Chi combatte le centrali nucleari ne teme i costi, chi le difende parla di “preoccupazioni esagerate”.
In realtà il principale ostacolo a fare chiarezza sul tema sono gli interventi governativi, specie quelli che limitano la responsabilità dei gestori. In assenza di interventi i gestori dovrebbero acquistare un’ assicurazione privata e lì potremmo costatare se possono permettersela.
La situazione è ancora peggiore quando è lo stesso governo ad accaparrarsi la gestione delle centrali.
Sussidiare l’ agricoltura è un cattivo affare, forse non esiste questione dove il consenso degli esperti è tanto forte, eppure…
Eppure, evidentemente, i pochi beneficiati riescono a organizzarsi a danno dei molti.
Tra questi molti ci sono i tassati colpiti per raccogliere i sussidi, ma anche i consumatori colpiti dagli alti prezzi.
Tanto più l’ agricoltore è di grande (e ricco) dimensioni, tanto più godrà dei sussidi. L’ ennesima ingiustizia di una misura che distorce l’ economia rendendola meno efficiente.
Le politiche contro la discriminazione degenerano inevitabilmente in “affirmative action”, non è infatti possibile applicare il comandamento: non discriminate!
Solo che l’ affirmative action ha dei costi suoi propri:
1. penalizza i soggetti migliori;
2. penalizza in particolare i soggetti migliori che appartengono alle minoranze;
3. fomenta il risentimento;
4. distrae dalla contrattualistica privata, vera soluzione del problema;
5. disincentiva l’ hard working;
6. disincentiva le assunzioni 8per evitare grane).
Come se non bastasse le minoranze non ricevono un vero aiuto, lo testimoniano bene le evidenze circa i vari gap: il loro recupero è lento e dovuto a altri fattori).
Politicamente l’ operazione è difficile, e cio’ resta vero anche se la spesa improduttiva abbonda.
In questo gioco a passarsi il cerino, la scuola che fine fa?
Dalle colonne del Corriere Maurizio Ferrera dice che non andrebbe toccata:
tagliare è un obbligo, sulla scuola un delitto
Si, ok. Ma come rispondere allora a Caplan?:
Economists are finally waking up to the fact that many people are overqualified for their jobs. You don't need a college degree to be a baggage porter or bellhop, but according to the Bureau of Labor Statistics, 17% of them have a bachelor's degree or more. So do 15% of taxi drivers and chauffeurs - and 14% of mail carriers. Even if you insist that what you learn in college is broadly useful on-the-job, can you really believe that it makes you better at putting letters in mailboxes? Once you drink this Kool-aid, though, you're on a slippery slope. If you admit that "Some jobs really don't require a college education," it's hard to deny the harsher fact that "Some jobs don't require a high school education either." Take baggage porters and bellhops. What did they learn in their last four years of high school that makes them more productive in their jobs? If you answer, "A strong work ethic," think again. Which actually builds a better work ethic: goofing off in high school with the other kids who don't plan to go to college? Or hustling for tips as a bellhop? On average, I freely admit, the return to education remains fairly high. But themarginal return is a different story. Students determined to finish college - or high school - probably aren't going to remain overqualified for long. It's the borderline students, I conjecture, who get stuck in jobs that don't require their formal credentials. We should accept this fact - and stop encouraging and subsidizing these borderline students to finish high school and college. Someone has to carry baggage. Shouldn't it be high school drop-outs?
Certo, si parla degli USA. Ma non possiamo girarci dall’ altra parte visto che da noi il fenomeno è anche più marcato!
Senza una risposta puntuale ha poco senso opporsi ai tagli.
Troppo spesso i tagli alla scuola vengono interpretato come un taglio al nostro futuro, il che equivale ad una profanazione di altari consacrati.
Ma le cose stanno davvero così?
Come minimo siamo di fronte ad una semplificazione strumentale:
… the great secular faith of our age is the idea that education is the key to economic growth, swelling both an individual’s bank balance and expanding a nation’s GDP… Look at Switzerland. It has one of the lowest higher-education enrolment rates in the world, yet it has a fantastic economy… look at a mistatement… given lawyers’ high wages, having more lawyers would surely mean that there are more and more people earning more and more dough, and therefore in total, society is becoming more and more wealthy…‘[This] would suggest that the fastest way to boost growth would be to send everyone to law school’. Which is clearly ridiculous…
Un libro da leggere: Does Education Matter?: Myths About Education and Economic Growth, by Alison Wolf
Le incertezze inerenti gli affari con l’estero hanno suggerito a molti paesi di adottare cambi fissi, ma i cambi variabili hanno molto più senso.
Le gravi crisi nelle bilance dei pagamenti sono evitate proprio grazie ai cambi variabili: con essi i mercati hanno l’ opportunità di dare l’ allarme per tempo e riequilibrare la situazione grazie a manovre di svalutazione.
Nelle società moderne si ritiene che il governo debba provvedere a definire il matrimonio includendo in esso un certo numero di contratti.
Questo però non sembra necessario, il governo potrebbe limitarsi a definire una contrattualistica di default da cui accordi privati possano deviare. Lasciamo che del matrimonio si occupino soggetti diversi dal Governo, la Chiesa Cattolica, per esempio. Tutto cio’ farebbe piazza pulita di una serie di problemi, pensiamo solo al matrimonio tra omosessuali.
Il gold standard garantisce tutti dell’ inflazione, ma a volte l’ inflazione serve, per esempio per uscire dalla cosiddetta “trappola della liquidità”.
In un mondo che si “stabilizza” mediante deflazione, la tesaurizzaziono diventa un investimento fruttuoso drenando risorse alla crescita.
La produzione d’ oro non è detto che sia costante, anche questo è fonte d’ instabilità.
La storia ci ha insegnato che il gold standard spesso ha funzionato male e il ritardo nel suo abbandono viene indicato tra i motivi della Grande Depressione.
L’ ottimo è dato da una politica monetaria accorta realizzabile solo in assenza di gold standard. Sarà mai possibile? Molti libertari credono di sì.
Già Conrad e Céline hanno raccontato il fastidioso tiepidume che emana dall’ incubatrice in cui s’ infila il viaggiatore europeo una volta doppiate le Canarie.
Costui non ci mette molto a capire che comincia una vita con l’ handicap in un mondo suscettibile da un momento all’ altro di dissoluzione irrazionale.
Naipaul segue le orme dei maestri esibendo una straordinaria abilità nell’ avvolgere l’ intero continente africano in una pellicola di sudiciume e apatia che non lascia traspirare alcunché rendendo tutto sudaticcio.
Si termina la lettura del suo libro con il fiato corto e una gran voglia di colonialismo.
La speranza è al lumicino, per scamparla si anela un posto alla Nestlé.
La città africana?
Non smette mai di estendersi.
Prima il verde scuro della foresta primordiale. Poi il verde tenero dii una terra stanca che ha dato frutto più volte.
Poi ancora una tangenzialina che ti fa ballare scuotendoti fin dentro le ossa mentre getti continue occhiate ai relitti di autocarri stracarichi abbandonati ai bordi della strada.
Infine un dilagare incontrastato di baracche, lamiere ondulate e spazzatura in decomposizione; il resto è polvere, crudeltà, privazioni.
