La teoria dei bisogni indotti (TBI) punta il dito contro la pubblicità: le informazioni pubblicitarie, facendoci pensare a cio’ di cui non conoscevamo l’ esistenza, alzano i nostri costi-opportunità rendendoci più infelici. Affinchè cio’ sia vero sarà anche necessario rilassare un’ ipotesi come quella del “consumatore perfettamente informato”. Nulla di più facile vista l’ inverosimiglianza di una simile ipotesi.
E poi questo fenomeno lo sperimentiamo tutti i giorni sulla nostra pelle ed è difficile negarlo!
Eppure quanto detto non descrive il fenomeno nella sua interezza.
Il pubblicitario ci appalesa un nostro bisogno ma ci consegna anche i mezzi per soddisfarlo.
Probabilmente il consumatore, una volta placato il “bisogno indotto”, non avrà implementato il grado di felicità iniziale, cio’ nonostante la “cassetta degli attrezzi” a disposizione della comunità si sarà ampliata. L’ intero processo quindi produrrà delle esternalità positive e non avrà molto senso ostacolarlo, specie laddove la difesa delle idee innovative è meno arcigna.
I sarà notato che sto tralasciando tutti gli effetti distributivi legati al fenomeno.
In conclusione, porre dei freni al “consumismo” in nome della TBI puo’ ripercuotersi sulla capacità innovativa del sistema.
Ma esistono ben altri argomenti che ci fanno vedere con preoccupazioni comportamenti “consumistici”.
La TBI, riformulata in modo meno ingenuo, puo’ essere ricondotta alla teoria dei bias cognitivi (TBC).
TBS ipotizza che il consumatore (più in generale il decisore) commetta degli errori sistematici nel realizzare le sue opzioni. Questa ipotesi è da prendere sul serio per il semplice fatto che si fonda sui fatti (test sperimentali).
Cosa succede, dunque. Il pubblicitario sfrutterebbe a suo favore i bias cognitivi sistematici del consumatore guidando le sue scelte senza per questo doversi compromettere in azioni fraudolente.
Se tutto cio’ è verosimile, ecco che un’ autorità benevola potrebbe, attraverso misure paternalistiche, massimizzare l’ utilità dei consumatori regolamentando la libera contrattazione.
In altre parole, il decisore non è razionale, ovvero, gli assiomi della teoria della scelta razionale vengono violati. In particolare viene violato l’ assioma di “invarianza” secondo il quale un problema, anche se formulato in termini differenti, avrà sempre la stessa soluzione.
L’ ipotesi legata alla razionalità degli operatori non è l’ ipotesi di “perfetta informazione”. Allentarla potrebbe essere problematico e, forse, in merito, qualcosa si può opinare.
Infatti la nuova teoria del consumatore (NTC) ha opinato (sul punto vedi i lavori di Stigler e Becker, in particolare il loro storico articolo: De Gustibus).
Secondo NTC il consumatore è da figurarsi, alla stregua di un’ impresa, come un soggetto impegnato a produrre la propria felicità. Si confronta quindi con una funzione produttiva in cui intervengono beni diversi, ognuno con suo prezzo.
Facciamo un esempio.
Se il consumatore apprezza le arance ne consumerà in abbondanza, sempre facendo attenzione al prezzo relativo del prodotto. Ma se verrà a conoscenza del fatto che le arance contengono vitamina C e sono quindi benefiche per la sua salute, probabilmente alzerà i suoi consumi. Gli alzerà anche se, nei fatti, nulla è cambiato rispetto a prima. Questo comportamento è tutt’ altro che irrazionale. La nuova informazione ha alzato il valore del prodotto trasformandolo in qualcosa di differente.
La funzione della pubblicità risiede proprio in questa differenziazione dei prodotti e questa differenziazione puo’ avvenire anche in modi molto più sottili rispetto a quelli che compaiono nell’ esempio, ovvero creando un’ “immagine” appropriata da legare al prodotto.
Riassumendo, secondo TBC la pubblicità impedisce al consumatore di massimizzare le sue funzioni di utilità distorcendole in maniera illusoria. Secondo NTC, per contro, la pubblicità differenzia i prodotti in modo che il consumatore consideri delle funzioni di utilità alternative ma non per questo meno reali.
