Ho interagito con il prof. Giorgio Israel sul tema di cui al post (1). E' una personalità che stimo molto anche se dal carattere, a mio giudizio, piuttosto fragile e propenso a scambiare il disaccordo con l' offesa. Ecco qui di seguito le inutilmente aspre parole a cui ha affidato la sua replica.
Preferisco non leggere la polemica altrimenti viene voglia anche a me di essere polemico.
Il suo discorso è autoreferenziale perché lei non mette in discussione la ragione per cui la scuola non è un'azienda: e cioè perché non fornisce né prodotti né servizi, bensì qualcosa che non è né una merce né una prestazione di servizio: cultura ed educazione.
Quindi continuare a intorcinarsi sulla questione dell'utenza non ha senso, se utenza non c'è. Forse chi va a scuola è come chi va ad acquistare un prodotto al supermercato o a pagare una bolletta all'ufficio postale? È da questa pazzesca confusione che nasce lo sbandamento di quei genitori che vanno a prendere a schiaffi il professore se non promuove il figlio, come si protesterebbe in un supermercato che vendesse merce avariata.
Comunque non posso dilungarmi perché tutto questo è spiegato in dettaglio e argomentato nel mio libro. Andrebbe letta anche Hannah Arendt al riguardo. Quindi si tratta di cose serie e delicate (pensate da menti non di secondo piano) che non si risolvono con le formule dell'ingegneria gestionale o con gli slogan tipo benchmark, buoni per una fabbrica di automobili. E siccome sono questioni serie preferisco non vederle liquidate con polemiche sommarie, altrimenti - ripeto - cadrei anch'io nella polemica. Il che è facile, di fronte alla superficialità e ignoranza dei valutatori e tecnocrati che impazzano sulla scuola.
Un'osservazione detta davvero con spirito amichevole e costruttivo. Ma se uno dichiara di non saperne gran che del mondo della scuola e si trova di fronte a un'affermazione di cui dichiara anche di non capire bene il senso, non sarebbe meglio aspettare, riflettere, leggere, invece di buttarsi a corpo morto a far polemica? In fin dei conti, non pretendo che quel che dico sia la Verità, ma è frutto di riflessioni di anni e di letture documentate.
Preferisco non leggere la polemica altrimenti viene voglia anche a me di essere polemico.
Il suo discorso è autoreferenziale perché lei non mette in discussione la ragione per cui la scuola non è un'azienda: e cioè perché non fornisce né prodotti né servizi, bensì qualcosa che non è né una merce né una prestazione di servizio: cultura ed educazione.
Quindi continuare a intorcinarsi sulla questione dell'utenza non ha senso, se utenza non c'è. Forse chi va a scuola è come chi va ad acquistare un prodotto al supermercato o a pagare una bolletta all'ufficio postale? È da questa pazzesca confusione che nasce lo sbandamento di quei genitori che vanno a prendere a schiaffi il professore se non promuove il figlio, come si protesterebbe in un supermercato che vendesse merce avariata.
Comunque non posso dilungarmi perché tutto questo è spiegato in dettaglio e argomentato nel mio libro. Andrebbe letta anche Hannah Arendt al riguardo. Quindi si tratta di cose serie e delicate (pensate da menti non di secondo piano) che non si risolvono con le formule dell'ingegneria gestionale o con gli slogan tipo benchmark, buoni per una fabbrica di automobili. E siccome sono questioni serie preferisco non vederle liquidate con polemiche sommarie, altrimenti - ripeto - cadrei anch'io nella polemica. Il che è facile, di fronte alla superficialità e ignoranza dei valutatori e tecnocrati che impazzano sulla scuola.
Un'osservazione detta davvero con spirito amichevole e costruttivo. Ma se uno dichiara di non saperne gran che del mondo della scuola e si trova di fronte a un'affermazione di cui dichiara anche di non capire bene il senso, non sarebbe meglio aspettare, riflettere, leggere, invece di buttarsi a corpo morto a far polemica? In fin dei conti, non pretendo che quel che dico sia la Verità, ma è frutto di riflessioni di anni e di letture documentate.
Ringrazio Giorgio Israel per la risposta fumantina che ha voluto dedicare la mio intervento.
Mi permetto un' ulteriore replica poiché penso che abbia un suo “contenuto” indipendentemente dalla lettura del suo ultimo libro (ho comunque letto il Liberarsi dai Demoni trovando una consonanza su più punti).
Ecco gli spunti che mi ha offerto.