L’ arrivo notturno è contrassegnato dai pochi deboli neon che tengono in vita il quartiere. Al mattino ti imbatti invece nei donnoni africani che passano e ripassano lo straccio con estrema lentezza sempre nello stesso punto stando nella loro tipica postura piegata alla vita a gambe dritte: sono più interessate ad origliare i discorsi intorno che ad altro.
Unica libagione: l’ acqua piovana. Prospera la capra e chiunque viva di niente fino al giorno del macello.
Una maledizione demografica ha colpito il paese: sembra che solo i tarati si riproducano in modo forsennato.
In questi termitai il traffico è immobile: un’ esperienza stremante. Le strade, una volta usciti dall’ arteria principale, hanno un tracciato incerto tra cumuli d’ immondizia. Sui motorini si viaggia in due, in tre… cosa probabilmente vietata in epoca coloniale. In caso di sosta lungo un fossato maleodorante, la ricerca di penombra per degustare il vino di banana sarà fatica sprecata: il terreno sgombro facilita l’ avvistamento dei serpenti.
Il commercio è disseminato ovunque, ma sempre appesantito dalle trattative, irrisorio e incentrato sulla paccottiglia. Nelle botteguzze la pomata per il cancro al seno affianca quelle per la sifilide e la gonorrea. Frotte di bambini disertano la scuola e vengono spediti in strada per combinare piccoli traffici, sebbene facciano tutto controvoglia. Per lo più passano la giornata in ozio: sono i figli di un qualche boom (petrolio?) tenuti in vita giusto dalle nuove norme igienico-sanitarie. Sono bambini privi di risposte perché i genitori, ovvero coloro che normalmente danno le risposte, sono loro stessi in sofferenza.
Le case hanno la facciata piena di cartelli umilianti: “chi abita qui non paga l’ affitto”, “casa sottoposta a sequestro per inadempienza”.
Ma i mali non derivano tanto dalla cattiveria, quanto dal rincoglionimento pervasivo. Ad ogni angolo, un crocchio di gente in ciabatte se ne sta abbonacciato sotto la pioggia manco si trattasse di gnu nella savana. Girando per il calderone t’ imbatti di continuo in una folla brulicante dedita ora allo schiamazzo, ora alla cantilena. Una folla orfana da tempo di un capo branco calmo ed assertivo.
In ambito politico sono governati da belve.
In ambito culturale predominano i salotti in cui si blaterara unicamente di identità africana. Sono neri come la notte e si credono arabi. Vorrebbero costruire una loro epica ma come si fa? Qui tutto è un debole fango, tutto è fradicia terra rossa in perenne disfacimento. Questo paese sembra un palinsesto che si estingue ad ogni stagione delle piogge. La maledizione di una civiltà priva di scrittura la senti nell’ aria. Scrittura? Ma se non conoscevano neanche la ruota! Quel senso di frustrazione, quel senso d’ inferiorità, quella vergogna per le loro stesse capanne di paglia che provarono fin da subito dopo l’ arrivo degli inglesi, tutto puo’ essere nascosto solo da piccole rabbie effimere.
Il primitivismo lo subodori già al nastro bagagli dell’ aeroporto di Lagos. Cos’ è quello sgargiante assembramento nel punto esatto in cui i bagagli fuoriescono? Non sarebbe più logico distribuirsi lungo il nastro anziché dar vita a tumulti immotivati; ma il nigeriano non intende ragioni. Forse l’ apparizione della valigia risveglia un senso miracolistico e si è indotti a stiparsi per presidiare la magica soglia.
Poi, fuori dall’ aeroporto, quel che era disagio si trasforma in vero e proprio straniamento. I quartieri si confondono, con quei nomi dalle vocali così intercambiabili.
Le fogne traboccano ogni momento e i rivenditori di cibi cotti si limitano ad arretrare le loro bancarelle dal bordo della strada. La puzza e i profumi, il freddo e il caldo si avvinghiano in un nauseabondo miscuglio. Benvenuti in Africa!
Ogni tanto sul pattume sozzo spunta un gattino incredibilmente pieno di grazia. Un miraggio.
Girerai per strada con i tuoi vestiti bianchi divenuti grigiastri dopo il primo bucato con l’ acqua indigena. Mangerai molti cibi sulla cui origine è meglio non indagare. Se non lo farai, perché sei venuto fin quaggiù? Entrerai in un bar con il ventilatore arrugginito. Dopo aver dato qualche mancia il locale comincerà a pullulare di straccioni in cerca della questua. Ti tornerà in mente la cabina della nave di Una notte all’ opera dei fratelli Marx, che si riempie di gente in modo inverosimile.
Tutto è corrotto, a partire dalle guide.
Ti chiedono cifre spropositate con grande tranquillità. Si accontentano poi di un decimo. In loro compagnia ti sembra di sentire scattare un tassametro taroccato. Come imbonitori ti annunciano con enfasi: “questo sito culturale è di estrema importanza”. E così dicendo esauriscono le loro riserve di lingua inglese. Ma quanto ti fanno girare prima di confessare che non sanno la strada! Sanno però cosa vuole il turista dal Cicerone, cosicché puntano molto sull’ effetto pruriginoso: come è stato castrato Tizio e come è stato essicato Caio.
Il prezzo contrattato cambia invariabilmente al momento della dazione; ma non di poco! Del resto nel discuterlo, non procedono per piccoli incrementi, ma raddoppiano di brutto! Le valute, poi, fluttuano e un prezzo fissato in euro si trasforma magicamente in sterline (mai il contrario). Se poi nella contrattazioni esponi le tue ragioni, abbandonano la modalità interattiva per fare lunghi discorsi zeppi di informazioni apparentemente slegate e buttate lì al solo scopo di estenuarti con la complicità del caldo. Ad ogni modo, qualsiasi sia la cifra convenuta, è abbastanza chiaro che le contrattazioni non sono mai chiuse del tutto. Mostrarsi indifferenti al denaro puo’ essere fatale.
Ogni percorso in loro compagnia diventa labirintico, ogni gesto quotidiano si trasforma in impresa. Stai su una barca in cui qualcuno rema contro, lo senti. L’ ostruzionismo è palpabile.
Si rivolgono a te in una lingua raffinata e criptica. Puntualmente viene ventilata l’ idea che una mancia sarebbe opportuna per sbloccare la situazione e fare un passo in avanti. Ma alla meta mancano centinaia di passi.
Per uscire dai garbugli e tornare in albergo non resta che affidarsi alla fortuna degli sprovveduti. C’ è un dio anche per questo.
Una volta arrivato qui ti senti vicino alle scaturigini della vita, ritorni all’ inizio di tutto, nel pozzo senza fondo delle superstizioni. Ti accosti ad una religiosità dalla natura inafferrabile.
L’ africano è sempre pronto a buttarsi prono in terra quando passa l’ indovino del quartiere, e il consigliere d’ amministrazione in abito scuro della Lever laureato in Inghilterra non fa eccezione.
I luoghi religiosi, non servono tanto alla meditazione, quanto piuttosto alla richiesta di benefici. E il personale religioso si adegua.
