Genesi del radical chic
Il radical chic vive nel nostro mondo, si comporta come noi, viaggia quanto noi e consuma anche più di noi.
Ma cosa lo distingue da noi – erre moscia a parte?
Il senso di colpa. Lui, diversamente da noi, fa tutto struggendosi nel senso di colpa.
Il suo mondo è informato alla “tirannia della penitenza”.
Fa suo con entusiasmo il motto di Jules Michelet: “ho bevuto troppo sangue nero dei morti”.
La vergogna permea la sua visione del mondo, vergogna di se stessi, vergogna di essere felice, di amare e di creare. È necessario sentirsi colpevoli. Presidia giorno e notte il “confessionale laico”, il peggiore di tutti.
Se il disprezzo verso di sé è pari a 10, il disprezzo verso chi non si disprezza è pari a 100.
Le nazioni occidentali sono le prime ad abolire la schiavitù? Siano anche le sole da mettere sotto accusa, siano anche le uniche a “riparare”! La passione del radical chic è quella di imputare i crimini solo a chi se ne è già pentito.
La sua è una denuncia meccanica dell’occidente. Plaude a una rivoluzione fondamentalista o a un regime illiberale, si esalta davanti alla bellezza del terrorismo o sostiene un gruppo di guerriglieri solo perché contestano la logica imperialistadell’occidente.
Indulgenza per le dittature straniere, intransigenza verso le nostre democrazie.
È portatore instancabile di un nuovo conformismo fondato sul dovere della penitenza e sulla macerazione nella vergogna.
Ricorda certi atei che bestemmiano Dio per meglio resuscitarlo.
La colpevolezza gli piace. Si barrica dietro la facciata maledetta del criminale perpetuo per mantenere più facilmente le distanze dai problemi reali. C’è qualcosa di frivolo nel suo desiderio di fustigazione.
I crimini commessi in passato ci intimano di tenere la bocca chiusa. Nel riserbo e nella neutralità troveremo la nostra redenzione. L’occidente buono è quello della vecchia Europa che si rintana e tace, quello cattivo è quello degli Stati Uniti che intervengano e si immischiano in ogni cosa.
Il mondo intero ci odia, e noi ce lo meritiamo. La storia, del resto, è costellata dai cadaveri che abbiamo disseminato ovunque.
Pensa senza sosta a quel “mostruoso e incomprensibile cataclisma” che fu, per una tanto larga è innocente frazione dell’umanità, lo sviluppo della civiltà occidentale.
È probabile che l’occidente abbia potuto produrre deicomputer soltanto perché da qualche parte nel mondo la gente moriva di fame e di desideri.
I suoi ideali passati sono falliti, ed è proprio il fallimento di queste utopie concrete a spiegare il risorgere di un pensiero all’improvviso liberato dalla necessità di confrontarsi con il reale.
Ogni passo falso dell’Occidente… se l’è voluto. Il terrorismo ci colpisce? È perché siamo colpevoli.
Così come esistono predicatori di odio nel l’islamismo radicale, esistono predicatori di vergogna nelle nostre democrazie. I terroristi ci colpiscono ma tutti noi siamo terroristi potenziali. Tutto questo sangue in fondo è solo un regolamento di conti tra stati canaglia.
Sulle sue insegne campeggia il Salmo XVIII: “O Dio, assolvimi dalle colpe che ignoro e perdonami quelle altrui”. Ha perso ogni speranza nel paradiso ma si aggrappa alla speranza della dannazione sulla terra.
Il suo ipercriticismo si tramuta in odio di sé e lascia alle proprie spalle solo rovine. Dal rifiuto dei dogmi nasce il dogma del tutto nuovo della demolizione.
Un orgoglio tutto particolare lo invade, l’orgoglio di chi si riconosce peggiore degli altri. Si sente rappresentante unico dell’occidente predatore che si cosparge il capo di cenere. Detesta l’occidente non tanto per le sue colpe reali ma piuttosto per il suo tentativo di emendarle
Un tipo del genere, naturalmente, anche se “inventato” oltre oceano, prolifera in Europa: non ci si dimentichi mai che l’Europa contemporanea non è nata, come gli Stati Uniti, da un giuramento collettivo che asserisce che tutto è possibile, è nata dalla stanchezza delle ecatombi, da una coscienza infelice e insicura.
Per lui la storia, o meglio la storia che ci riguarda, è un cesso intasato. Continuiamo a tirare l’acqua, ma la merda torna sempre a galla.
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Ecco, capire il radical chic significa capire l’origine di questo senso di colpa.
Liquidare il radical chic significa liquidare il suo senso di colpa.
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Mentre voi da ragazzini voi giocavate a pallone al parchetto, lui, il futuro radical chic, leggeva accanitamente Marx, intendo il Marx storico.
