Anni fa notai come i miei post sulla discriminazione fossero tra i pochi a raccogliere qualche reazione, cosicché ho aumentato la loro frequenza interessandomi dell'argomento. Ho subito notato che si discuteva sulle parole più che sui fatti e - forte del mio motto "prima i concetti, poi i suoni per esprimerli" - ho subito pensato che invertire la rotta fosse la prima cosa da fere. Ammetto, ho anche pensato che la bontà
dell'operazione fosse di un'evidenza lapalissiana e mi aspettavo grande accoglienza. Tuttavia, la saggia
Rita Vergnano, da tempo impegnata a sporcarsi le mani nel fango della contesa, mi ammonì: "guarda che la terminologia è tutt'altro che banale". Allora non capii, la liquidai come persona invischiata in diatribe secondarie che, una volta dentro, tieni a portare a casa con successo. Oggi, al contrario, registro l'importanza della battaglia sulle parole come un fatto e come l'ennesima prova che le persone non sono interessate a cio' che dicono ma a qualcos'altro. Non so come ho fatto ad equivocare, in fondo io stesso denuncio un giorno sì e un giorno no i limiti della democrazia come regime massimamente esposto a "desiderability bias". Occorre immaginarsi - sulla scorta della buonanima di Kripke - le parole come contenitori ancora in buona parte da riempire. Alcune, riempite a metà, hanno già assunto connotazioni altamente positive (suonano bene) e, se fai politica, appropriarsene per terminare ad hoc l'opera di riempimento è decisivo. Difendere la propria causa utilizzando quelle parole e non altre costituisce la conquista di un caposaldo, hai nelle tue mani la potente arma della desiderabilità sociale, unica bussola dei (razionalmente) superficiali. La gente giudica dal "suono" più che dalla sostanza; dai fonemi più che dalle parole. La connotazione vale più della denotazione, direbbe un esperto. Per dimostrare quanto sprezzavo questo atteggiamento superficiale, per un certo periodo mi sono definito "razzista" e "sessista", ero cioè disposto a cedere sui nominalismi purché fosse chiara la mia posizione sostanziale. Mai avrei creduto di essere un razzista, un sessista o un fascista ma, considerato il fatto che non avevo nessuna intenzione di sprecare energie nella "guerra sulle parole", cedevo su certe posizioni puntando a diventare un "razzista intelligente", un "sessista intelligente", un "fascista intelligente". Chi mi conosceva non mi prendeva sul serio, e chi non mi conosceva... nemmeno mi leggeva. Ma se mi avesse letto e giudicato mi avrebbe disprezzato perché per lui, come per tutti, il "suono" era significato. Razzista suona male? Allora suona male anche razzista intelligente (un razzista ancora più infido). Fascista suona male? Allora suona male anche "fascista intelligente" (un fascista ancora più pericoloso). E si noti che, fosse per me, mai mi definirei razzista o fascista, lo facevo solo perché ansioso di terminare la discussione sui termini e iniziare quella sui concetti. Sono anche un fiero anti-femminista, per esempio, almeno da quando il termine "femminismo" è stato derubato da una banda di estremiste. Prendiamo poi l'esempio recente della parola "privilegio". Sono un privilegiato? Mah, usando l'italiano normale direi di no ma usando la neo-lingua lo sono eccome: in fondo sono un maschio, in fondo sono bianco, in fondo sono più alto di mio cugino, in fondo sono più bello di Alvaro Vitali, in fondo non sono rimasto vittima della valanga sull'Adamello del Settembre scorso (anche perché ero al mare)... In fondo, tranne l'uomo più sfigato del pianeta, secondo la neo-lingua siamo tutti dei privilegiati avendo tutti il privilegio di non essere l'uomo più sfigato del pianeta. Purtroppo, la gente non ascolta la verità, la vede, e in me, anche per ingenua ammissione, vede un razzista, fascista, sessista, omofobo, anti-femminista e privilegiato. Quindi inutile ascoltare, meglio deplatformare. La discussione sui concetti che ero tanto ansioso di iniziare non è mai partita, provati ad aprire bocca in queste condizioni di partenza, altro che "sostanza". Avrei dovuto ascoltare la
Rita, ma anche Orwell.