella foto (che poi è la scultura di un artista ancora più singolare), mi piaceva al momento e l’ ho postata, non voglio affaticarmi a rintracciare nessi, non ne ho nemmeno il tempo. Avevo voglia di farlo e l’ ho fatto, è la mia nuova filosofia iconografica, almeno fino a domani.

giovedì 19 gennaio 2012

Prostrazioni

Un paese prostrato, steso a pelle d’ orso.

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Di mazzate ne ha prese tante, ma la più imponente chi l’ ha sferrata?

Per capirlo è utile guardare a chi si è rialzato, o almeno ci prova.

Nel 2011 la Germania ha segnato due record dell'ultimo ventennio: oltre a crescere al 3% in un anno di crisi per l'Europa, è riuscita a spronare l'occupazione di 530 mila unità, a 41 milioni, il massimo dalla riunificazione, mentre la disoccupazione è calata al minimo da vent'anni, a quota 6,8%. Come mai? Chi ricorda che all'inizio del 2000 la Germania era «la malata d'Europa», mentre ora è tornata la locomotiva della Ue? La risposta classica è che il modello tedesco ha avuto successo, perché ha iniziato nel 2003 le riforme, liberalizzando e flessibilizzando il mercato del lavoro e aumentando la produttività.

Poi è seguito il taglio dei costi del sistema sociale, l'aumento delle pensioni a 67 anni, la creazione di un segmento di bassi salari. In un decennio, i costi del lavoro per unità di prodotto tedeschi sono aumentati solo del 3,9%, quelli italiani del 32,4%. Ma la vera ragione consiste piuttosto in un cambiamento totale di mentalità, anche nei rapporti azienda-dipendenti. Negli Anni 80 i sindacati tedeschi erano noti per la loro conflittualità.
Dopo la riunificazione è avvenuta una specie di rivoluzione «del consenso»… a partire dal 2002-2003, i sindacati, per salvare i posti e frenare la delocalizzazione di aziende, hanno fatto marcia indietro rispetto a conquiste dei decenni precedenti. Accettando una flessibilizzazione del lavoro senza precedenti…

Mentre gli accordi salariali regionali - dai quali erano esclusi i contratti aziendali dei grandi gruppi come Volkswagen e Daimler - partendo per esempio dalla fabbrica Siemens a Bocholt, hanno aperto a contrattazioni locali, fra industria e sindacati aziendali, in deroga a quelle collettive. Con accordi a livello locale di aumento dell'orario lavorativo, della produttività e con tagli dei costi che ha reso le aziende, anche quelle medie (la spina dorsale dell'economia), competitive a livello globale… Ma anche i gruppi come Volkswagen hanno tagliato i costi del lavoro di circa il 20%… leggi tutto.

mercoledì 18 gennaio 2012

Scettri di carta pesta

Mario Monicelli – Un borghese piccolo piccolo

Trama:

Giovanni Vivaldi (Alberto Sordi) è un modesto impiegato alla soglia della pensione in un ufficio pubblico della capitale. La sua vita si divide tra lavoro e famiglia. Con la moglie (Shelley Winters) condivide grandi aspettative per il figlio Mario (Vincenzo Crocitti), neo-diplomato ragioniere, un ragazzo non molto brillante che asseconda volentieri gli sforzi che il padre compie per impiegarlo nello stesso ufficio.

Giovanni si espone nel tentativo di aiutare il figlio, fino al punto di umiliarsi nei confronti dei suoi superiori, iscrivendosi a una loggia massonica che gli consentirà di acquisire amicizie e favoritismi ai quali prima non avrebbe mai potuto accedere.

Proprio quando i tentativi di Giovanni Vivaldi sembrano volgere al successo, il figlio Mario rimane ucciso, colpito da una pallottola vagante esplosa nel corso di una sparatoria successiva a una rapina nella quale padre e figlio si trovano accidentalmente coinvolti.

L'evento tragico e le sofferenze che ne conseguono stravolgono la vita, le convinzioni e la morale dei coniugi Vivaldi. La moglie di Giovanni, colpita da malore, perde la voce e rimane gravemente invalida; Giovanni, accecato dal dolore e dall'odio, si getterà a capofitto in un'impresa solitaria e disperata, che lo porterà dapprima a individuare l'assassino del figlio, quindi a sottrarlo alla cattura della Polizia. Sequestrato l'uomo in una capanna isolata, Giovanni lo sottopone a una violenza cupa e inaudita che lo condurrà lentamente alla morte.

Per Giovanni arriva poi il momento della desiderata pensione e, dopo nemmeno un giorno, la triste morte della moglie oramai gravemente segnata dall'invalidità. Giovanni si prepara con serenità e rassegnazione a vivere la propria vecchiaia, ma uno scontro verbale involontario con un giovane sfaccendato gli farà rivivere quel ruolo di giustiziere che lo ha già portato e forse lo porterà a uccidere ancora.

Al suo meglio la maschera di Alberto Sordi evoca tenerezza e ribrezzo: un dissonante accordo che risuona chiaro in questo film come mai altrove.

Centrifugati da istinti divergenti come l’ autocommiserazione da un lato e la voglia di dissociarci dall’ altro, solleticati nel nostro istinto moralista, lo guardiamo agire impensieriti dalla familiarità con dinamiche che vorremmo tanto estranee al nostro mondo.