L’ indovino da cui vieni condotto usa lo scacciamosche con perizia: nell’ ascoltarti segnala gradimento, comprensione e riesce persino a farti capire con delicatezza che ti stai dilungando un po’ troppo. Ora che tocca a lui parla drammatizzando in modo parossistico gli eventi che ti riguardano: hai estremo bisogno del suo intervento. Le tue disgrazie eccitano i presenti compiaciuti (in africa esiste sempre una corte che non lascia mai solo il turista). Poi, sebbene tu non l’ abbia contraddetto, ripete nuovamente da capo i pericoli che ti insidiano e le raccomandazioni. Se sminuisci facendo il fatuo non troverai collaborazione di sorta in nessuno. Parole che se ascoltate a freddo non ti avrebbero mai colpito, ora ti scuotono. Capisci come sia assolutamente necessario che un mito poggi su altri miti. Dal muro, intanto, occhieggia rassicurante l’ iscrizione all’ albo professionale. Vorresti ragionare ad alta voce per non cadere in confusione, ma non puoi appartarti. Insomma, entri da loro con un problema e ne esci con dieci. Un po’ tipo i nostri dentisti quando vai per l’ igiene orale.
I templi si susseguono, e se vuoi visitarli devi entrare scalzo rassegnandoti ai funghi che contrarrai. Ma cosa sei venuto fin qui a fare altrimenti? Molto meglio che le febbri tifoidi e il colera. Stai calmo, cio’ che vedrai in questi attimi frettolosi ti resterà nell’ animo e diventerà sempre più magico con il passare degli anni. Intanto offri il tuo uovo (che si mangerà il pitone nel giro di un giorno).
Laggiù la modernità è la circoncisione con la Gillette anziché con la scheggia di canna.
Laggiù la modernità equivale al cristianesimo, e la religione costituisce l’ unica attività intellettuale.
Ma anche il cristianesimo cede a forme degradate.
Per sbarazzarsi degli spiriti, la chiesa deve riconoscerne l’ esistenza e fare esorcismi. Il che aumenta la confusione.
Le chiese hanno nomi altisonanti che si sforzano di non essere ripetitivi (Mountain of Fire, The Redeemed Church of God, Christ Apostle Church…). Le funzioni durano quattro ore allo scopo, sembra, di utilizzare quantità industriali d’ incenso. L’ incenso procura un gran divertimento ed è il piatto forte della messa! L’ uso dell’ incenso attira fedeli sempre nuovi, anche se l’ uso del latino ne fa scappare almeno altrettanti.
Ma la scelta della religione dipende da fattori trasversali. Esempio, se in famiglia c’ è un parente addetto ai sacrifici rituali, la carne in tavola è garantita e la scelta di fede è obbligata.
Per donne e animali è una vita di legnate.
Capisci subito come mai non si vedono circolare cani e gatti: costituiscono l’ oggetto privilegiato del teppismo infantile. Hanno appena torturato e deriso una ridicola cagnetta magra con le mammelle gonfie.
Gli africani non amano gli animali, pochi sfuggono alla loro noncurante crudeltà. Solo nei parchi sono al riparo dai tormenti.
Molto gradite sono le risse fra scimpanzé, che vengono sobillate in ogni modo, magari fornendo loro una colazione imprevista. In questi casi i primati fanno un baccano pazzesco e menano colpi potenti che risuonano a distanza, tutto si trasforma in un grottesco squittio, la gioia indistinguibile dal dolore. Ma gli stessi scimpanzé costituiscono un piatto prelibato: “carne di boscaglia”, la chiamano gli indigeni, i quali, a dargli un fucile e a lasciarli fare, si divorerebbero tutta la fauna del continente.
Il cavallo scartato per il polo viene messo in libertà e comincia a nutrirsi come puo’, perlopiù dell’ onnipresente immondizia. Diventa sempre più scheletrico finché un giorno noti un gruppo di scimpanzé che gli rovista nella pancia. Impietosita, la moglie di un diplomatico cominciò a sparare in testa a questi esemplari. Oggi, fortunatamente, esiste una ONLUS che si dedica a tempo pieno a sparare in testa ai cavalli abbandonati. La storia si ripete per i levrieri inadatti alla corsa, ma queste povere bestie sono tanto gracili che spesso bastano le fiondate dei monelli per liberarsene.
Per bastonare le donne, invece, esiste una divinità mandinga apposita: Mumbo Jumbo.
L’ africano è (era) poligamo e tra le mogli, come si sa, si scatenano spesso risse. Al che il marito, via skype o via cellulare, chiede l’ intervento di Mumbo Jumbo (di solito un amico di famiglia disposto a travestirsi). Quando la maschera arriva in casa, individua le responsabili o prende un paio di mogli a caso, le porta ancora piagnucolanti sulla piazza, le denuda e le riempie di sganassoni e pedate tra l’ ilarità e lo scherno della folla radunata a godersi il diversivo. L’ ambulanza chiude la festa mentre l’ amico incassa lo cheque.
Naipaul riserva uno sprezzo sincero solo alle brutture di oggi. La brutalità del passato sembra avere un rango differente, viene narrata piuttosto con rispettosa meraviglia. Viene ridotta ad elaborata ritualità di corte. Un crudo tassello di civiltà compiute.
Nonostante l’ ammirazione, evita con cura di propinarci una versione romantica dei culti tradizionali, sa bene che in passato la gente veniva uccisa come selvaggina, sa bene come molti monumenti non siano altro che piramidi di teschi e ossa, sa bene come l’ estasi della guerra fosse tra le più ricercate, sa bene come la stregoneria si regga su un reverente terrore e sull’ arbitrio. Sa bene come, diversamente dai mussulmani e dai cristiani, quella cultura non conosca il perdono.
Anzi, l’ arbitrio è l’ autentico veleno che ammorba la società tribale. Viene detto chiaro e tondo. L’ incertezza che procura blocca ogni istinto costruttivo. Quante storie giungono puntualmente ad una svolta che suona all’ incirca così: “… e poi perdemmo tutto perché la tribù della nostra famiglia fu accusata di aver fatto uso di incantesimi contro il dignitario della tribù rivale…”. La gente è convinta che la malaria, una delle maggiori cause di morte, sia da imputare alla stregoneria. Per loro non è uno scherzo: come possono ridere di cio’ che temono?
Tutto vero. Ma era pur sempre una cultura! E la rottura di quei freni culturali ha dispensato solo caos e anarchia. Con le nuove religioni il popolo diventa insubordinato e la democrazia, poi, non ha fatto che completare l’ opera aumentando lo smarrimento.
Naipaul è un anziano conservatore dall’ animo sospettoso e a volte persino meschino.
Ma tutto cio’ che c’ entra? E’ forse il più grande scrittore vivente, anche per questo la lettura del suo libro sull’ Africa regala un piacere unico.
Come certe strade in leggera discesa ti fanno sembrare un grande ciclista, una prosa che scorre su un impercettibile declivi ti fa sembrare un lettore di razza: non ne hai mai abbastanza, divori interi volumi senza sforzo e non temi le distanze. In un certo senso questo post, così infarcito di accenni a situazioni estreme, non rende giustizia di un testo che è invece morbido, sinuoso, con tante storie che si incastonano l’ una nell’ altra senza traumi. Che distanza dalle brillanti trovatine estemporanee con cui noi blogger tentiamo di attrarre l’ attenzione! Parlo di una virtù che è propria solo dei grandi narratori-maratoneti: Tolstoj, Flaubert…
Di fronte al talento adamantino, il conservatorismo passa decisamente in secondo piano. Direi di più, di fronte a tanta felicità espressiva, come non sospettare che l’ ideologia non sia al servizio della bellezza?