“…ma se uno… si trova di fronte ad un'affermazione di cui dichiara…di non capire bene il senso… non sarebbe meglio aspettare, riflettere…”
Infatti io “chiedevo”, e senza alcuno spirito polemico (quello semmai era nell’ altrove che segnalavo, e non era poi nemmeno tanto aspro).
Quanto al “senso” del termine “aziendalizzazione”, con tutti i miei limiti, penso di conoscerlo abbastanza visto che lo impiego all’ interno della disciplina che lo ha coniato. Visto che ho partecipato da vicino ad alcune “aziendalizzazioni” di successo e ho una vaga idea di cosa le faccia fallire.
Mi rimane invece il dubbio che il senso originario abbia subito delle storpiature nel passare in altri “ambiti”, magari distanti dalla disciplina che lo impiega nell' accezione originaria. E poiché esiste un dibattito pubblico, queste storpiature non sono formalismi su cui sorvolare (sono molti i settori in cui, in nome della de-aziendalizzazione, potrebbere trovare fondamento la richiesta di privilegi smaccati e arbitrari).
“…la scuola non è un’ azienda…”
Quindi la scuola non ha né obiettivi pubblici né obiettivi privati da perseguire? Quindi la scuola non produce né costi né benefici? Quindi in ambito scolastico è superflua ogni forma d’ incentivo? Quindi nella scuola non c’ è possibilità di individuare uno scambio tra corpo docente e allievi? Quindi nella scuola non ha senso il tentativo di progettare azioni razionali anche solo in forma limitata? Oppure in questo ambito non ha alcun senso “misurare” le grandezze a cui accennavo e una misura vale l’ altra?
Sì perché la concezione di “azienda” nelle discipline economiche è parecchio mutata da almeno 25 anni (almeno dai lavori di Coase e Becker) e ho paura che Hanna Harendt non possa tenerne granchè conto. Senza queste nozioni la confusione semantica diventa rischiosissima.
L’ azienda è un organizzazione che si realizza per poter “internalizzare” i frutti dell’ azione che produce.
Internalizzare, cioè’ far ricadere sulle spalle di chi ha prodotto certe azioni le conseguenze di quelle stesse azioni. In altri termini, l’ azienda è un modo per agire in modo razionale sfruttando come armi la RESPONSABILITA’ e gli incentivi.
Laddove non ha senso parlare di “responsabilità”, di “incentivi”, di “azione razionale”, non ha senso neppure parlare di “aziendalizzazione”
“…superficialità e ignoranza dei valutatori e tecnocrati che impazzano sulla scuola…”
Guardi che anche il mercato è pieno di aziende (canoniche) che lavorano male per CARENZA NEL VALUTARE i propri dipendenti, i propri collaboratori, i prezzi futuri, i costi previsti… e chi più ne ha più ne metta. In genere subiscono una ristrutturazione per non fallire. Non una de-aziendalizzazione.
“…Forse chi va a scuola è come chi va ad acquistare un prodotto al supermercato o a pagare una bolletta all'ufficio postale? È da questa pazzesca confusione che nasce lo sbandamento di quei genitori che vanno a prendere a schiaffi il professore se non promuove il figlio, come si protesterebbe in un supermercato che vendesse merce avariata…”
Da questa lineare esemplificazione si coglie bene un classico ribaltamento dei termini.
Se la Scuola fosse un’ Agenzia demandata dall’ utenza (pubblica e privata) a fornire una preparazione all’ allievo (prodotto? servizio?), allora il genitore (utente) andrebbe semmai a prendere a schiaffi il professore perché suo figlio non ha superato i test di ammissione dell’ Università prestigiosa (prodotto avariato). E una situazione del genere (a parte gli schiaffi) non è certo patologica!!
Se le nostre scuole sono dei diplomifici in cui irrompono genitori isterici è per altri motivi (obbligatorietà della scuola, valore legale del titolo di studio, fallimento dell' utenza pubblica, mancanza di un college premium sul mercato del lavoro…)
L’ economista Alex Tabarrok (si è occupato soprattutto di carceri e ferrovie) individua tre fasi che inquadrano l’ aziendalizzazione di agenzie pubbliche 1) realizzazione (ovvero responsabilizzazione dell’ agenzia) 2) fallimento dell’ utenza (in genere l’ utenza è il soggetto pubblico che fallisce nel progettare le richieste o nell’ implementare i controlli) 3) ristrutturazione dell’ utenza 3) successo crescente.
Ci sono tutti i segnali per dire che siamo nella fase 2.