Prendiamone una: siamo a tavola (sancta sanctorum della famiglia borghese).

In mattinata Giovanni Vivaldi (Alberto) si è recato in ufficio con una missione: raccomandare al suo capo ufficio il figlio ragioniere per il concorso al Ministero.

Davanti alla pastasciutta il resoconto delle sue gesta è enfatico e ottimista. Si gonfia una bolla che la moglie fa esplodere con una “parolilla” di amaro scetticismo. Il Vivaldi collassa in una crisi di nervi che ne denuncia la fragilità di fondo: fuori dalla porta di casa passa la vita a camminare su un filo.

Ma in che mondo siamo?

Siamo nel mondo in cui il maschio è breadwinner, conduce la sua vita nella giungla d’ asfalto, un ambiente dove l’ evoluzione ha sagomato una super razza: l’ homo hypocritus.

Anche in casa il Maschio breadwinner-razza-Homo Hypocritus, prolunga i riti formali con cui tenere insieme i pezzi della sua fragile porcellana: coltiva la complicità del figlio maschio agitando uno scettro di cartapesta, vanta particolari competenze, ostenta sprezzo verso la donna di casa (che si presta alla commedia) relegandola pubblicamente a esclusive di secondo ordine.

Ma una volta al desco, col bamboccione a perdere il suo giorno altrove, si passa alla sostanza e l’ ottimismo (ipocrita) della volontà è messo a dura prova da una “parolilla” pronunciata da chi detiene uno scettro molto meno visibile ma d’ oro zecchino.

La seconda parte del film è la sconvolgente metamorfosi della dabbenaggine in istinto criminale, quasi che il cumulo di tanta ipocrisia sia destinata prima o poi a far esplodere forme di insana sincerità, vera rappresentazione della banalità del male.

Tom Torrey quel giorno che linus impazzì e gli fece fuori tutti

Per qualcuno è anche la spettacolare denuncia del verminaio che sta sotto la pietra di certe vite asfittiche: la vita a cui ci condanna la società borghese.

Il film si presta bene a questa interpretazione (che nel merito s’ incaglia quando considerano gli antidoti e chi si oppone alla somministrazione).

Preferisco allora, per quanto forzata, l’ interpretazione contenuta in nuce nell’ ammonimento che Don Garavaglia ci fece al termine del corso fidanzati 2009: ricordatevi che ora vi sposerete e quindi sarete finalmente in tre. Poi, forse, arriveranno anche i figli.

Ecco, nella famiglia di Alberto mancava qualcuno, cosicché è bastato poco per ritrovarsi soli e con la mente sconvolta.

martedì 17 gennaio 2012

Saperi dimezzati

Cose che tutti sanno: in Italia il tempo dedicato alla famiglia e ai figli è ripartito tra uomo e donna in modo piuttosto impari, almeno rispetto al nord Europa.

Cose che non tutti sanno: gli uomini italiani dedicano alla famiglia e ai figli un tempo non inferiore ai loro pari del nord Europa.

domestico

Fin qui i fatti, le conclusioni le lascio a voi.

lunedì 16 gennaio 2012

Al bar

Scendete ora giù al bar e chiedete a bruciapelo al vostro compagno di bevute quanto fa “171 x 24”: quello vi guarda senza rispondere, strizza gli occhi, corruga la fronte, chiede brancolando carta e penna e si apparta finché s’ è fatta l’ ora dell’ aperitivo quando potete pure dirgli di lasciar perdere.

In effetti non è un’ operazione semplice.

Eppure, se alla stessa persona fate domande molto più complicate – magari che tirino in ballo centinaia di variabili, magari implicanti valutazioni generali sull’ economia o sulla politica estera – quello non vi farà neanche finire e attaccando con grande verve vi esporrà la sua convinta opinione sui fatti.

Ma come mai sappiamo risolvere tanto velocemente solo i problemi più incasinati?

L’ ordine di una semplice tabellina ci confonde ma nel caos delle discariche giornalistiche ci muoviamo a meraviglia cogliendo al volo tutti i nessi!

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Per la difesa della “libertà” la domanda non è peregrina dato che la “libertà” trionfa solo se c’ è ammissione d’ ignoranza: non esiste soluzione univoca, liberi tutti! Se invece ci districhiamo davvero così bene su questioni tanto complesse, la libertà diventa un optional: esiste una soluzione, applichiamola a tutti!

Purtroppo, a quanto pare, i nostri limiti così evidenti quando trattiamo problemi semplici, spariscono all’ improvviso quando le complicazioni si stratificano.

Il fatto è che una domanda facile (171 x 24) non la si puo’ cambiare, se ne sta lì implacabile davanti a noi come una sfinge sfacciata. Al contrario, una domanda difficile (“quanto bisognerebbe dedicarsi al salvataggio delle specie animali in via di estinzione?”) è proteiforme e sfaccettata. Cio’ consente di rispondere alla “faccia” più benevola illudendosi di aver risposto a tutte.

Qualche esempio testato in laboratorio:

Quanto bisognerebbe dedicarsi al salvataggio delle specie in via di estinzione?

Nella nostra testa lentamente si trasforma in:

Come mi sento pensando all’ ultimo panda che tira le cuoia?