E’ proprio vero, chi non riesce a godersi l’ arte, cerca di consolarsi polemizzando con essa. E allora, ecco che all’ incontro clou del festival di Mantova, la solita intervistatrice sempre in cerca del colpaccio, davanti ad uno scrigno di tesori che chiedeva solo di essere scoperto, ha privilegiato la polemicuzza (come si sarà capito da quanto ho riportato, gli spunti non mancano) facendo scattare l’ irascibilità prima e il mutismo dopo.
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Dentro l’ Africa, c’ è un’ Africa che si chiama Etiopia. Per riabilitare quel misto di antiquato e moderno di cui diffida tanto Naipaul, mi raccomando proprio all’ Etiopia e alla meravigliosa sintesi della musica di Mulatu Astake riveduta e corretta dagli Heliocentrics.
Mulatu Astake and the Heliocentics – Inspiration information
Ci sono molti modi per redistribuire le risorse prodotte dalla società. il peggiore consiste nell’ adottare un sistema di tassazione progressiva. Privilegiando il ricco rispetto al ricchissimo non si aiutano i poveri ma si distorcono e di molto le scelte economiche.
Altri caldeggiano l’ adozione di misure sul genere del salario minimo. Peggio che andar di notte: qui i più deboli non solo non vengono aiutati ma vengono danneggiati rendendo più difficile il reperimento di un lavoro.
Non resta che garantire a tutti un reddito minimo: se si vuole davvero dare una mano a chi sta più indietro lo si faccia direttamente senza tanti infingimenti che spesso non fanno altro che nascondere secondi fini più o meno meschini.
Avere un piano regolatore viene considerato spesso essenziale, ma non è così: molte metropoli sono sorte ordinatamente e spontaneamente senza bisogno di alcun piano regolatore.
Cio’ non signidìfica che fossero assenti delle regole, solo che si trattava di regole uguali per tutti e non decise arbitrariamente a tavolino dalla politica, anzi, meglio, dai burocrati. Un gran risparmio, soprattutto in termini di corruzione del sistema.
La compravendita di cubature e diritti a inquinare completa l’ ordine dell’ urbanistica spontanea.
L’ ordine dei piani regolatori è spesso artificioso e arido, gli esempi sono molti e molto diffusi: certe architetture moderne decise dall’ alto incarnano la vera bruttura del nostro tempo. Al contrario, certi apparenti disordini, con tutta la vitale umanità che sprigionano, danno un senso di sicurezza e di calore.
Quando usi la parola privatizzazione, la gente si fa dura d’ orecchi. Smette di ascoltare; e se proprio non puo’ esimersi, fioccano i pregiudizi.
Perché allora non fare leva sull’ ipocrisia e sostituirla con una parolina più friendly, per esempio responsabilizzazione?
Il pregiudizio frettoloso arriva al punto che se spingi per privatizzare la scuola italiana ti danno come minimo del clericale. Vieni trattato come un crociata: vuoi fare un favore ai preti!
Lo so bene perché, vivendo vicino a dei ciellini, sento la crescente ostilità verso chiunque osi intraprendere iniziative privatistiche nel campo dell’ istruzione. E’ dura lavorare stando sempre in trincea. E’ una Sarajevo, i cecchini sono appostati dietro ogni montagnola e si sta come d’ autunno sugli alberi le foglie.
… Director Lotta Rajalin notes that Egalia places a special emphasis on fostering an environment tolerant of gay, lesbian, bisexual and transgender people. From a bookcase, she pulls out a story about two male giraffes who are sad to be childless — until they come across an abandoned crocodile egg… The school does everything possible to obliterate traditional gender roles, including a refusal to use the words “him” and “her”…
that there’s a long waiting list for admission to Egalia, and that only one couple has pulled a child out of the school.
Jukka Korpi, 44, says he and his wife chose Egalia “to give our children all the possibilities based on who they are and not on their gender…To even things out, many preschools have hired “gender pedagogues” to help staff identify language and behavior that risk reinforcing stereotypes.
Piace? Non piace?
Lasciamo perdere il merito, c’ è qualcosa di più importante.
Se conosco i miei polli, infatti, chi simpatizza con lo strano frutto, non simpatizza affatto con la pianta che l’ ha prodotto.
Quando si parla di finanza molti invocano subito più regolamentazione, spesso senza sapere che questo è di gran lunga il settore più regolamentato delle economie moderne.
Non solo, non esiste evidenza seria che dimostri come una finanza regolamentata sia più efficace di una meno regolamentata.
Impedire alle banche di fallire presenta molti inconvenienti.
1. Il numero ideale di fallimenti non è mai zero.
2. Se al settore verranno offerte garanzie ci saranno problemi di moral hazard: le banche prenderanno troppi rischi.
3. La regolamentazione introdotta per arginare il moral hazard di solito è facilmente aggirata mediante innovazioni finanziarie.
4. Il regolatore, quando va bene e si escludono i casi di malafede, è intrinsecamente ignorante, meglio non affidarsi troppo a lui.
5. A volte la cosa migliore è togliere regole, non metterle. A cominciare dalla famosa regola che impedisce di sospendere i rimborsi dei depositi in caso di “panico”.
Basterebbe un’ analisi delle recenti crisi per illustrare in modo vivido le tare a cui ho accennato.
Nei post precedenti mi sono innamorato delle spiegazioni che mettono l’ invidia al centro dei comportamenti umani.
Molti non sono d’ accordo. Ricordo anche di aver sentito non so più dove confutazioni che hanno del geniale.
Esempio. Se gli uomini sono invidiosi e quindi interessati alla ricchezza relativa, perché i politici si vantano tanto di aver aumentato la ricchezza assoluta?
Sarebbe più logico che si rivolgessero alla gente dicendo: “Votate per me. Sono in carica da quattro anni e le cose non sono mai andate così male!”.
Nessuno voterebbe chi ha peggiorato la propria situazione economica, ma chi entra in cabina sa già che è migliorata.
Proclamando di aver peggiorato quella degli altri, un politico si renderebbe solo interessante agli occhi di un invidioso.
La confutazione fila, senonché postula che l’ invidia si presenti allo stato puro; è facile invece che porti con sé l’ ipocrisia: l’ invidioso non vuole essere trattato come tale e un politico che lo facesse in modo scoperto potrebbe pagarla cara.
L’ abbinamento non è solo facile, è anche logico: l’ invidia è un sentimento socialmente distruttivo e occultarlo con l’ ipocrisia conviene sempre.
Io, che confessavo la mia refrattarietà, poi, quando viro verso il pianeta musica, divento un talebano della “scelta”.
Per delibarla al meglio faccio di tutto per renderla bizantina.
Un esempio.
Cosa ascoltare questo week-end?
La rete, le catene dei negozi, gli amici, la città… ci sono una marea di anfratti che nascondono musica valorosa, ma questo, anziché galvanizzare, intimidisce i tiepidi che ritirano le antenne pensando al tempo che scarseggia e a come ci vorrebbero cento occhi quando il padreterno, quel furfante, con loro si è limitato a due, e con quei due non vedono altro che immondizia.
Non sono di quella razza, mi metto al lavoro di prima mattina, so in anticipo che esiste musica innovativa e di qualità disponibile senza cacciare una lira.
Dalla risistemazione neuronale notturna, qualche nome spunta con regolarità al momento del caffélatte.
Mai sentito parlare di… come si chiama… ah, sì… Enrico Gabrielli?
