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venerdì 15 aprile 2011

Crisi d’ abbondanza

La “crisi d’ abbondanza” cinge d’ assedio l’ intellettuale italiano che ora si sente fagocitato da cio’ che avrebbe dovuto stare sulla sua scrivania: le carte. Ora le “carte” assumono la becera neutralità della plastica, prendono vita autonoma, si moltiplicano in continue esplosioni demografiche fino a soffocare chi è designato a curvarsi su di loro. 

Giulio Ferroni è un caso paradigmatico, osserviamolo mentre come un ectoplasma passeggia tra i banchi di un festival del libro qualsiasi:

… mi metto a vagare per gli stand… gli incontri sono molteplici, spezzati, ripetuti, tra agnizioni e ricognizioni… solidarietà e ostilità… e libri dappertutto, proliferanti ammonticchiati, sparpagliati, in ordine geometrico o rizomatico, con tute le possibilità di conoscenza, di esperienza, di contemplazione, di curiosità, di esaltazione, di esibizione, di vitalità… cerco editori noti e meno noti, mi oriento e mi disoriento, perdo la strada e la ritrovo… scopro editori e attività che ignoravo ma che inevitabilmente dimenticherò… e vago, continuo a vagare… la costipazione e l’ eccesso di libri mi rende allucinato, per i colori, per i rumori… esco da questo luogo fisicamente stordito… con qualcosa che mi ottunde la visione, la capacità di controllo dello spazio…di fuori, sul piazzale d’ ingresso del Lingotto… ora si accalcano i taxi… tanti libri, tante automobili, tanto di tutto…

Giulio Ferroni – Scritture a perdere - Laterza

Sembra di vederle quelle suole consumate dall’ augusto professore in disarmo mentre orbitano intorno alla poltiglia della microerudizione festivaliera. Assomigliano un po’ a quelle che Umberto D si trascinava in giro per Roma.

Poverino, fa quasi tenerezza: sopra, gli occhi da leprottone abbagliato; sotto, bronzee borse che denunciano la vetustà di chi non puo’ più raddrizzare un legno storto.

Ovunque si rechi, il malcapitato s’ imbatte in “brusii crescenti”, in “scorrevoli nulla che avvelenano il paese”, in “paradisi imbecilli”, in “eccessi di produzione”, in “zapping nevrastenici”, in “modalità dilapidatorie”, in “gare d’ apparenza”, in “violenze disgreganti”, nel “piacere di unirsi al degrado”, nell’ “incanaglirsi del reale”  e altre insulsaggini di vario tipo al traino di “tortuosi e occulti poteri economici”.

Nella requisitoria contro l’ Italia “berlusconizzata”, in pochi scampano l’ autorevole frusta: giusto Zanzotto e il padre di Eluana, con quel loro riserbo fuori dal tempo in cui avvolgono pudici un sentimento da preservare contro l’ offesa di una realtà che vorrebbe ingurgitare e rigurgitare anche loro.

Non ne parliamo poi quando accende la TV e sbatte contro la voce da camionista di Maria De Filippi. Quella gara a prendere la parola senza esclusione di colpi, gli riporta in casa quel mondo sguaiato che credeva di aver chiuso fuori, un mondo che ci offende, un mondo…  dove anche l’ assuefatto operaio vuole il figlio dottore.

Inutile dirlo, il problema c’ è. Davanti al lato anti-estetico che ci rovescia addosso ogni giorno la cornucopia della modernità, possiamo reagire in due modi:

1. cowenianamente. Ovvero, mettendosi di buzzo buono, imparando a navigare sulla monnezza traendone le gioie di un zio Paperone in panciolle nel deposito. Affinare l’ arte della selezione, mettere a punto il pescaggio fior da fiore, specializzarsi nella costruzione di bussole… e ripassare di continuo il teorema Alchian Allen.

2. pasolinianamente. Ovvero, cercando il brividino dell’ apocalisse, maledicendo con alata invettiva l’ arricchito, fare l’ elogio ditirambico della deflazione invocando un salvifico depauperamento con annessa decrescita felice.

La prima soluzione è una gran iattura, c’ impone di lasciare le luci della ribalta per “lavorare duramente su noi stessi”, c’ impone di ri-formarci, di ri-educarci, di re-integraci.

Meno male che c’ è la seconda via. Grazie a lei possiamo concentrarci sugli altri, esigenza essenziale per incanalare al meglio quell’ impulso autoritario che cova sempre dentro un depresso. La decrescita è essenzialmente la decrescita altrui: ovviamente, la nostra non farebbe la differenza. Eppure “lui” non lo capisce, si ostina, non “rinuncia”, non “decresce” mai come vorremmo. 

Poco male, con l’ “altro” nelle nostre mani – come fosse plastilina - possiamo cambiare il mondo tra la digestione e la pennica stando qualche minuto in più a tavola dopo pranzo, bastano quattro pensierucci sulla “bellezza”. Rassicuro subito i perbenisti che hanno qualche problema di coscienza: non c’ è niente di più facile che imbellettare queste interferenze nella carne altrui, basta nobilitarle formulandole in termini di “cura ecologica” o di “scatto critico” o di…

Con l’ “altro” nel mirino potremo finalmente perorare una “causa persa”, quelle più confacenti all’ esibizionismo avvocatesco; potremo espettorare la nostra condanna quasi fosse un “do” che piove da una scena sapientemente illuminata. E noi saremo lì, su quella scena, condannati dalla lucidità, spettinati da un vento che ci piega senza sradicarci, sofferenti di un dolore consapevole, flebili come il lume dell’ ultima lucciola sul pianeta.

giovedì 19 agosto 2010

Uè uè

Il mondo culturale contemporaneo è ipertrofico ma dispersivo.

