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martedì 3 agosto 2010

Già declina pur nel fiore

Non so a voi ma a me piace Puskin. Se mi sento romantico è alla sua stazione che oriento l' antenna: ha gli slanci funesti di un Byron e le tetraggini peripatetiche di Baudlaire. A volte ce li ha tutti e due in un rigo. Questo benedetto meridiano che era in edicola a 12.50 euro, sarebbe meglio darsi da fare per recuperarlo alla svelta. Ha bazzicato tutti i generi Puskin, perchè lui, essendo un Padre di letterature, non poteva specializzarsi, non poteva concedersi il lusso di amare un figlio più dell' altro. Io, pecorone lettore, condannato da una forsennata gravità a non alzarmi un millimetro da terra, io posso scegliere: e allora dico che il mio Puskin è quello appassionato e focoso dei poemi. L' ispirato puo' suonare la corda "poetica" o quella "poematica". In un poema non c' è niente che rischi di essere eccessivo. Il calibro puo' essere messo da parte. Dalla lunghezza del verso alla bestemmia più oscena, tutto, a certe condizioni, deve flettere un cuore magnanimo. Un poema è il luogo ideale dove formalizzare la perdita dei controlli, nel poema sei autorizzato a farti prendere la mano. E' un recipiente dove gli Omeri, i Puskin, i Peguy, i Pessoa, i Walcott, i Murray...si clonano tra loro e diventando moltitudine eletta. E' il campo di battaglia dove la scrittura combatte per la propria indipendenza da quella pedestre zavorra che è l' autore. Un punto alchemico che io ho visto raggiungere, l' ho visto con questi occhi. Una scintilla che ho visto scoccare di continuo nell' officina puskiniana. L' ho vista con questo rosso cuore. Un' acqua che si inaugura cheta ma piano piano la vedi che gorgoglia, ferve, irrompe. Lo Scienziato dell' amore si ferma, ci viene accanto e ammira stremato con noi la macchina mostruosa che ha messo in piedi e che procede inesorabile ed autonoma a sintetizzare l' universo in una parola. Una parola, un universo... Il linguaggio sfrenato per eccesso di ispirazione, così come certe urgenze del sangue, contrassegnano la grandezza. Puskin possiede questo crisma, e glielo vedi perchè lo porta prprio in mezzo alla fronte mentre ti passa davanti assorto in una mestizia che risplende. Per il resto, il passeggio tra le pagine di Puskin, è come visita in harem stracolmi di molli bellezze dove è fatto obbligo di procedere con atteggiamento prima annoiato, poi sventato e pronto all' amore. Quest' uomo chiuso, ambizioso, dall' immaginazione infuocata. Lo vedi al centro del party, motore immobile della festa, e poi, un attimo dopo, fare tappezzeria arrovellandosi in un corruccio solitario. E' un uomo talmente circondato ed inseguito da vaghe commozioni che lo costringono sempre alla fuga. Selvatico, acerbo, ora in lacrime per una fantasia, ora trascinante ozi meditabondi. Un uomo così non poteva certo badare a se stesso. Sposò la più bella e morì in uno stupido duello, vicenda sviscerata con bisturi acuti da Serena Vitale (Il bottone di P, Adelphi). Ma visto da lassù, dal Limbo dei Poeti, tutto quanto ci accade è piuttosto stupido.