Se vi piacciono le selve di clarinetti sovraincisi, è il vostro uomo. Ultimamente ha rifatto a suo modo Reich, Gabrieli e Andriessen.
Non vado oltre visto che le musiche sono gratuitamente scaricabili qui.
Sono anche presentate in modo vivido rendendo accessibili una serie di e-mail che all’ epoca il tormentato autore inviava a non so quale mentore.
Aggiungo solo che in passato avevo corteggiato la Sacrae Symphoniae in versione gabriellana per farne la mia soneria.
Il progetto sfumò: Giovanni Gabrieli fu il più grande maestro dell’ antifona veneziana cinquecentesca; il giovane rielaboratore sfrutta al meglio le qualità di una musica del genere facendola rimbalzare rocambolescamente per le casse.
Ma ahimé, un simile gioco di botte e risposte va perso nel minuscolo anfiteatro del mio cellulare, e constatare il depotenziamento dell’ originale progetto ad ogni squillo telefonico mi deprimeva troppo.
[Per la soneria estiva ripiego sul riff iniziale di Utopia (un summer hit da sballo)]
A Gabrielli si potrebbe affiancare un terribile coetaneo d’ oltreoceano: Muhly; ha tutta l’ aria di costituire un picco non effimero nel panorama contemporaneo.
Seeing is Beliving non passa certo inosservato: il pezzo omonimo, voglio dirlo, è una sequela di prelibatezze che dura 25 minuti 25, le orecchie ne escono esauste e appagate come… dopo una notte d’ amore (scusate la metafora dovuta alla fretta).
Ma soprattutto è interamente ascoltabile/scaricabile qui. (*)
mi chiedo ora se una mole del genere di musica non sia eccessiva per consentirci di entrare in intimità con lei nello spazio limitato di un week end?
Già, forse è proprio così: bisogna scremare le pepite con scelte a raffica che selezionino ulteriormente il materiale!
Wow, proprio quel che non vedevo l’ ora di fare: scegliere!
Dopo un ascolto, butto lì i fiori colti dal mazzo:
Ormai è tardi e non vedo al momento come raffinare ulteriormente il setaccio; dobbiamo abbandonare il vasto mare della rete, purtroppo il tempo delle scelte è scaduto. Non resta che accingersi all’ ascolto.
Già che siete qui non vi lascio a bocca asciutta, ecco l’ incipit del disco appena assiemato:
(*) Ho notato che il tempo disponibile per scaricare l’ intero disco di Muhly è scaduto; bene, vi tolgo dall’ imbarazzo della scelta.
Se devo comprare un maglione, io vado al bar, la Sara in negozio: mi chiama al cellulare solo quando si disputano i play off! Ovvero, quando la scelta è ristretta a due/tre esemplari.
Quindi, capisco bene chi non vuole avere niente a che fare con le scelte.
In passato (prima di conoscere la Sara) ero anche un fautore del matrimonio indiano quello in cui i genitori scelgono peri figli. Facevo anche delle reprimende ad alto volume rivolte a mia mamma (sbigottita, lei quando si sbigottisce ride) per la sua deprecabile passività!
Però distinguerei.
*** scelta come rischio
Tutti noi - chi più chi meno, le donne più degli uomini – siamo avversi al rischio, quindi soffriamo le scelte.
Se però mi guardo dentro, mi accorgo che in certi campi (quelli che più mi appassionano) la scelta è una ragione di vita: l’ attendo con trepidazione assaporandone ogni istante.
Falkenstein conferma: in borsa di solito ci si fa pagare per sopportare dei rischi, ma poi, non si sa come mai, pur di investire su certi titoli particolarmente rischiosi, si paga. La speranza trasforma l’ avversione al rischio in una propensione.
Distinguerei quindi gli ambiti prediletti da quelli indifferenti. Sia l’ opzione gregge che quella dado sono a disposizione per neutralizzare lo stress da scelta nel secondo ambito.
*** scelta come discriminazione
Quando scegliamo ci differenziamo. Per l’ invidioso è un problema.
In più lo facciamo consapevolmente, quindi attiriamo il giudizio altrui, il che amplifica il fastidio dell’ invidioso.
Se la natura umana risiede nell’ invidia (il che non è da escludere), limitare la libera scelta puo’ essere produttivo.
E’ la conclusione del mio post: perché i nuovi profeti del comunismo non puntano di più sull’ invidia!
Invece, dopo aver posto le premesse, ci si perde in speculazioni sull’ alienazione, la falsa coscienza ed altri esoterismi assortiti.
La secca volatilità delle favole di Esopo muove a un riso svelto, pronto a passare oltre, sollecito nel trasferirsi dalla pagina alle incombenze quotidiane.
Nell’ era della comunicazione in streaming 24 ore su 24, un raro esempio in letteratura di brevità conclusa.
Abbiamo a che fare con uno schiavo (frigio), e, si sa, la rapidità è difensiva: si allea bene con la prudenza, favorisce lo stare in guardia.
Lo schiavo disdegna il comunismo, come disdegna ogni vasto progetto; ambisce invece al piatto di minestra, e se proprio si abbandona a qualche chimera, sogna il figlio dottore.
Per indirizzarlo meglio lo esorta a condotte micragnose. Ad un’ empietà ragioniera, da mantenersi defilata. Quando poi gli eventi dovessero volgere al peggio, si gira pagina con una rapida imprecazione.
Omero andava matto per i nomi propri, Esopo esalta l’ anonimato: molti ruoli, nessun personaggio; molte pedine, nessun sentimento. Tutto è tagliato con l’ accetta per infilarsi al meglio sulla minuscola ribalta e per un tempo molto inferiore al quarto d’ ora.
Nelle sue storie sparagnine i grandi e gli umili vivono in arcaica contiguità dentro un anonimato che livella tutto in un’ unica grande plebe.
Quando le brevi vicende narrate, già di per sé essenziali, si asciugano ulteriormente, a volte superano una soglia magica e si trasformano in enigmi fulminei che ci guardano taciturni dalla pagina.
Ecco, in questi casi noi cessiamo di capire. O meglio, capiamo solo che il commentatore postumo (*) non ha capito niente.
Esopo – Favole – BUR (introduzione - che vale l’ acquisto - di Giorgio Manganelli)
(*) Al termine di ogni favola è aggiunta postuma una morale.
Diana, Vlad, vi assilla il punto 2? ma allora Cimatti vi darà delle soddisfazioni: per lui la natura umana è infinitamente flessibile. Dietro tanta biologia, in questi scritti cova in realtà la classica posizione culturalista.
Un uomo puo’ diventare donna e viceversa, un bambino e un adulto possono scambiarsi i ruoli. Tutto si puo’ fare, basta che la comunità lo voglia.
Una flessibilità del genere serve a concludere che persino il comunismo è possibile.
Tutto cio’ ci riporta all’ ultimo capitolo. L’ ho ultimato da poco ed è inutile faccia un altro post, riporto qui qualche considerazione.
Ripeto solo un concetto importante, non bisogna impressionarsi quando Cimatti parla di “biologia” (o natura). E’ un semplice rinvio al concetto di “necessità”.
Ai tempi di Marx andava di moda la Storia e si parlava di necessità storica. Oggi va di moda la scienza e si parla di necessità biologica.
Non farlo ti emarginerebbe ancora di più dalla comunità dei filosofi, e questo è un libro che già emargina parecchio il suo autore.