E poi questo fenomeno lo sperimentiamo tutti i giorni sulla nostra pelle ed è difficile negarlo!
Eppure quanto detto non descrive il fenomeno nella sua interezza.
Il pubblicitario ci appalesa un nostro bisogno ma ci consegna anche i mezzi per soddisfarlo.
Probabilmente il consumatore, una volta placato il “bisogno indotto”, non avrà implementato il grado di felicità iniziale, cio’ nonostante la “cassetta degli attrezzi” a disposizione della comunità si sarà ampliata. L’ intero processo quindi produrrà delle esternalità positive e non avrà molto senso ostacolarlo, specie laddove la difesa delle idee innovative è meno arcigna.
I sarà notato che sto tralasciando tutti gli effetti distributivi legati al fenomeno.
In conclusione, porre dei freni al “consumismo” in nome della TBI puo’ ripercuotersi sulla capacità innovativa del sistema.
Ma esistono ben altri argomenti che ci fanno vedere con preoccupazioni comportamenti “consumistici”.
La TBI, riformulata in modo meno ingenuo, puo’ essere ricondotta alla teoria dei bias cognitivi (TBC).
TBS ipotizza che il consumatore (più in generale il decisore) commetta degli errori sistematici nel realizzare le sue opzioni. Questa ipotesi è da prendere sul serio per il semplice fatto che si fonda sui fatti (test sperimentali).
Cosa succede, dunque. Il pubblicitario sfrutterebbe a suo favore i bias cognitivi sistematici del consumatore guidando le sue scelte senza per questo doversi compromettere in azioni fraudolente.
Se tutto cio’ è verosimile, ecco che un’ autorità benevola potrebbe, attraverso misure paternalistiche, massimizzare l’ utilità dei consumatori regolamentando la libera contrattazione.
In altre parole, il decisore non è razionale, ovvero, gli assiomi della teoria della scelta razionale vengono violati. In particolare viene violato l’ assioma di “invarianza” secondo il quale un problema, anche se formulato in termini differenti, avrà sempre la stessa soluzione.
L’ ipotesi legata alla razionalità degli operatori non è l’ ipotesi di “perfetta informazione”. Allentarla potrebbe essere problematico e, forse, in merito, qualcosa si può opinare.
Infatti la nuova teoria del consumatore (NTC) ha opinato (sul punto vedi i lavori di Stigler e Becker, in particolare il loro storico articolo: De Gustibus).
Secondo NTC il consumatore è da figurarsi, alla stregua di un’ impresa, come un soggetto impegnato a produrre la propria felicità. Si confronta quindi con una funzione produttiva in cui intervengono beni diversi, ognuno con suo prezzo.
Facciamo un esempio.
Se il consumatore apprezza le arance ne consumerà in abbondanza, sempre facendo attenzione al prezzo relativo del prodotto. Ma se verrà a conoscenza del fatto che le arance contengono vitamina C e sono quindi benefiche per la sua salute, probabilmente alzerà i suoi consumi. Gli alzerà anche se, nei fatti, nulla è cambiato rispetto a prima. Questo comportamento è tutt’ altro che irrazionale. La nuova informazione ha alzato il valore del prodotto trasformandolo in qualcosa di differente.
La funzione della pubblicità risiede proprio in questa differenziazione dei prodotti e questa differenziazione puo’ avvenire anche in modi molto più sottili rispetto a quelli che compaiono nell’ esempio, ovvero creando un’ “immagine” appropriata da legare al prodotto.
Riassumendo, secondo TBC la pubblicità impedisce al consumatore di massimizzare le sue funzioni di utilità distorcendole in maniera illusoria. Secondo NTC, per contro, la pubblicità differenzia i prodotti in modo che il consumatore consideri delle funzioni di utilità alternative ma non per questo meno reali.
NTC si applica bene a molti fenomeni in cui si è indotti a considerare irrazionale il comportamento del decisore: moda, pubblicità, dipendenza, tradizioni…