“…ma se uno… si trova di fronte ad un'affermazione di cui dichiara…di non capire bene il senso… non sarebbe meglio aspettare, riflettere…”
Infatti io “chiedevo”, e senza alcuno spirito polemico (quello semmai era nell’ altrove che segnalavo, e non era poi nemmeno tanto aspro).
Quanto al “senso” del termine “aziendalizzazione”, con tutti i miei limiti, penso di conoscerlo abbastanza visto che lo impiego all’ interno della disciplina che lo ha coniato. Visto che ho partecipato da vicino ad alcune “aziendalizzazioni” di successo e ho una vaga idea di cosa le faccia fallire.
Mi rimane invece il dubbio che il senso originario abbia subito delle storpiature nel passare in altri “ambiti”, magari distanti dalla disciplina che lo impiega nell' accezione originaria. E poiché esiste un dibattito pubblico, queste storpiature non sono formalismi su cui sorvolare (sono molti i settori in cui, in nome della de-aziendalizzazione, potrebbere trovare fondamento la richiesta di privilegi smaccati e arbitrari).
“…la scuola non è un’ azienda…”
Quindi la scuola non ha né obiettivi pubblici né obiettivi privati da perseguire? Quindi la scuola non produce né costi né benefici? Quindi in ambito scolastico è superflua ogni forma d’ incentivo? Quindi nella scuola non c’ è possibilità di individuare uno scambio tra corpo docente e allievi? Quindi nella scuola non ha senso il tentativo di progettare azioni razionali anche solo in forma limitata? Oppure in questo ambito non ha alcun senso “misurare” le grandezze a cui accennavo e una misura vale l’ altra?
Sì perché la concezione di “azienda” nelle discipline economiche è parecchio mutata da almeno 25 anni (almeno dai lavori di Coase e Becker) e ho paura che Hanna Harendt non possa tenerne granchè conto. Senza queste nozioni la confusione semantica diventa rischiosissima.
L’ azienda è un organizzazione che si realizza per poter “internalizzare” i frutti dell’ azione che produce.
Internalizzare, cioè’ far ricadere sulle spalle di chi ha prodotto certe azioni le conseguenze di quelle stesse azioni. In altri termini, l’ azienda è un modo per agire in modo razionale sfruttando come armi la RESPONSABILITA’ e gli incentivi.
Laddove non ha senso parlare di “responsabilità”, di “incentivi”, di “azione razionale”, non ha senso neppure parlare di “aziendalizzazione”
“…superficialità e ignoranza dei valutatori e tecnocrati che impazzano sulla scuola…”
Guardi che anche il mercato è pieno di aziende (canoniche) che lavorano male per CARENZA NEL VALUTARE i propri dipendenti, i propri collaboratori, i prezzi futuri, i costi previsti… e chi più ne ha più ne metta. In genere subiscono una ristrutturazione per non fallire. Non una de-aziendalizzazione.
“…Forse chi va a scuola è come chi va ad acquistare un prodotto al supermercato o a pagare una bolletta all'ufficio postale? È da questa pazzesca confusione che nasce lo sbandamento di quei genitori che vanno a prendere a schiaffi il professore se non promuove il figlio, come si protesterebbe in un supermercato che vendesse merce avariata…”
Da questa lineare esemplificazione si coglie bene un classico ribaltamento dei termini.
Se la Scuola fosse un’ Agenzia demandata dall’ utenza (pubblica e privata) a fornire una preparazione all’ allievo (prodotto? servizio?), allora il genitore (utente) andrebbe semmai a prendere a schiaffi il professore perché suo figlio non ha superato i test di ammissione dell’ Università prestigiosa (prodotto avariato). E una situazione del genere (a parte gli schiaffi) non è certo patologica!!
Se le nostre scuole sono dei diplomifici in cui irrompono genitori isterici è per altri motivi (obbligatorietà della scuola, valore legale del titolo di studio, fallimento dell' utenza pubblica, mancanza di un college premium sul mercato del lavoro…)
L’ economista Alex Tabarrok (si è occupato soprattutto di carceri e ferrovie) individua tre fasi che inquadrano l’ aziendalizzazione di agenzie pubbliche 1) realizzazione (ovvero responsabilizzazione dell’ agenzia) 2) fallimento dell’ utenza (in genere l’ utenza è il soggetto pubblico che fallisce nel progettare le richieste o nell’ implementare i controlli) 3) ristrutturazione dell’ utenza 3) successo crescente.
Ci sono tutti i segnali per dire che siamo nella fase 2.