Si è fatto raccontare la storia del mondo moderno da Marx. Non lo ha solo letto, lo ha assimilato, capito e condiviso.
Ha capito magari anche – nei casi più illuminati – che Marx è superato come filosofo, che è irrecuperabile come economista, che è problematico come sociologo. Ma come storico no, come storico regge ancora benissimo. Come storico guai a chi lo tocca.
Queste letture sono alla base di alcuni pregiudizi duri a morire. Esempio, per lui dominio e sfruttamento sono la stessa cosa, non si discute neanche per un attimo.
Ma soprattutto ha imparato a figurarsi la ricchezza quale una casa costruita con i mattoni. Si mette un mattone sopra l’altro finché si ottiene un mucchio di mattoni, et voilà, ecco che si è creata della ricchezza. Si mette un euro sopra l’altro finché si ottiene un mucchio di euro e si è ricchi.
Noi occidentali saremmo ricchi perché il nostro mucchio di euro è più alto di quello africano. Tiè.
Per lui il capitalismo = accumulazione.
Quindi: 1) noi siamo ricchi perché capitalisti, 2) il capitalismo è basato sull’ accumulazione 3) l’accumulazione è indebita, 4) il nostro benessere è indebito.
L’errore fondamentale sta in 2), tutto il resto come come una fila di birilli.
Oggi tutti noi accettiamo e utilizziamo la parola “capitalismo” senza comprendere che questo termine ha natura denigratoria, che è stato coniato apposta per insinuare un senso di colpa.
Dovremmo sostituirlo con il termine più rigoroso di “innovismo” che descrive meglio il nostro sistema, ovvero un sistema in cui la ricchezza emerge da un “cambiamento testato sul mercato”.
Il sistema fuoriuscito dalla rivoluzione industriale – che ci elargisce la ricchezza di cui il radical chic si vergogna – non puo’ essere visto come caratterizzato dai commerci. I commerci sono sempre stati fra noi, c’erano nell’ America Lattina del 1800 e non erano certo sconosciuti nella Cina e nella Mesopotamia del 1800 avanti Cristo, ma se vogliamo ve n’è traccia anche 80000 anni prima della nascita di Cristo, nell’ Africa culla dell’umanità. I commerci affiancano l’uomo da sempre.
Weber e Braudel sono colpevoli di aver ingenerato l’equivoco per cui capitalismo=commercio.
La nostra ricchezza non deriva dai commerci e quindi neanche dallo sfruttamento commerciale di talune nazioni, il radical chic puo’ tranquillizzarsi.
Il capitalismo moderno diventa una novità unica nella storia dell’uomo solo se considerato come “innovismo”, ovvero come sistema che mette al suo centro l’innovazione e la distruzione creativa che l’innovazione comporta.
Altra presunta esclusiva del capitalismo moderno: la produzione su vasta scala, la grande impresa “a catena”. Tutto era già presente nell’antica Cina (lavorazione della seta) e nell’antica Roma (produzione dei concimi di pesce). E mi fermo qui, l’ipotesi non merita nemmeno di essere approfondita.
Quando capiamo che l’accumulazione di capitale era già tra noi dall’età della pietra mandiamo a ramengo tutta la narrazione di Marx a cui si è abbevera da sempre il radical chic
L’equivoco alligna anche tra gli economisti dello sviluppo contemporanei, come dice bene William Easterly, i quali sostengono che il terzo mondo ha bisogno di accumulare risorse prima di creare ricchezza.
Il capitalismo è innovazione+mercato. Non capirlo manda fuori strada.
L’innovazione da sola non basta poiché anche l’innovazione più geniale può risolversi in un puro spreco. Anzi, il cambiamento è un costo di per sé e se questo costo non è compensato va subito mollato. Il test di mercato è il filtro di selezione naturale del sistema: la gente è disposta a pagare per cambiare?
Nelle società capitalistiche non è il capitale a dominare ma le idee.
Mark Zuckerberg, Henry Ford, Andrew Carnegie dominano e hanno dominato senza che all’origine del loro dominio vi sia stato alcun accumulo di capitale. C’era solo un’idea.
Al centro del capitalismo sta l’imprenditore, con le sue idee e la sua disponibilità ad assumere dei rischi.
E’ lui l’eroe. E’ all’eroismo del borghese che dobbiamo il nostro benessere. Ma il radical chic il borghese lo odia.
Chiamare questo sistema “capitalismo” significa mettere al centro il capitale, il che è sommamente inaccurato. Al centro va messa l’intelligenza del borghese.
La parola capitalismo emerge nel tardo XIX secolo nella narrazione della sinistra europea, rinvia ad un mitologico indebito accumulo di capitale su cui si fondano tutti i nostri privilegi.