Oppure:

Quanto sei felice in questo ultimo periodo?

Diventa:

Come ti senti ora?

Oppure:

Di che popolarità gode adesso il Presidente?

Diventa:

Di che popolarità ha goduto il Presidente negli ultimi sei mesi?

Oppure:

Dovrebbero essere punite le banche che hanno consigliato male i pensionati?

Diventa:

Quanto rabbia senti montare guardando il documentario della Gabanelli su Parmalat?

Oppure:

Questa donna si presenterà alle elezioni, che opportunità avrà di vincere?

Diventa:

Questa donna ha la faccia da vincente?

Conclude lo psicologo:

… le scorciatoie cognitive facilitano reazioni rapide a domande che se prese sul serio richiederebbero una notevole mole di duro lavoro… trucchi del genere evitano di farci toccare con mano le nostre incertezze in modo da accantonare qualsivoglia ammissione d’ ignoranza…

Ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi:

E’ giusto avere un salario minimo per tutti?

Diventa:

Sarei contento se il padrone desse un aumento a chi guadagna meno?

Oppure:

Quale politica per la crescita?

Diventa:

Con quale politica potrei colpire una categoria antipatica?

Oppure:

L’ art. 18 andrebbe abrogato?

Diventa:

E’ sgradevole essere licenziati?

Oppure:

Come andrebbe graduata la progressività del sistema fiscale?

Diventa:

Ammiro o disprezzo i ricchi?

Morale: al bar la libertà è indifendibile.

Peccato che i bar non stiano solo qua sotto: ce ne sono anche in banca, al ministero, in parrocchia… e non mancano nemmeno all’ università.

sabato 14 gennaio 2012

Amarsi ancora

Il linguaggio dei testi ciellini, sulla scorta del modello fornito da Don Giussani, è spesso animato da una tensione esistenziale immanente che a volte rischia di rendere il messaggio piuttosto criptico. Sarà che dovendo battere sempre sui medesimi tasti si cerca aiuto nella densità concettuale e nell’ intimismo spinto, forse per aggirare la pedanteria dottrinaria. In questo senso il Massimo Camisasca di Amarsi ancora è un’ eccezione poiché predilige uno stile scorrevole, piano, qua e là perfino naif.

Si vede che l’ obbiettivo primario è posto nel farsi comprendere e non nel prevenire obiezioni.

Il libro, in soldoni, è un’ apologia della famiglia a cui aderisco senza nemmeno ricorrere alla fede: la famiglia è il luogo privilegiato dove sperimentare l’ altruismo, un luogo prezioso da preservare con cura.

Dove mai potremmo ritrovare, infatti, qualcosa del genere?

Chiarisco meglio questo punto prendendo a termine di paragone una comunità concorrente: lo Stato-Nazione. Perché la Famiglia è superiore alla Nazione? I motivi sono essenzialmente due:

1. Il primo è evidente: in famiglia l’ altruismo è “naturale”. All’ interno dello Stato-Nazione è sempre posticcio (richiede pratiche coercitive per realizzarne una parvenza).

2. Il secondo è meno evidente: noi non riteniamo mai lecito adottare comportamenti criminosi per avvantaggiare i nostri figli. Nell’ ambito dello Stato-Nazione invece sì: ingaggiando una guerra, per esempio, sappiamo con certezza che uccideremo degli innocenti (comportamento di solito ritenuto criminoso) tuttavia accettiamo ugualmente la nozione di “guerra giusta”.

Il libro è una rivista leggera di topoi legati alla famiglia.

Dipendenza. La vita familiare la esalta. E’ cosa buona visto che, come diceva Chesterton: “coloro che hanno fiducia solo in se stessi stanno al manicomio”.

Prolificità. C’ è l’ esaltazione della famiglia numerosa: il mondo è dei prolifici, lo dice anche il freddo demografo. Musica per le orecchie di un natalista che sulla scia di Julian Simon vede i bambini come “the ultimate resource”. Musica con una nota stonata: chi esalta la forza della famiglia numerosa non puo’ nel paragrafo successivo denunciarne la debolezza chiedendo a gran voce che soccorra la stampella dei sussidi statali.

Genitori: il Padre “prende per mano” e introduce i figli al “rischio”. Affrontare il rischio richiede un calcolo razionale. La Madre introduce al “principio di precauzione” stendendo una rete. Entrambi i ruoli sono importanti: le rischiose piroette sono affrontate con più fiducia grazie alla rete, la rete non ha senso senza le piroette. Bella l’ armonia tra questa visione e le conclusioni della psicologia evolutiva più avanzata.

La preghiera. In famiglia è un dovere. La preghiera richiede silenzio e nell’ epoca della connessione continua “fare silenzio” diventa già di per sé un’ impresa meritoria. Altre raccomandazioni: alternare preghiere standard con preghiere personalizzate. In queste ultime inserire sempre qualche notizia di cronaca attinta dal giornale per dare vivacità e presenza sostanziale.

Dopo un litigio pregare sempre: è un modo per stare insieme in armonia senza la necessità di parlarsi direttamente, un modo per “sbollire”.

Fallimenti. Sono uno stimolo prezioso per:

1. guardare in faccia i nostri limiti e

2. non giudicare chi ci sta vicino.

