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giovedì 3 dicembre 2015

Perché non mi piace il vino

Al desco natalizio prima o poi capita sempre che una bellicosa pattuglia di cognati/suoceri - usmando e sorseggiando - attacchi a commentare il vino con un gergo scelto che mi disorienta, e allora fioccano accenni al metodo classico e a quello champenoise, poi saltano fuori rinvii al Merlot e al Cabernet, si passa di filata ai distinguo su Nebbiolo e Barbaresco mentre aleggia pressante il misterioso legame tra i vitigni di Barolo e Roero; non manca mai una digressione sul Lambrusco Monte delle Vigne per chiudere con i dissensi sull'acidità del Gregoletto annata 91 o sull'effervescenza del Verdisio 98.
In queste occasioni mi faccio piccolo piccolo e il mio unico contributo consiste nel non rifiutare (lo farei volentieri) il calice che mi viene offerto per accompagnare la lasagna, mi limito a dire "poco, grazie" e ad alzare una mano allarmata non appena la prima goccia del sanguigno liquido impatta sul cristallo del bicchiere. Poi tracanno in evidente sofferenza ma stando ben attento a non prosciugare il bicchiere al fine di scongiurare l'inevitabile rabbocco in tempo reale.
amelia fais harnas(macchia divino rielaborate da Amelia Fais Arnas)
Ma perché il vino non mi piace? Ma soprattutto: come è mai possibile che agli altri piaccia così tanto?
Scrivo questo post perché recentemente ho come la sensazione di essere giunto a una risposta esaustiva, una sensazione accresciuta imbattendomi nella storia... del peperoncino.
Una storia antichissima e interessante: questa pianta, da sempre preda di bestie buongustaie per il suo gusto appetitoso, sviluppò in tempi remoti delle difese chimiche di prim'ordine basate sulla capsacina (o qualcosa del genere), una sostanza in grado di renderne ripugnante il gusto producendo una sensazione di bruciore.
Fu un successone, la folla di roditori che ne andava ghiotta si dileguò indignata, rimase giusto qualche uccello, ma quelli, disperdendone il seme, più che predatori erano fecondatori e quindi bene accetti.
L'uomo reagì diversamente dai topi, adottò una strategia alternativa: cambiò i suoi gusti e decise così di farsi piacere il peperoncino nella sua nuova versione.
Si dà il caso che l'uomo possieda un'arma che i roditori non hanno: la cultura. Con quella puo' mutare i suoi gusti. Non che sia una bacchetta magica onnipotente, tuttavia è incredibile la plasticità delle nostre preferenze in mano alla cultura.
Come fa ad operare? Non è facile descriverlo, forse giova guardare ai bambini: a loro il peperoncino ripugna, come è giusto e naturale che sia. Poi crescendo, notano che il supereroe che vive con loro (ovvero il papà) lo mette nella pastasciutta che divora felice. Notano poi che ce n'è un consumo abbondante anche in quelle cene serali piene di ospiti adulti a cui loro non sono ammessi nonostante a quanto pare ci si diverta un sacco, almeno giudicare dalle risa stridule della mamma che giungono fino in cameretta (che strana la mamma, non ride mai così!). Arrivata l'età giusta partecipano sempre più di frequente ad eventi post-carosello, e quando viene servito lo spaghetto di mezzanotte accettano di buon grado il condimento "dei grandi": stringono i denti, la presenza di una sensazione di schifo è  innegabile ma il piacere di stare in quel posto in quel momento lo sommerge e lo annulla. Coi pari poi se mancasse un adeguato condimento alle spaghettate intorno al fuoco sarebbe come se mancasse l'accenno di barbetta sotto il mento. Man mano che la cosa si ripete la percezione della ripugnanza sfuma e in una metamorfosi misteriosa e si fa tutt'uno con il piacere del nuovo status adulto finalmente acquisito in società. Alla fine il peperoncino piace, piace senza più sfumature, piace senza più ambiguità, senza riserve, senza sociologismi di sorta: il peperoncino è buono, oggettivamente buono punto e basta. La cultura umana ha fatto il suo corso sgominando la chimica vegetale.
Le dinamiche del peperoncino si ritrovano un po' ovunque. Voi non lo crederete ma io conosco addirittura gente a cui piace "correre". Sì "correre", avete sentito bene, quella roba che sudi e fai una faticaccia. Ebbene, a loro piace. Non è solo una questione di forma fisica, gli piace proprio, vanno a fare anche le gare sobbarcandosi spostamenti e bruciando week end preziosi. Evidentemente la cultura ha fatto il miracolo di invertire i gusti trasformando il dolore in piacere. E parlo di un piacere autentico.