Veniamo al capitolo finale del libro.
***1
Si comincia dicendo che il comunismo è un’ utopia, anzi, è l’ utopia per eccellenza. Ma poiché la natura umana è infinitamente flessibile e sempre proiettata verso il possibile, cio’ fa del comunismo lo sbocco naturale dell’ agire umano.
Il comunismo è sempre oltre rispetto a cio’ che si realizza, è dunque sempre nella categoria del possibile. D’ altro canto non è mai impossibile visto che la natura umana puo’ sempre modificarsi coevolvendo con l’ ambiente che trasforma.
Capito? Ebbene, io non sono un pragmatista, ma qui rimpiango un po’ del sano pragmatismo di diana.
***2
Si lavora per consumare (1) o si consuma per lavorare (2)?
Cimatti, da buon marxista, prende (2): il lavoro è l’ essenza dell’ uomo (attenzione, lui non direbbe mai essenza).
Altra domanda: che bisogno soddisfa l’ “oggetto lavorato”?
Noi pensiamo subito al consumatore. Ma questo solo perché il capitale parla attraverso i nostri corpi! In realtà il lavoratore va messo davanti a tutto.
L’ oggetto lavorato soddisfa i bisogni… del lavoratore!
Tutto questo ci sembra il mondo gambe all’ aria. Sono idee strane e, semmai, molto remote; ma pensiamo solo all’ incipit della nostra Costituzione e all’ area culturale da cui proveniva chi l’ ha redatto!
Poiché l’ alienazione si realizza quando s’ invertono i mezzi con i fini, e considerata la catena causale ipotizzata dal marxismo, si capisce meglio perché Cimatti reputi il capitalismo un sistema alienante: lì ci sono dei lavoratori che producono per soddisfare le esigenze dei consumatori, tutto il contrario di quanto afferma l’ ideologia!
***3
Come si giunge a stimare il valore oggettivo di un bene?
Cimatti rispolvera la vetusta teoria del valore-lavoro (v/l): un bene vale per il lavoro che incorpora.
Questa teoria ha un inconveniente: ammettiamo che io dopo lunghi studi, intraprenda lo scavo in giardino un buco profondissimo che successivamente, come progettato, mi affretterò a ricoprire.
Conseguenze: io affaticato ma creativamente soddisfatto; mia mamma incazzata come una iena.
Secondo la teoria v/l, il sudore speso sulle carte e quello versato al badile danno alla mia opera un enorme valore oggettivo che qualcuno dovrà pur ricompensare.
Insomma, la teoria v/l non sembra in grado di distinguere tra gioco e lavoro.
Lo dico rispettosamente, ma a me questo sembra un inconveniente non da poco. E a voi?
In realtà, siccome i marxisti vivono sulla terra, la distinzione la fanno e al lavoro/giocoso contrappongono il cosiddetto lavoro salariato, che considerano alla stregua del diavolo in terra.
[… nella storia del pensiero la teoria v/l fu spazzata via dal cosiddetto marginalismo… tornare a parlarne è un po’ come vedere girare nel traffico la vecchia cinquecento…]
***4
Conclusioni: 1. l’ uomo è sempre proiettato verso il possibile e verso la creatività, 2. il fine della vita umana sta nel lavoro; 3. il comunismo valorizza al meglio il lavoro creativo (gioco) poiché, grazie a v/l, non lo vincola alle esigenze altrui; 4. inoltre, per quanto improbabile, il comunismo non è impossibile data la natura infinitamente flessibile dell’ uomo. Quindi: 5. il comunismo realizza al meglio la natura dell’ uomo.
Con uno sforzo non da poco posso comprare 1. Non chiedetemi di più.
Il resto non me lo faccio rifilare neanche in stagione di saldi ideologici.
lo so, magari Cimatti ha ragione, attraverso il mio corpo parla il Capitale.
Ma al momento il suo esorcismo non ha dato i frutti sperati. O forse sono un caso disperato di malafede.
Meritocrazia e test non fanno poi così rima come potrebbe sembrare, pe l meno se sono somministrati in modo sistematico.
Qualcuno pensa che rendano le scuole comparabili e le scelte delle famiglie più informate.
In realtà le scuole sono da sempre “comparate” dalle famiglie e i giudizi quasi sempre ben calibrati: si sa quali sono i professori e le scuole migliori. Se proprio si vuol far pesare la scelta delle famiglie, molto meglio i voucher.
E’ l’ eccessivo ossequio ai sindacati che si riflette poi in una poco flessibile libertà di assumere e licenziare che impedisce la competizione tra plessi scolastici.
Inoltre sull’ esito dei test bisogna andarci coi piedi di piombo:
1. Non catturano tutto, e forse nemmeno l’ essenziale.
2. Uniformano gli sforzi verso il basso e i metodi one-fit-all.
Molti ritengono che il governo debba occuparsi dei poveri perché la loro triste condizione è dovuta più a sfortuna che a pigrizia.
In parte questo è vero e, infatti, in parte del problema si è da sempre occupata la carità privata.
Una diffusa religiosità era la fonte di una naturale generosità: qualcuno ha ammazzato questa risorsa preziosissima, questo qualcuno sono i programmi pubblici di lotta alla povertà.
La carità pubblica ha poi dei costi suoi propri: disincentiva il lavoro, per esempio.
In secondo luogo fomenta l’ invidia e la richiesta d’ aiuto da parte dei “meno poveri” in un crescendo che instaura la cosiddetta “cultura del piagnisteo”: chi più piange, più ottiene. Un sintomo di questa degenerazione è il significato vieppiù dilatato assunto dal termine “povertà”.
C’ è poi il risentimento di chi dà senza voler dare nei confronti di chi riceve. Un risentimento che corrode il collante della società.
Conclusione: se oggi la condizione dei poveri è più dignitosa non possiamo imputare meriti alle politiche specifiche quanto al fatto di vivere in un mondo enormemente più ricco rispetto a ieri.
Per combattere la criminalità abbiamo bisogni sia di beni pubblici che di beni privati.
Tra i primi annovero senz’ altro una polizia nazionale.
Ma ci sono anche i secondi: lucchetti, allarmi, cani da guardia, armi… e anche i tribunali.
Sì, anche i tribunali possono essere in qualche modo privatizzati, proprio come si fa con l’ arbitrato in ambito civilistico.
E il pubblico ministero? Qui si aprono discussioni che non possiamo seguire. Qualcuno pensa di negoziare il diritto all’ accusa. Ancora più praticabile un’ estesa depenalizzazione dei reati.
Ad ogni modo, come minimo, un voucher dovrebbe avvantaggiare chi utilizzando servizi privati non si avvalga di quelli pubblici.
Da ultimo la criminalità organizzata. Su cosa campa? Liberalizzare certe attività è il miglior modo per colpirla.
Felice Cimatti – Naturalmente comunisti – Bruno Mondadori
Il libro è difficile, ve lo dico subito. La densità filosofica dei primi capitoli potrebbe anche scoraggiare il bagnante estivo.
Quel che non si fatica a capire è con chi ce l’ ha:
… gli economisti, oltre ad essere in malafede… sono completamente infettati dal capitale, che letteralmente parla attraverso i loro corpi…
Devo ammettere che fa una certa impressione discorrere con chi ti ritiene “persona infetta” e in malafede.