Siamo limitati e siamo anche chiamati a non giudicare il nostro prossimo. C’ è forse qualcosa d’ altro che deve sapere un buon cristiano?

Fecondità. E’ difficile negarne il valore, anche per quanto detto prima.

Tuttavia non capisco bene gli insegnamenti impartiti in materia di contraccezione: quella naturale viene ammessa. Ma mentre il termine “naturale” mi appare appropriato quando lo uso come ho fatto all’ inizio, qui mi appare invece oscuro.

Aborto. E’ un misfatto: Camisasca chiama a testimonianza il peso che ogni donna che abortisce porta con sé per tutta la vita. Preferisco l’ argomento dello slippery slope.

Educazione. L’ atto educativo forma sia il bambino che il genitore: si sta – insieme - a tu per tu con la realtà. L’ adulto tende a dimenticare che esiste una realtà a lui esterna e da cui “dipende”, gli occhi del bimbo (l’ “uh!” della Marghe quando appare un gatto) glielo ricorda.

Ci siamo noi, la realtà ma anche il senso. Non si puo’ educare senza ricorrere a un discorso sensato. L’ educazione è sempre educazione al senso. Difficile motivare senza proporre un’ identità.

Scuola. A scuola le persone precedono nozioni e regole. A scuola, poi, si rafforza l’ amicizia, un sentimento che forma l’ individuo almeno quanto i rapporti familiari (e forse anche di più).

Società. La famiglia è tenuta ad entrare in una rete familiare, pena la sua morte per implosione. Gli oratori contribuiscono alla nascita del clan.

Insegnamento della fede. Non occorre aver compiuto studi speciali, basta l’ amore e l’ esempio: i bambini (più che ascoltare) ci guardano.

Mi fermo qui sebbene il libro continui affrontando argomenti interessanti come il fidanzamento, i beni nel matrimonio, la tecnologia educativa, l’ amore che muore, i nonni, l’ adozione, l’ affido ecc.

Fin qui la famiglia ideale di Camisasca. Ma la famiglia reale dei numeri?

A questo punto di solito attaccano le geremiadi e si comincia a parlare di declino, di egoismo, di gratificazione dell’ io.

Ma chi i numeri li sa maneggiare - per esempio Gianpiero Dalla Zuanna e Guglielmo Weber nel loro Cose da non credere – ci invita all’ ottimismo.

La famiglia è viva e vegeta (lo sanno soprattutto i pubblicitari), non solo, è più che mai di moda l’ innovazione introdotta dalla Famiglia Cristiana: l’ amore.

In questo senso non bisogna idealizzare troppo il passato, quando era “estesa” lo era per le condizioni economiche imposte dalla mezzadria, la famiglia dei braccianti in realtà era “nucleare” proprio come quella dei nostri condomini/alveare. Spesso non si andava oltre il contratto; oggi l’ affetto tra i coniugi è più sincero. Ci si separa di più anche perché non si sopporta che venga a mancare. Non solo: quando ci si separa c’ è sempre una reale sofferenza, altro che “festa di divorzio”. Certo, si convive molto di più, magari si fa il primo figlio fuori dal Matrimonio, ma in testa, alla fine, c’ è sempre quello, anche quando non ci si arriva.

L’ ideale rimane quello di una coppia che si ama per sempre. Il Matrimonio non ha certo perso il suo fascino, a esso ambiscono perfino gli omosessuali.

Oltretutto ancora oggi il matrimonio è una buona assicurazione contro la povertà.

Il legami familiari sono intensi come non mai, specie da noi: il fenomeno dei bamboccioni ne è un sintomo. E’ sempre esistito nei secoli e oggi si è esasperato solo perché le famiglie sono più ricche e possono garantire al bamboccione una vita agiata per più tempo.

Ma perché allora si fanno così pochi figli?

Sul punto le risposte sembrano ormai chiare, le traggo dal libro di Della Zuanna e Weber – Cose da non credere:

… nelle zone ricche del mondo a legami familiari forti (la sponda Nord del Mediterraneo e l’Asia centrale), la bassa fecondità è anche oggi il grimaldello utilizzato dai genitori per garantire ai figli – o all’unico – figlio – una condizione sociale migliore… In questi paesi non è vero che le coppie non vogliono avere più figli: all’opposto, molte coppie vivono con sofferenza la rinuncia ad avere un figlio in più. Il fatto è che i bambini con più fratelli sono penalizzati dal punto di vista economico, godendo di opportunità assai inferiori rispetto ai figli unici e a chi ha un solo fratello…

Ancora:

contrariamente all'opinione diffusa, la famiglia italiana non si sta sfaldando; gli italiani fanno pochi figli non per basso reddito o carenza di servizi ma perché per i figli «le coppie italiane vogliono il "massimo" e quindi non accettano servizi di basso livello o situazioni abitative inadeguate»… leggi tutto.

C’ è chi pensa che egoismo e edonismo ostacolino la procreazione (es. il Papa). Ma forse le cose non stanno proprio così visto che nella nostra società, contrariamente al passato, i più ricchi fanno più figli dei poveri. Anche il cittadino medio, a pagamento, sceglie di far figli. D’ altronde, in passato, il baby boom e il boom dell’ economia italiana sono andati di pari passo. Tradotto: il nemico della prolificità non è l’ avidità di ricchezze.