C'è gente a cui piace andare in palestra per infliggersi delle auto-punizioni, magari sollevando inutilmente dei pesi che trova in quei luoghi di tortura: in loro la cultura ha trasformato il dolore in piacere. E si tratta di un piacere vero, non ho motivo di dubitarne.
Ho conosciuto gente che alla domenica si butta in una piscina e fa 50 vasche. Lo fanno per il piacere di farlo e vi assicuro che non sono folli come sembrerebbe a giudicare dalla semplice descrizione di questo loro comportamento inconsulto. Il loro piacere ha tutta l'aria di essere oggettivo.
Le mie amiche  cattoliche partorienti, tanto per dirne una, non faranno mai l'epidurale, hai voglia a dirle che non c'è rischio: il fatto è che anche in loro la cultura ha trasformato il dolore in piacere. Ed è un piacere vero.
Conosco gente a cui piaceva la musica post-weberniana, quella roba strutturalista sbocciata a Darmstadt che se per caso accostavi due accordi consonanti, apriti cielo, venivi  cacciato tra l'ignominia generale e accompagnato all'uscita dalle forze dell'ordine. Non erano degli ipocriti, erano realmente coinvolti nella cosa. Il potere della cultura aveva trasformato la sofferenza acustica in realizzazione artistica.
Arnold Messner è un tale che ha scalato tutti gli ottomila traendone una gran soddisfazione. Non è un'impresa facile, rischi la vita, ti devi sottoporre ad una disciplina disumana ma in lui tutte queste disgrazie auto-inflitte si sono trasformate magicamente in piacere puro. E questo grazie alla cultura.
Il sesso è un ambito in cui la cultura lavora un casino: quello che per molti è dolore diventa piacere per altri e viceversa.
Io stesso ho una storia personale da raccontare e riguarda il mio rapporto con il caffé.
Il caffé è la tipica bevanda schifosa, qualsiasi persona priva di una cultura adeguata la sorseggia arricciando il volto per il disgusto. Prendete il bambino, per esempio, ovvero il tipico soggetto depurato da ogni influenza culturale, il tipo più dotato nell'osservare le nudità dell'imperatore: una goccia di caffé sulla sua lingua è sufficiente per ottenere facce divertentissime sul leitmotiv degli occhi storti, e lo spettacolo puo' durare interi minuti.
Ancora a vent'anni il mio interrogativo occulto era: ma perché la gente non si limita a bere Coca Cola come è naturale che sia e butta il caffè nel cesso tirando lo sciacquone? Boh. Nel mio piccolo facevo così orgoglioso della mia coerenza razionalistica (e goloso della zuccherosa prelibatezza).
Poi ho cominciato a lavorare. Nella pausa-caffè la gente consuma prevalentemente... caffè, appunto, e io lì col mio bicchiere di Coca a spiegare in lungo e in largo che la Coca è buonissima, che la "frustata" del caffè al sistema nervoso è un mito da gonzi  eccetera eccetera. Dopo qualche mese, preda di un'evidente crisi di sfiducia nel mio prossimo, ho smesso di dare spiegazioni, ero semplicemente un bambinone con la sua Coca in mezzo a persone serie con i loro caffè ristretti. Dopo qualche mese anch'io avevo il mio caffè in mano e lo bevevo arricciando il naso. Passa qualche altro mese e smetto di arricciare il naso. Alla fine, ecco la metamorfosi: il caffè mi piace. Poi mi piace un casino, non vedo l'ora di scendere a farmene uno, non posso farne a meno, me lo bevo anche senza zucchero. La cultura ha avuto il sopravvento compiendo anche su di me il suo miracolo.
Bene, il mistero del perché non mi piaccia il vino è ora più chiaro: non ho mai incontrato la cultura del vino, cosicché, da barbaro quale sono, è chiaro che una bevanda tanto disgustosa mi disgusti, da soli è impossibile cambiare le proprie preferenze trasformando le schifezze in prelibatezze. Se voglio apprezzare il vino non mi resta che fare il primo passo e unirmi alla pattuglia di cognati/suoceri "approfondendo" la sua conoscenza e lasciando che la cultura compia su di me il suo solito miracolo.
Nel frattempo mi sono chiarito meglio cos'è la "cultura" (che saperlo non fa mai male): un sistema di relazioni fondato sul prestigio sociale in grado di orientare le preferenze in modo che siano condivise.
P.S. la storia del peperoncino l'ho tratta da : The Secret of Our Success: How Culture Is Driving Human Evolution, Domesticating Our Species, and Making Us Smarter di Joseph Henrich