Secondo Marx la storia della rivoluzione industriale inizia lentissimamente con un accumulo che parte nel XVI secolo e che si è via via ingigantito fino a fruttificare di colpo con la rivoluzione industriale.
Le radici della nostra prosperità starebbero fisse in questo retroterra fatto di soprusi, sfruttamenti e appropriazioni indebite.
Gli storici che hanno rinvigorito e tramandato questa “fiaba” sono molti e a volte insigni, esempio: R.H. Tawney, Maurice Dobb e Chrisopher Hill.
Secondo costoro i primi capitalisti usavano il loro potere per opprimere i lavoratori, per schiacciare i salari riducendo alla fame la classe operaia. E anche per realizzare una “competizione sfrenata”.
Ma la competizione è un tratto tipico di tutte le società commerciali, per cosa erano nate le gilde medievali? Per fronteggiare una “competizione sfrenata” che non consentiva di sfruttare il consumatore. Pensare alla competizione come ad una peculiarità della rivoluzione industriale è un abbaglio.
Altro mito marxista: i salari da fame. La domanda è l’offerta determinavano i salari, non l’ avidità del capitalista. I lavoratori della Rivoluzione Industriale non hanno mai visto i loro salari abbassarsi e non si trattava di salari da fame, tanto è vero che accorrevano a frotte dalle campagne, sebbene le condizioni urbane fossero al limite del disumano, basterebbe pensare all’acqua potabile.
Al contrario, i salari sono sempre più aumentati nel tempo, così come il lavoro minorile è diminuito. E questo ben prima che si affermassero i sindacati o qualsiasi tipo di legislazione sociale in tal senso.
Gli errori del marxismo e dei suoi epigoni derivano dall’ aver dato troppo peso alla narrazione di brillanti dilettanti come per esempio Arnold Toynbee, una narrazione ripresa poi dai socialisti Fabiani e infine ricevuta dai marxisti sulla base di un telegrafo senza fili nel quale la mitologia è nel frattempo proliferata. Una storiografia amatoriale e senza basi solide che ha giocato un brutto tiro a molti storici, e di cui oggi paga le spese il radical chic. E’ un po’ come studiare la Gran Bretagna del XIX secolo leggendo solo Dickens: la storia ridotta a romanzo d’appendice.
Veronica Wedgwood racconta bene come la versione fiabesca di una rivoluzione industriale fatta da accumulatori che poi sfruttavano il loro potere si diffuse artatamente presso l’intellighenzia europea.
Da allora l’ anticapitalismo di certi accademici è prassi consolidata. Ancora recentemente ricordiamo bene la figura di Milton Friedman associata a quella di Pinochet, oppure quella di James Buchanan associata ai segregazionisti dell’Alabama. E a porre un freno non giova certa sciagurata retorica neo-liberista di stampo machiavellico-benthamita per la quale “greed is good”.
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L’ accumulo di capitale (senza innovazione) non spiega proprio nulla, d’altronde esiste da sempre nella storia, ed esiste non accompagnato da cio’ che vogliamo spiegare.
Persino Keynes – altro padre nobile dei radical chic -ammette che il rendimento dei capitali tende a zero in mancanza di rischi legati all’innovazione.
È stata una forza esterna a generare i grandi rendimenti del risparmio nei periodi successivi alla rivoluzione industriale, non quell’automatismo misterioso a cui pensano i “teorici del capitale”.
Ma c’è di più, il capitale cumulato a prescindere tende adeprezzarsi. È soggetto a una specie di entropia. Possiamo chiamarla obsolescenza.
Vele persino per un capitale prezioso come quello umano: lo sa bene il cinquantenne che si ritrova nell’epoca dei nuovi media con un capitale di conoscenze azzerato e da riconvertire.
Solo Dio è la capacità di innovare sono esenti da obsolescenza.
La capacità di concentrare e accumulare è sempre stata una specialità cinese. Non dobbiamo mai dimenticarci che in era premoderna quasi metà della popolazione urbana viveva in Cina. Come mai allora la Cina non ha mai fatto registrare ungrande balzo che abbia consentito la rivoluzione industriale?
Di fronte a tutti questi inciampi la narrazione radical chic rispolvera vecchie nozioni come quella di avidità: dal 1848 una singolare avidità si è impossessata dell’imprenditore europeo. Qualcosa di mai visto prima. La testa dell’uomo è cambiata.
Il primo a negare l’ipotesi e Max Weber: “… la nozione per cui la nostra era razionalistica e capitalistica sia caratterizzata da interessi economici superiori a quelli di altre epoche storiche passate è infantile”. L’istinto egoistico non si può negare ma è sempre esistito è sempre esisterà.