In altri termini: il bisogno di molti figli è sentito ancora oggi e quando accumuli ricchezza la investi volentieri per “comprare” figli.

D’ altro canto è pur vero che i nostri nonni, mediamente molto più poveri di noi, avevano una prole più numerosa.

Cosa risolve il puzzle? Semplice, l’ invidia sociale. Basta tenerne conto per riordinare le tessere.

La vita dei nostri nonni era quella, punto. Non cambiava poi molto se avevi due o quattro figli: un piatto di polenta a mezzodì, la minestra la sera, i mandarini a Natale, la scuola del paese, niente vacanze, massimo una gita a Porlezza; per il resto era lavoro in campagna e gioco nei boschi per i più piccoli.

A quel punto tra due e quattro sceglievi quattro e ti facevi pure la pensione.

La società contemporanea offre invece stili di vita alquanto differenti, un ventaglio di scelte molto ampio. Con la libertà arriva l’ invidia e volendo “dare il massimo” alla nostra famiglia possiamo concederci al più un figlio o due.

Il bimbo diventa un po’ il nostro supereroe.

Alexandre Nicolas supeeroi fetali

In Europa, si sa, il tarlo dell’ invidia sociale e del conformismo è particolarmente laborioso. Tutti vogliono dare “il massimo” in termini di vacanze, di scuola, di cure mediche, di tempo libero, di accessori, di abbigliamento… Se non “dai il massimo” ti senti “lasciato indietro” e ti sale l’ ansia da status, il risentimento, il livore, la confusione mentale;  cominci a immaginare complotti, a cacciare le streghe, a stanare gli untori, a perseguire la speculazione, a demonizzare la ricchezza, a marciare ad Assisi, a fare scioperi generali…

Controprova: negli USA, paese in cui la parola “europeo” è un insulto corrosivo equivalente a “rosicone”, fanno tutti molti più figli in condizioni che sono anche più precarie delle nostre.

Soluzioni: 1. Autoritarismo (imponiamo un unico stile di vita favorendo l’ egalitarismo a suon di sussidi). 2. Curare l’ invidia sociale.

La prima via è una scorciatoia allettante, e infatti l’ Europa sembra aver imboccato proprio quella sovvenzionando le famiglie affinché possano “dare il massimo” a più figli.

E le nazioni europee che non possono permetterselo (per esempio noi), semplicemente restano col figlio unico.

Un’ idea della seconda via, quella in salita, la danno i ciellini stessi realizzando comunità con stili di vita alternativi che neutralizzino l’ ansia da status e da conformismo. Lì dentro puoi avere cinque figli perché se poi ti manca lo zainetto griffato o la settimana bianca non ti senti un marziano. Pazienza, porterai a scuola il borsone liso del papà e farai le “vacanzine” di gruppo a Passo Rolle. Il tutto accompagnato dalla questione dell’ identità: averla è decisivo per stemperare la frenetica voglia di gregge.

 

 

 

 

venerdì 13 gennaio 2012

Espianto

Ligeti ha sempre voluto superuomini per interpretare la sua musica. E quando li trovava, andava su tutte le furie: non lo erano mai abbastanza.

Dietro l’ infantile capriccio si celava un risentimento: il suo teatrale odio verso lo strumentista, in particolare verso l’ uomo che si porta sempre dietro e fa capolino non appena preme un tasto, distende il diaframma o manipola una chiave. Un sentimento ostile col quale prolunga la sua opera.

Ha sempre aspirato ad espellere l’ “umano”, a superarlo: a volte verso l’ alto (con il teocentrico Lux Aeterna), a volte verso il basso (con lo stronzocentrico Grand Macabre).

Un tipo così appena ha potuto si è liberato dei musicisti in favore di ingegneri e programmatori. Sono loro le sue guide nel magico mondo della musica automatica, approdo ideale per una poetica del “disumano”. Vera Florida per le mummie in pensione.

Pur di espiantare gli organisti dall’ organo rinuncia a ben 19 tasti limitandosi ai 42 degli strumenti a manovella. Che meraviglia! Soprattutto perché nel pacchetto è allegato un organista con 42 dita che non sente mai l’ esigenza di andare al gabinetto sul più bello o di dover dire la sua sull’ esecuzione del pezzo chiamando questa asfissiante rottura “preziosa collaborazione”. Al diavolo le “preziose collaborazioni”.

No! Mai più inani tavole rotonde sull’ importanza del gesto esecutivo! Solo contemplazione e flessibili schede che mute si lasciano docilmente perforare.

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Qui di seguito è invece un malcapitato piansta a essere espiantato: sloggia altezzoso dai velluti del seggiolino, tira su i suoi quattro stracci e prende la porta offesissimo, proprio lui che domava con tanta sicumera anche il terzo di Rachmaninov. Lo seguono due code nere più indignate che inamidate.

Dalla porta di servizio entra mesto mesto in salopette il perito Itis a sistemare i cavi nella cordiera.

 

Genealogia: Conlon Nancarrow

Gyorgy Ligeti – Mechanical music

p.s. congedo rock:

giovedì 12 gennaio 2012

La parola e il bias

Durante le vacanze ho visto un altro paio di film, innanzitutto il magistrale Segreti e Bugie di Mike Leigh.