The secret of our success di Joseph Henrich - Robin hanson

The secret of our success di Joseph Henrich - Robin Hanson
  • Tesi: le preferenze variano
  • Peperoncino: piccante x difesa. La reazione dell uomo: ha cambiato gusti facendosi piacere la piccantezza
  • I bambini imparano piano piano ad apprezzarla imitando le xsone che ammirano
  • Idem x il vino: un gusto sgradevole che impariamo ad apprezzare grazie alla cultura
  • Correre è una faticaccia, eppure ai runners piace (sembra incredibile). Perchè? Per cultura. Idem sollevare pesi idem scalare montagne.
  • Virilità. Il duro ha reazioni anche corporee più adeguate alle minacce. La cultura è un arma incredibile
  • Come si diffonde cultura? Copiando i fighi.
  • Uomo: status seekers
  • La cultura internaluzza gli incentivi.
  • Sesso: la plasticità dei valori qui è massima: quel che x qlcn è dolore x altri è piacere
  • Le preferenze cambiano ma è dura cambiarle da soli
  • Conseguenza: nn preoccupiamoci troppo delle generazioni future
  • Conseguenza: nn presumiamo che gli altri siano come noi
  • Avvertenza: la tesi nn nega l esistenza di un limite
continua

giovedì 19 novembre 2015

The secret of our success di Joseph Henrich - terzi


The secret of our success di Joseph Henrich - terzi
  • l'evoluzione ci predispone a dirigere la ns attenzione verso alcune persone
  • great divide: conoscenza personale / conoscenza (da trasmissione) culturale. la seconda vince 
  • effetto collaterale: i progetti della singola intelligenza falliscono
  • soluzione: predisporre un meccanismo che operi tramite variazione e selezione
  • imo: ce l'abbiamo si chiama mercato
conclusione

venerdì 8 ottobre 2010

Humanomist

Possiamo spiegare la storia dicendo che ad un certo punto qualcuno ha avuto un' idea e il corso delle cose è mutato?

E' questa una spiegazione legittima?

Secondo lo splendido transenssuale Dreidre McCloskey, sì.

Le cause materiali non sono tutto e nelle dinamiche storiche s' insinua spesso un "ghost in the machine".

... We humanomists believe that humans are motivated by more than incentives...




Qui anticipa le sue conclusioni dettagliate nei due volumi in uscita che mettono a tema la Rivoluzione Industriale

A big change in the common opinion about markets and innovation, I claim, caused the Industrial Revolution, and then the modern world. The change occurred during the seventeenth and eighteenth centuries in northwestern Europe. More or less suddenly the Dutch and British and then the Americans and the French began talking about the middle class, high or low — the “bourgeoisie” — as though it were dignified and free. The result was modern economic growth... The outcome has falsified the old prediction from the left that markets and innovation would make the working class miserable, or from the right that the material gains from industrialization would be offset by moral corruption... The usual and materialist economic histories do not seem to work. Bourgeois dignity and liberty might... The correct explanation is ideas... The book tests the traditional stories against the actually-happened, setting aside the stories that in light of the recent findings of scientific history don’t seem to work very well. A surprisingly large number of the stories don’t. Not Karl Marx and his classes. Not Max Weber and his Protestants. Not Fernand Braudel and his Mafia-style capitalists. Not Douglass North and his institutions. Not the mathematical theories of endogenous growth and its capital accumulation. Not the left-wing’s theory of working-class struggle, or the right-wing’s theory of spiritual decline.

Yet the conclusion is in the end positive. As the political scientist John Mueller put it, capitalism — or as I prefer to call it, “innovation” — is like Ralph’s Grocery in Garrison Keillor’s self-effacing little Minnesota town of Lake Wobegon: “pretty good.”[2] Something that’s pretty good, after all, is pretty good. Not perfect, not a utopia, but probably worth keeping in view of the worse alternatives so easily fallen into. Innovation backed by liberal economic ideas has made billions of poor people pretty well off, without hurting other people.[3] By now the pretty good innovation has helped quite a few people even in China and India. Let’s keep it.