La chiave con cui spiegare il tesoro su cui sediamo è un’altra: un cluster di idee per il miglioramento da far testare al mercato. Grazie a questa formula siamo volati ovunque.
Nella società europea a un certo punto le idee hanno cominciato a fare sesso tra loro, come dice in modo eloquente Matt Ridley.
Il produttore di idee – non solo veniva magnificato dalla retorica dell’epoca – ma aveva accesso a una rete di comunicazione che lo connetteva con i suoi “colleghi”.
Questo “momento” singolare si realizzò intorno al 1800. Sta qui la soglia che cerchiamo.
Cosa è scattato? Facciamo un esempio illuminante: l’ ascia è un attrezzo rimasto fisso per un milione di anni. Confrontatela con il mouse del vostro computer, una roba che cambia di anno in anno. E’ l’immagine migliore per capire cosa differenzia l’eldorado in cui siamo entrati dalle epoche precedenti.
Chi usa ancora una macchina da scrivere? Chi guarda la TV in bianco e nero? Che fine hanno fatto le competenze del centralinista? E che fine hanno fatto le lauree in latino?
Tutto fagocitato dalla grande distruzione creativa, la nostra unica e vera benefattrice.
Non le colonie, non lo sfruttamento dell’operaio, non il cumulo avido di capitale, ma la tremenda distruzione creativa operata da idee valorizzate in una società borghese. A questo dobbiamo la nostra ricchezza, e di questo non dobbiamo nutrire alcun senso di colpa, semmai un senso di legittimo orgoglio.
Gli economisti sono i primi colpevoli se il radical chic è tra noi e ci disturba con la sua lagna. Gli economisti hanno sempre avuto pochissimo da dire sulle cause dell’innovazione. C’è tra loro una clamorosa mancanza di curiosità sul fenomeno cardine nella ricchezza delle nazioni. C’è nel loro lavoro una cocciutaggine inspiegabile nel forzare la storia in quel letto di procuste che è la teoria del capitale. Forse perché l’innovazione disturba, scompagina, mette disordine. Nella realtà come nei loro modelli asettici.
Cosa opporre ai radical chic? innanzitutto una nuova retorica. Parliamo di “Era dell’Innovazione” e non più di “Era del Capitalismo”.
John Rockefeller o Bill Gates sono i protagonisti della nostra era e non hanno mai accumulato un dollaro, hanno sempre accumulato idee.
O perlomeno, non hanno accumulato più di quanto non facessero già in Mesopotamia 2000 anni prima di Cristo, stando ai cuneiformi incisi nell’argilla e decifrati dagli archeologi. Oppure i greci ad Atene 500 anni prima di cristo.
Non hanno commerciato più di quanto non facessero già nel Medio Oriente con le conchiglie e le collane 6000 anni prima di Cristo, oppure gli aborigeni australiani per tutta la loro storia.
Il capitalismo è antico, il capitalismo ci accompagna sin dall’alba della civiltà. Quel che invece conosciamo solo noi è l’idea di innovazione sistematica e di distruzione creativa.
Gli altissimi tassi di risparmio dell’Italia nel 19esimo secolo non hanno mai portato un vero sviluppo. Quelli inglesi della stessa epoca, incomparabilmente più bassi, hanno creato un miracolo imitato da tutti. Di fronte a evidenze come queste chi puo’ dire ancora che il tasso dei risparmi – e quindi l’accumulo di capitale – sia la variabile chiave di tutta questa storia?
Non l’accumulo ma lo sviluppo tecnologico dobbiamo ringraziare. L’opera di Joel Mokyr è tra le più complete nel tracciare questa chiara distinzione.
Se non vi basta guardate all’America Latina e agli Stati Uniti, una terra depressa e l’altra sviluppata. Dove tracciare una distinzione significativa? Da una parte solo gerarchia e immobilità sociale, dall’altra parte parità di diritti ed esaltazione dell’uomo comune. A contare sono le idee, non il proprietario del cervello che le produce.
Laddove si sviluppa un senso di rispetto per l’uomo comune, che poi è il borghese, non c’è nemmeno sfruttamento neanche dell’operaio: la classe operaia statunitense è ferocemente antisocialista. Per capire fino a che punto vale la pena di consultare il lavoro di David Ramsey Steel.
Ma il radical chic è in buona compagnia nel suo disgusto, il borghese trafficone è da sempre disprezzato anche da Chiesa e Nobiltà. E c’è chi va oltre dopo aver notato questa comunanza, ovvero ipotizza che il disprezzo del radical chic verso il Borghese sia solo una modalità latente per accreditarsi verso Nobiltà e alto Clero. Insomma, una delle tante forme assunte dall’eterno complesso d’inferiorità verso la classe dominante.