La trama è semplice:

Sobborghi di Londra. Hortense (Marianne Jean-Baptiste), trentenne borghese di colore, alla morte della madre adottiva decide di scoprire chi sia la sua vera madre. Scoprirà con molta sorpresa che si tratta di Cynthia (Brenda Blethyn), sfiorita operaia bianca che vive con sua figlia ventenne Roxanne (Claire Rushbrook). La misera vita di Cynthia è allietata solo dalle visite che le fa il fratello Maurice (Timothy Spall), fotografo sposato ma senza figli. Dopo l'incontro, tra le 2 donne piano piano nasce una profonda amicizia che rappresenterà per Cynthia un nuovo motivo di felicità (ebbe la bambina ad appena 15 anni) e per Hortense un'occasione per capire una realtà diversa dalla sua. Ma i segreti non possono durare a lungo e ad un pranzo in famiglia la verità verrà fuori, non senza drammi. Sarà l'occasione per confrontarsi e demolire un muro di "segreti e bugie" e per riacquistare la serenità...

Hai voglia a considerare la parola un semplice nominalismo che plana tra noi in forma di fiato.

Altro che fiato, le parole ci costituiscono, sono le nostre ossa.

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Ci sono parole che, al solo pronunciarle, resuscitano vite: chi è più a suo agio con le tensioni del linguaggio religioso se ne renda conto grazie alla visione di Ordet (nota verde), chi predilige quello psicologico della modernità non si perda invece Segreti e Bugie.

Maurice cerca la sua parola consapevolmente, ma il vero spettacolo è fornito da chi agisce come sospinto da forze esterne, come Cynthia… o Johannes.

Maurice (con Anna) deve dire: “non possiamo avere figli”.

Cynthia deve dire: “lei [Hortence] è mia figlia”.

Riusciranno a dirlo e a svoltare accorgendosi che nessun fulmine cadrà dal cielo per incenerirli. Il finale è una specie di “… e vissero tutti felici e contenti…” ma dove la felicità consiste nel prendere il tè sulla sdraio coi propri cari nel cortiletto delle case popolari scaldati da un tiepidissimo sole inglese.

Ci si convince proprio che se il multiverso esistesse realmente, probabilmente le nostre “vite parallele” sarebbero separate tra loro dalla sottile ma tenace intercapedine di una parola. Basta pronunciarla per saltare dall’ altra parte.

L’ altro film era “Un maledetto imbroglio”. Pietro Germi lo ha tratto dal romanzo “Quer pasticciaccio brutto di via Merulana”. E’ del 59, in bianco e nero, ma dal ritmo sembra un film della Pixar dell’ anno prossimo.

Come molti altri gialli sfrutta un ricorrente bias cognitivo: chi perde al gioco della vita deve aver fatto qualcosa per meritarselo.

In effetti, dopo una rassegna di personaggi squallidi, scopriamo che il colpevole, colui al quale Ingravallo dovrà necessariamente rovinare la vita, è anche il soggetto più dignitoso ed empatico.

mercoledì 11 gennaio 2012

Un po’ di serietà!

Robert Baird – Categorie per la storia delle religioni
Lo studioso è alla ricerca di una definizione per il termine “religione”.
religion
Lo animano due motivi.
1. I suoi insigni colleghi ignorano volentieri i problemi definitori inclini come sono ad assumere, più o meno consapevolmente, che il termine si spieghi da sé. In un certo senso è come se protendessero il dito dicendo: “per religione intendo quello”. George Foot Moore, Mircea Eliade, K.L. Bellon, Rudolf Otto, A.E. Haydon, W.C. Smith… tutti su quella linea. Ma Baird non ci sta.
2. Respinge anche l’ affidamento all’ etimo e il rinvio che ne fa, tra gli altri, C.J. Bleeker, studioso per cui la religione è sempre stata ed è tutt’ ora il modo in cui l’ uomo organizza la sua relazione con il trascendente.
Interessanti i motivi della presa di posizione di cui al punto 2: una definizione del genere eliminerebbe dal campo religioso non solo la tradizione Pali come pure il Confucianesimo, ma anche il Comunismo, il Nazionalismo e il Laicismo…
Avete capito bene: comunismo, nazionalismo, laicismo eccetera devono rientrare a pieno titolo tra le religioni e, quindi, occorre una definizione che le inglobi.
La soluzione migliore è rinvenuta nel lavoro del teologo Paul Tillich il quale propone di interpretare la religione come “ultimate concern”.
Religione è tutto cio’ che costituisce “preoccupazione ultima”.
Dicendo “ultima” si evita di introdurre elementi metafisici. “Ultimo” è cio’ che esiste di più importante al mondo per la persona o per il gruppo di persone in questione.
Corollario: solo il nichilista puo’ dirsi ateo. Per lui non esiste niente che possa considerarsi “ultimo”, una cosa vale l’ altra.
Ma direi di più, nell’ apologetica di Tillich la religione non puo’ essere rifiutata con “serietà ultima” perché la “serietà” è già di per sé una forma di religione.
Con una definizione siffatta lo storico delle religioni è finalmente legittimato a occuparsi anche di fenomeni quali il comunismo, il laicismo, o il terrorismo; non solo, anche il fanatismo che circonda i cantanti pop, tanto per dire, rientra nelle sue competenze! L’ intuizione è felice poiché gli strumenti a disposizione sembrano idonei a gettare luce anche su quei fenomeni!
Il passaggio dalla capanna dello sciamano alla cameretta della groupie appare, in effetti, compiersi senza traumi di sorta.

martedì 10 gennaio 2012

Piacevoli scompensi

Billy Wilder – L’ appartamento

C’ è chi pensa che la musica perfetta sia quella “con tutte le note al posto giusto”.