The Big Economic Story of our times has not been the Great Recession of 2007–2009, unpleasant though it was. And the important moral is not the one that was drawn in the journals of opinion during 2009 — about how very rotten the Great Recession shows economics to be, and especially an economics of free markets. Failure to predict recessions is not what is wrong with economics, whether free-market economics or not. Such prediction is anyway impossible: if economists were so smart as to be able to predict recessions they would be rich. They’re not.[4] No science can predict its own future, which is what predicting business cycles entails. Economists are among the molecules their theory of cycles is supposed to predict. No can do — not in a society in which the molecules are watching and arbitraging. The important flaw in economics, I argue here, is not its mathematical and necessarily mistaken theory of future business cycles, but its materialist and unnecessarily mistaken theory of past growth. The Big Economic Story of our own times is that the Chinese in 1978 and then the Indians in 1991 adopted liberal ideas in the economy, and came to attribute a dignity and a liberty to the bourgeoisie formerly denied. And then China and India exploded in economic growth. The important moral, therefore, is that in achieving a pretty good life for the mass of humankind, and a chance at a fully human existence, ideas have mattered more than the usual material causes. As the economic historian Joel Mokyr put it recently in the opening sentence of one of his luminous books, “economic change in all periods depends, more than most economists think, on what people believe.” Left and right tend to dismiss the other’s ideology as “faith.” The usage devalues faith, a noble virtue required for physics as much as for philosophy, and not necessarily irrational... Yet innovation, even in a proper system of the virtues, has continued to be scorned by many of our opinion makers now for a century and a half, from Thomas Carlyle to Naomi Klei... We will need to abandon the materialist premise that reshuffling and efficiency, or an exploitation of the poor, made the modern world. And we will need to make a new science of history and the economy, a humanistic one that acknowledges number and word, interest and rhetoric, behavior and meaning.


Il materialista Gregory Clark concede che gli incentivi spiegano ben poco:

Economics pulls in neophytes with a grand and exciting vision of the world: people are highly responsive to incentives, differences in incentives explain all major variations in wealth and poverty across societies, and easy institutional changes will create the incentives to launch a brave new world. This is the buzz that animates Freakonomics, the book, and now the movie. This is the vision that led Roland Fryer, Professor of Economics at Harvard University, to offer students in the New York, Chicago, and Washington, DC school systems “cash for grades.”

Deirdre McCloskey earlier in her career did stellar work advancing this program in economics — her virtuoso writings recruited me to the study of the history of economies. But having over many years considered the general problem of economic growth, and the specific puzzle of the timing and location of the Industrial Revolution, McCloskey has come to a stunning epiphany. This is that incentives explain very little of the huge gaps in wealth across the world. Growth is a cultural production, a society wide embrace of “bourgeois virtues.” Specifically, she claims, growth came because the activities of marketing, profiting, and innovating have become in our society uniquely respected, admired and praised. The rise of the Bourgeois Virtues has created societies such as those of Northern Europe, so primed for growth that even though the grabbing hand of the state is on every shoulder, people continue to produce and innovate.

I fully agree with McCloskey about the surprisingly poor ability of incentives alone to account for growth. In order to hold on to the central idea that the 10,000-year delay in the Industrial Revolution from the first appearance of settled agriculture was created by a lack of incentives, economists have to maintain the collective fiction that all societies before 1800 were run along the lines of Kim Jong-Il’s North Korea. Yet, in case after case, we find, deep in the 10,000 years of economic stagnation, fully incentivized market societies.

Go to any village in Suffolk in England in the years of the Poll Tax, 1377-81 and you will find in the tax lists an abundance of traders, craftsmen, and merchants.[1] Go to the records of Oxford University in 1500 and you will find the descendants of those traders and craftsmen, revealed by surnames such as Smith and Baker, had become within a few hundred years nearly fully incorporated into the elites of medieval society. Go to Paris in 1300 and you will find living cheek by jowl with the locals Scots, English, Italians, Flemish, and Jews. Medieval cities were hives of enterprise and industry, taxed lightly by kings fearing to kill the golden goose. London, among others, was almost as polyglot in 1300 as it is today...


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