Chissà se esiste una tecnica particolare per intervistare i pupazzi che hanno il “capitale” come ventriloquo. Anche le “infezioni” richiederanno distanze minime. Sicuramente c’ è una contromisura per tutto, anche se la malafede cronica potrebbe dare qualche grattacapo.
L’ aggressività di Cimatti ha comunque l’ effetto di trasformare in urgenza la lettura del suo libro, qualcuno potrebbe pensare ad un’ oliata tecnica di marketing.
Fortunatamente è altrettanto chiaro sulle tesi propugnate:
… la vita vissuto sotto il sistema economico che chiamiamo capitalismo è innaturale… la vita naturale… è quella che il filosofo Karl Marx chiamava comunismo…
Per il conduttore di fahrenheit, tanto per cominciare, il capitalismo non è solo alienante – questo lo dice anche il Papa, che non si sente un comunista naturale – ma è necessariamente alienante.
L’ uomo, ipnotizzato e reso passivo dallo spettacolo della “merce”, entra totalmente al suo servizio. Non servono moniti per far cessare l’ inganno, qualcuno deve semplicemente spegnere la lanterna magica e farla finita. Solo così intaccheremo la fede più retriva che esista: quella nel denaro.
In secondo luogo, nella società capitalista far soldi diventa che lo si voglia o no un pensiero fisso, cosicché il sistema sviluppa presto una sua impermeabilità a qualsiasi etica.
Sono affermazioni forti, ma per fortuna testabili: misuriamo se le cose stanno davvero così! Benjamin Friedman, che c’ ha provato, è giunto a conclusioni opposte: la ricchezza innalza lo standard etico e la consapevolezza del soggetto.
Ma Cimatti, almeno inizialmente, le dà per scontate. E’ più interessato a ricostruire le ragioni di un simile sfacelo.
E le ragioni sarebbero biologiche.
Anche per questo, parlando con Vlad, mi ero illuso che considerazioni fatte altrove tornassero buone in questa sede.
Senonché, siamo o non siamo in Europa? E allora rassegniamoci, le cose sono molto più complicate:
… la natura umana è qualcosa di troppo importante per lasciarla solo agli scienziati…
Coerentemente con questa affermazione, passando alla sostanza, la biologia si defila e cede il passo alla filosofia; è lei che dovrà fare sintesi e vedersela con i maledetti economisti!
Anzi, l’ approccio sociobiologico standard diventa presto un nemico da rintuzzare. Wilson e Pinker sono considerati, ma per essere di continuo riveduti e corretti in chiave filosofica.
Cosicché, la natura umana non puo’ essere circoscritta da alcuni istinti tipici, al contrario:
… la natura umana sta nella capacità dell’ uomo di pensare il possibile…
Qui la curiosità aumenta, perché se c’ è un sistema che privilegia la speranza – anche sulla felicità – questo è il sistema capitalistico.
Al punto che in passato è finito ripetutamente sotto accusa per i processi di distruzione creativa che innesca, per i stressanti cambiamenti continui che fomenta. Ma in questa requisitoria, sembrerebbe sia chiamato sul banco degli imputati per la palude stagnante e senza prospettive in cui ci costringe a vivere.
Tuttavia, a ben pensarci, forse il comunismo gode in effetti di un privilegio: quello di essere praticamente impossibile da realizzare, e quindi sempre pensabile come possibile in ogni situazione concreta.
Non avete l’ impressione di un leggero capogiro?
Tra le tante che mi lasciano dubbioso, cerco ora rapidamente di venire ad un paio di questioni nevralgiche. La prima è ben colta da chi si pone a questo incrocio.
Sono gli uomini che danno vita a relazioni o è la relazione che dà vita agli uomini?
Sono le parti che fanno il contratto o è il contratto che fa le parti?
Cimatti, sotto l’ egida di Durkheim, rifiuta l’ individualismo metodologico e prende la seconda via.
Io, con Weber, la psicologia evoluzionista, quasi tutte le scienze sociali contemporane e il buon senso, sarei più propenso a prendere la prima. Tuttavia, di fronte a palesi inconvenienti, non mi farei problemi a saltare il fosso.
Ma dove sono i palesi inconvenienti? Li vedo semmai sulla sponda opposta, là dove mi si chiede di approdare.
Ricordo, tanti anni fa, un bel dibattito su questo punto; allora Cimatti avrebbe avuto come formidabile alleato il guru della nuova destra Alain De Benoist. Un caso? Non penso, di sicuro un inconveniente!
[Parentesi: anche l’ antropologia cristiana ondeggia pericolosamente su questo crinale quando comincia a discettare in modo ambiguo sulla distinzione tra individuo e persona. Poi, fortunatamente, ciascuno riconosce che nel giorno del Giudizio staremo a quattr’ occhi di fronte al buon Dio, e così la concezione individualista s’ impone per forza di cose…]
La relazione, il contratto… tutta roba che per essere realizzata ha bisogno di una lingua, ovvero di un bene che noi riceviamo dall’ ambiente. Su questo aspetto il capitalismo, secondo Cimatti, sarebbe cieco:
… la lingua come prodotto di un singolo individuo è un assurdo… ma altrettanto lo è la proprietà privata delle altre risorse (pubbliche)…
Detta così sembrerebbe che Tremonti voglia privatizzare gli aggettivi. Il che effettivamente sarebbe assurdo.
C’ è una bella differenza tra la parola “bicicletta” e la mia bicicletta.
La mia bicicletta è una e, se permetti, la uso io. Visto che se la uso io non la usi tu (e viceversa), urge una regola.
La parola possono usarla tutti, persino in un regime capitalista. Possiamo usarla anche tutti insieme contemporaneamente. Qui non serve una regola che governi le precedenze.
Se alla ruota della fortuna qualche “speculatore” compra una vocale, nessuno si preoccupa della possibile incetta. Ciascuno di noi ha con sé tutte le vocali che gli servono. Non serve un referendum per stabilire che le parole siano gratuite. Il capitalismo è un metodo per affrontare la scarsità, parlando della lingua siamo fuori dal dominio che si pone.
Un altro passaggio stimolante:
… io esisto semplicemente perché, prima di me e senza alcun mio merito, una precedente comunità mi ha fornito i mezzi materiali e linguistici per diventare umano…
Prima osservazione: di sicuro il Cioran che sta leggendo Diana trasformerebbe quel “senza alcun mio merito” in un “senza alcuna mia colpa”!
Ma a parte le considerazioni parossistiche, bisogna riconoscere che l’ ambiente in cui abbiamo vissuto condiziona la nostra personalità.
L’ ambiente ci condiziona per il fatto stesso di esistere, l’ isolamento, in questo senso, è pensabile solo a livello metafisico.
Ma questo comporta forse degli obblighi da parte di qualcuno?
Merito e colpa richiedono l’ esistenza di un’ intenzione. Ma il processo evolutivo è cieco, non esiste intenzione, solo fortuna, quindi per i frutti che produce non esistono meriti da premiare né colpe da punire.
Certo, il figlio è riconoscente verso i genitori. Il credente ringrazia Dio. Ma lì è presente un’ intenzione, una provvidenza; invece, dal puro e semplice condizionamento, come potrebbe mai nascere un obbligo giustificabile con la premiazione di un merito?
Comunque sento che presto parleremo di atomismo sociale, speriamo che lo si faccia con le dovute avvertenze.