Ma se le note avessero un loro “posto assegnato”, le musiche sarebbero alquanto prevedibili.

Senonché, il compositore di vaglia, nell’ assemblare il capolavoro, anticipa e ritarda ad arte le “soluzioni naturali” in modo da creare piacevoli e arguti spiazzamenti che si affretta a “compensare”, piccole e continue sorprese all’ interno di una struttura consolidata che lusinga e rassicura l’ ascoltatore.

Non so se questa visione tenga, di sicuro non sembra del tutto estranea quando il focus è sull’ arte di genere: il genere impone dei vincoli e l’ artista è chiamato quindi ad aggirare in qualche modo la pedanteria del prevedibile.

Per operare in corpore vili passiamo dalla musica al cinema prendendo a prestito una scena da “L’ appartamento”, film che mi è capitato di vedere nel corso delle vacanze.

Siamo al cospetto di una potente macchina hollywoodiana nel “ramo” commedie brillanti, un ingranaggio lubrificatissimo e inesorabile.

La storia segue un canovaccio scontato e il finale è intuibile già dopo un quarto d’ ora di visione. Non sono esattamente le premesse al “capolavoro”, eppure…

Chi non conoscesse la trama puo’ farsene un’ idea su Wikipedia:

Il contabile C.C. Baxter, dettoCiccibello, impiegato in una grossa compagnia di assicurazioni americana, riesce ad accattivarsi le simpatie dei dirigenti della sua azienda prestando loro, per scappatelle extraconiugali, il piccolo appartamento ove vive (durante i brevi incontri amorosi dei temporanei "subaffittuari" Baxter va a spasso per la città). Tutto procede felicemente finché Baxter non si innamora di Fran Kubelik, graziosa lift-girl, una delle signorine in uniforme che manovrano i grandi ascensori del palazzo aziendale. Presto però egli scopre che questa è l'amante del capo del personale, Jeff D. Sheldrake,[2], il quale, dietro consiglio di un collega, si rivolge proprio a lui per ottenere anch'egli l'uso dell'appartamento alla bisogna amorosa. La riluttanza di Baxter viene vinta grazie ad una promozione piuttosto cospicua (da anonimo contabile, il cui posto di lavoro è un'altrettanto anonima scrivania fra le tante allineate in più file nel salone dei contabili della società, ad assistente del capo del personale, con un ufficio tutto per lui). Ma qualcosa va storto e durante un incontro fra Jeff e Fran nell'appartamento di Baxter, quest'ultima apprende che l'amante non ha alcuna intenzione di lasciare la famiglia per sposarla, come le aveva promesso. Amareggiata ed umiliata, la povera Fran decide di suicidarsi proprio in quell'appartamento: buon per lei che Baxter giunga in tempo a salvarla.[3] Quando però l'impiegato comunica a Sheldrake l'accaduto, la telefonata viene intercettata da miss Olsen, segretaria ed ex-amante del dirigente, che - per vendetta e gelosia - informa di tutto la moglie di Sheldrake la quale, a sua volta, caccia di casa il marito. L'uomo riprende a questo punto la relazione con Fran e chiede a Baxter la chiave dell'appartamento per trascorrervi la notte del 31 dicembre con la ragazza. Baxter però, presa coscienza… di doversi finalmente comportare da "uomo", rifiuta e si licenzia. Fran apprende la notizia durante la cena di Capodanno e, resasi conto di quel che prova, pianta in asso Sheldrake e - in una memorabile scena nelle vie di New York - raggiunge correndo l'appartamento di Baxter dove i due si dichiarano il loro amore.

A noi qui interessa l’ inevitabile snodo evidenziato in grassetto.

Sappiamo già da tempo che il “genere” richiede a Ciccibello, prima della fine, una levata d’ orgoglio: rialzerà la testa rinunciando ai suoi privilegi pur di non andare troppo oltre sulla via della meschinità, che pure, essendo un “uomo qualunque” (altra richiesta del genere), aveva imboccato e percorso fino a un certo punto con disinvoltura.