C' è molto di tutto: molta cultura, molti libri, molta spazzatura, molta qualità, molto pop e molto elitarismo con la puzza sotto il naso.

Il mondo letterario non fa eccezione.

Da un lato il regno dell' abbondanza ci rassicura e ci esalta, dall' altro ci angoscia facendo uscire il nostro lato reazionario.

E' diventata centrale la capacità di scegliere: passiamo più tempo a scegliere che a consumare.

Fortunatamente il teorema Alchian/Allen ci rassicura: la qualità oggi conviene pù che in passato. Il motivo? lo stesso per cui il vino italiano consumato dagli australiani è di qualità migliore rispetto al vino italiano consumato dagli italiani.

Ma intanto l' ansia di dover scegliere resta.

E' un po' come per il telefono: dopo la privatizzazione una ridda crescente di offerte e di alternative hanno offuscato il nostro orizzonte una volta felicemente sgomberato dalla penuria.

C' è perfino chi ha rimpianto il monopolio con recondite motivazioni molto simili a chi rimpiange l' infanzia: che bello quando altri sceglievano per noi!

La libertà porta con sè la responsabilità e per questo molti la odiano senza poterla odiare direttamente per via della buona stampa di cui gode.

Non è solo il tiranno a limitare le nostre libertà positive, anche la penuria puo' fare la sua parte: niente da mangiare, nessun menù da cui scegliere.

Alzare un peana al dittatore non è elegante, per contro un inno alla carestia è ancora concesso. E' così che l' angosciato dall' abbondanza puo' ancora trovare un idolo a cui rivolgersi.

L' "angosciato" che fa più chiasso in questo periodo è il critico letterario Giulio Ferroni, anche oggi scrive l' elzeviro del Corriere.

Ha le carte in regola per trattare il tema visto che l' ha già fatto oggetto di un famoso libro: "Dopo la fine" (Donzelli).

Ferroni non arriva a dire "che bello quando altri sceglievano per noi", si limita ad un più modesto "che bello quando non c' era granchè da scegliere".

Ferroni si occupa di narrativa, lamenta la "costipazione dei numeri", la "plateale impossibilità di fare il punto della situazione".

Le colpe vengono fatte ricadere sulla prepotente abbondanza, sull' elefantiasi della produzione.

Non ha mica tempo di leggere tutto, Ferroni.

Le rassegne critiche che cercano di isolare il meglio della nostra produzione letteraria, come quella recente curata sul supplemento del 24 ore, appaiono a Ferroni come altamente inaffidabili. Il motivo è esmpre lo stesso e potete leggerlo retrocedendo di qualche capoverso.

A Ferroni viene il capogiro se pensa a tutto quanto viene scritto e detto ogni giorno.

Il titolo dell' articolo suona così: "Critica e qualità uccise dal mercato".

Ma il contenuto dell' articolo non accenna alla qualità, è solo una testimonianza del disorientamento che subisce l' angosciato in preda ai suoi impulsi reazionari.

La gente ha voglia di leggere. E tutto cio' sembra di essere di grave nocumento alla letteratura e alla critica letteraria.

Che bello se uscisse un libro all'anno!

Ferroni potrebbe ritirarsi in campagna, fumare i suoi sigari e nelle volute distillare una pagina al giorno del capolavoro. Lasciarla decantare per un anno, dopodichè far cadere dall' alto la sua ingegnosa chiosa.

Leggere Ferroni non mi fa tanto pensare al panorama letterario italiano, in fondo tutti siamo al corrente della frenetica produzione libraria, mi fa piuttosto pensare a Ferroni. E non sono bei pensieri.

A me Ferroni sembra un po' spudorato.

Senza soffrire di un certo delirio di onniscienza, mi dico, non si puo' soffrire l' abbondanza come la soffre Ferroni.

Ferroni mi appare come quei matti che hanno la mania di avere tutto sotto controllo. Io li rispetto, la sofferenza è sofferenza. Ma anche la pazzia è pazzia.

Non si puo' avere tutto sotto controllo, se oggi lo si puo' ancor meno di ieri la sostanza non cambia.

Ma Ferroni non è matto, cos' è allora?

Forse è un bambino capriccioso. In più spudorato perchè incapace di non esibire il suo capriccio.

Ferroni in fondo rimpiange di non essere onnisciente, di non avere tutto in testa.

Rimpiange che tutti i libri del mondo non riescano a stare sulla sua scrivania. Rimpiange che si scrive troppo e lui non riesce più ad imparare tutto a memoria, si è rotto l' incantesimo.

E' un po' come se mio figlio rimpiangesse di essere nato nel 2010: "se fossi nato nel medioevo a scuola dovrei studiare molta meno Storia!".

Chiunque reagirebbe dicendo: "bambinate!".

E infatti al lamento di Ferroni cade presto il travestimento per assumere alle mie orecchie il tono lamentoso di un puerile uè uè.

Ma caro Ferroni, cosa vuoi che ti dica, in questa abbondanza usa le tue antenne (i tuoi filtri, direbbero Alchian/Allen) per isolare gli autori che ritieni degni e presentaceli.

Abbandona le tue ammorbanti volute di fumo campagnole e datti da fare per costruire dei buoni filtri.

Se qualcun altro ci presenterà autori alternativi che tu non conosci nemmeno, mordi il manicotto e soffri in silenzio.

Devi sapere che non si tratta di una nobile sofferenza, molto più probabilmente è solo invidia cagionata da metodi di cernita che non sono all' altezza.

E' un genere di sofferenza che la gente dotata di un minimo di senso del pudore cerca di nascondere in quanto disonorevole, un segnale della grettezza d' animo.

Inutile esibirla limitandosi ad un camuffamento raffazzonato che vorrebbe vendercela come "critica all' abbondanza" del moderno.

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