Finalmente la scena attesa ha luogo verso la fine della pellicola: di fronte alla richiesta piena di sottointesi da parte del boss Sheldrake, Ciccibello sembra dapprima ribellarsi (ci siamo!) per poi cedere di schianto consegnando le chiavi dell’ appartamento (rinvio). Dopo una flebile resistenza le butta rassegnato sulla scrivania e noi spettatori pensiamo che la riscossa tanto attesa sia rimandata. Poi si reca nel suo ufficio attiguo immergendosi in piccole attività (anticipo) che non riusciamo a decifrare e comunque non calcoliamo come rilevanti: chiude cassetti, libri contabili, apre lo spogliatoio… Sopraggiunge trafelato Sheldrake il quale protesta: quella che ha in mano non è la chiave dell’ appartamento! Ma certo che non lo è, visto che trattasi della chiave bagni-dirigenti (ritardo). Una sostituzione non gratuita poiché in una delle scene precedenti l’ accesso al bagno-dirigenti del ventisettesimo piano veniva descritto come una sorta di status symbol. Col dimesso annuncio della sostituzione allo stupefatto Sheldrake, Ciccibello adempie al suo compito di uomo, tutti noi ci compiacciamo come quando da piccoli, nelle sale del cinema parrocchiale, il cattivo veniva steso da un diretto del buono. Ora, in chiaro ritardo, sappiamo decifrare anche la misteriosa attività di Ciccibello: sta confezionando il tipico scatolone dei licenziati americani visto che conosce a memoria la sorte di chi non si piega a certe regole.

Tutto quel che doveva avvenire avviene. Tutto quel che ci aspettavamo arriva. Solo che arriva un attimo prima o un attimo dopo rispetto a quando era atteso. Il regista ci coccola mantenendo fede ai vincoli del genere ma ci prende anche in giro facendo accadere sotto i nostri occhi cose che noi siamo ancora lì ad aspettare. Uno spiazzamento continuo e non traumatico che trasforma un film da storia scontata a piccolo capolavoro. Sì perché di “soluzioni” del genere devi affastellarne parecchie per trasformare una storia banalotta in una commedia brillante. Talmente brillante da rilucere ancora a mezzo secolo di distanza.

ti amo

Scena finale:

Lui: io l’ amo miss Kubelik

Lei: … tre… quattro… fa' le carte e poi ridimmelo.

lunedì 9 gennaio 2012

Tristeza não tem fim

Inutili guantoni

La mentalità libertaria è mal vista in gran parte degli ambienti cattolici, difficile nasconderselo; sempre più spesso preti e perfino vescovi, a volte addirittura dal pulpito, non esitano a lanciare strali e condanne esplicite. Avranno le loro ragioni, ma certo anche molti falsi miti contribuiscono a intralciare la comprensione reciproca. I più ostinati sono i soliti sei.

Mito 1: i libertari sono libertini.

Il libertario, in quanto tale, è solo scettico verso la tassazione dei "vizi".

Mito 2: i libertari odiano i poveri.

In realtà si prende sul serio il principio per cui “la legge è uguale per tutti”.

Mito 3: i libertari trascurano la solidarietà.

In realtà solo quella fatta con le risorse altrui. Per il resto la generosità è il pilone centrale della società libertaria.

Mito 4: i libertari sostengono la libertà solo perché fa loro comodo.

Le soluzioni libertarie sono entrate nelle accademie da un bel po’ di tempo e sono quindi soggette al vaglio del dibattito scientifico.

Mito 5: i libertari perseguono i cristiani.

Si predica invece una neutralità dei governi, per quanto possibile, rispetto alle religioni, in modo da non falsarne la concorrenza.

Mito 5: i libertari non sono pro-life.

Il dogma centrale dei libertari sancisce l’ inviolabilità della persona: una buona base per la difesa del nascituro.

Tirando le somme, un libertario potrebbe essere anche un libertino, abortista, avaro, opportunista, odiatore di poveri e di cristiani… potrebbe essere anche calvo e con i brufoli, ma sarebbe tutto cio’ indipendentemente dal suo credo ideologico.

Non diamo retta al gatto e alla volpe, trascuriamo il consiglio dei sobillatori e rifiutiamoci di indossare i guantoni.

Guang Yang

p.s. Ryan McMaken approfondisce.

martedì 3 gennaio 2012

Perchè in Italia non si fanno bambini

La risposta più plausibile:

Nelle zone ricche del mondo a legami familiari forti (la sponda Nord del Mediterraneo e l’Asia centrale), la bassa fecondità è anche oggi il grimaldello utilizzato dai genitori per garantire ai figli – o all’unico – figlio – una condizione sociale migliore… In questi paesi non è vero che le coppie non vogliono avere più figli: all’opposto, molte coppie vivono con sofferenza la rinuncia ad avere un figlio in più. Il fatto è che i bambini con più fratelli sono penalizzati dal punto di vista economico, godendo di opportunità assai inferiori rispetto ai figli unici e a chi ha un solo fratello…

Ancora:

contrariamente all'opinione diffusa, la famiglia italiana non si sta sfaldando; gli italiani fanno pochi figli non per basso reddito o carenza di servizi ma perché per i figli «le coppie italiane vogliono il "massimo" e quindi non accettano servizi di basso livello o situazioni abitative inadeguate»… leggi tutto.

Dunque i nostri nonni (che erano molto più poveri di noi) facevano molti più figli non perché avessero una più spiccata voglia di famiglia ma perché meno interessati al benessere materiale?

Sono autorizzato a parlare di egoismo e avidità crescenti?

Il libro di Della Zuanna è interessante anche quando tratta dei bamboccioni. Come giudicarli?

Come volete, of course, basta che lo facciate sapendo che:

I bamboccioni italiani vivono con i genitori non, come si pensa, per sfuggire alla povertà ma per vivere appieno in condizioni di agiatezza

Cose da non credere.