***
Per ora mi fermo qui. Sebbene gli argomenti non sfavillano quanto le tesi (che grazie alla loro radicalità s’ impongono meglio all’ attenzione), la lettura è stata una buona occasione per ripassare Wilson, Pinker, Chomsky; per rispolverare Hobbes e Durkheim, per riesumare il cadavere di Marx, e anche per scoprire un autore a me sconosciuto: Gehlen.
Sono a metà del quarto capitolo e il libro, perorando un generico comunitarismo, avrebbe potuto intitolarsi anche “Naturalmente fascisti”, ma il quinto e ultimo capitolo (“Comunismo”) forse ha qualcosa da dire in merito.
***
A conclusione lasciatemi fare una piccola postilla e poi non vi annoio più.
Altrove ci chiedevamo “perché gli intellettuali stanno a sinistra?”; forse perché cause improbabili richiedono argomenti contorti che, se visti sotto una certa luce, sono a loro modo sofisticati.
Chiudendo il libro sento che questa ipotesi viene in qualche modo corroborata.
Eppure nel caso di specie esistono argomenti semplici che scuotono in modo più efficace le mie certezze di apologeta del capitalismo pronto alla conversione.
Eccone uno: l’ uomo (più che egoista, razionale, aperto al possibile…) è fondamentalmente invidioso. Già oggi molti fenomeni riscontrabili nell’ economia di mercato sono spiegati al meglio valorizzando il ruolo dell’ invidia. Perché il neo-comunismo punta così poco sul sentimento verde?
Gettier con un articolo di tre pagine mise in crisi gli epistemologi.
Si riteneva che "conoscere" equivalesse a sapere che una certa cosa era vera quando questa cosa era vera e si era giustificati a credere alla sua veirutà.
Gettier mostra che anche se c' è 1) credenza 2) verità e 3) giustificazione, non si puo' parlare di conoscenza.
Alternative?
Forse l' alternativa migliore consiste nel considerare la conoscenza un processo anziché uno stato:
1) io credo a X (fino a prova contraria) perché alle mie facoltà X appare come vero
2) mi si presenta una prova contraria
3) rintuzzo la prova contraria e torno a credere a X (fino a nuova contraria) oppure accetto la prova e credo a non-X (fino a prova contraria)
In questo processo non esiste una netta distinzione tra credere e conoscere.
Se però ci accontentiamo potremmo dire che chi conosce s' impegna a seguire un processo (quello sopra descritto) a cui chi crede si disinteressa.
E’ giusto che il governo intervenga nelle emergenze a seguito di disastri naturali. Il problema è che spesso non si limita a questo trasformandosi in un vero e proprio assicuratore.
Poiché taluni disastri sono frequenti e in buona parte prevedibili, cio’ è fonte di cattivi comportamenti.
Abusivismo, incuria del territorio, tutto diventa sensato: in caso le cose vadano male si riscuoterà l’ assicurazione della Protezione Civile.
Chiudo facendo rilevare che se esiste un ente che si dedica alle emergenze, le emergenze si moltiplicheranno al fine che si moltiplichino gli affari. Teoria? No, cronaca, specie in Italia.
La cosa migliore è limitarsi all’ emergenza dell’ immediato, quella vera, quella nella quale ci sono ben pochi affari da concludere.
Beati i poveri di spirito, dice l’ evangelo, e mi sia consentito d’ interpretare questa beatitudine come una maledizione contro l’ ipocrisia.
Poiché a una simile invettiva nessuno oserebbe opporsi, cerco di estendere il dominio della maledizione nella speranza di fomentare un fertile disaccordo.
Da dove nasce l’ ipocrisia, a chi e a cosa puo’ essere imputata?
Per abbozzare una risposta mi faccio aiutare da un sommo conoscitore di epoche in cui l’ ipocrisia trovò la massima fioritura:
[Giovanni Macchia – La scuola dei sentimenti. Il teatro francese sotto Luigi XIV – Editori Riuniti]
Dopo l’ ascolto del maestro, l’ impressione è che nella genesi sia in qualche modo implicata un’ attenzione spasmodica al linguaggio, un’ attenzione che, non lo nego, nella sua fase iniziale puo’ avere anche intenti nobili.
Il lato lunare delle parole sopravanza sempre più quello solare, si scopre che l’ ombra è altrettanto feconda che la luce, se non di più.
La comunicazione guadagna lentamente il centro della scena.
C’ è una sorta di insana ossessione per i sentimenti risvegliati dalle sfumature espressive. Nel linguaggio si confida molto, al punto da vederlo come uno strumento di governo (politically correct?).
Lo si analizza e lo si viviseziona innamorandosi di dense concettosità che fanno tremare chi è chiamato ad aprire bocca: costui sa bene cosa dirà ma è totalmente all’ oscuro di cosa segnalerà.
La parola è cesellata in modo estenuato. Un’ opera alacre il cui prodotto finito sono delle vere e proprie maschere da mettere o togliere a seconda delle evenienze.
Con l’ avvento dei mafiosetti, le strizzate d’ occhio abbondano, le polisemie si moltiplicano e i sensi vengono continuamente arricchiti, rimpolpati, appesantiti e resi problematici.
Il disinteresse o lo scetticismo per i riferimenti esterni fa assurgere a capolavoro l’ ornamento e la cornice. Siamo presto circondati da esperti che dicono e spiegano troppe cose. Indagatori schematici chiamati a squadrare la giungla.
Prende piede il gusto per il difficile (cosa segnala quel sorrisetto? a cosa allude la grinza sul naso?)
La carta millimetrata avvolge tutto, la spigolosità del reale viene smussata dall’ analisi, le cose sembrano scomparire, il loro gaio fracasso sfuma, si giace su una coordinata e non più nel “qui ed ora”, il territorio si dissolve intorno ai nostri piedi.
Resta solo la mappa contornata dai suoi esegeti che, rinchiusi in una cella astratta, s’ impastoiano nell’ infinito dibattito su segni e parole.
Tutta la metamorfosi del reale si svolge al chiuso: l’ asfittica aula del professore, l’ arida mente di uno spin doctor (Mazarino? Rondolino?). Manca il tempo per vivere e sperare, quando si è chiamati ad interpretare.
L’ ermeneuta, nel suo lento discorso, espone la ricetta per ottenere un “tono medio” in grado d’ insinuarsi in una classificazione precedentemente stilata e che sembrava definitiva.
Qualcun altro è destinatario della sottile consulenza, ma il vero divo è lui. Fa niente se pochi capiscono, lui parla per un’ elite e presto parlerà solo per il Re.
Il sentimento è visto come un punto debole da proteggere o da sfruttare; è una realtà gesuitica in cui vince chi governa al meglio il gioco del simula et dissimula.
Il sentimento e l’ istinto esistono solo in rapporto alla ragione che li scopre, che li scruta e li ingigantisce. Poi li usa con raffinata astuzia. Talmente raffinata da non saper evitare polveroni moralistici in cui denunciato e denunciante si confondono.
***
A questo punto parte la difesa d’ obbligo dell’ ermeneuta: non sono io barocco, è il mondo ad esserlo.
Dici?
Io e l’ evangelo pensiamo invece che potrebbe esserlo molto meno se solo indirizzassimo i nostri sforzi altrove (betting, not talking) anziché impegnarci in una schermaglia linguistica destinata all’ escalation entropica.
Molti sostengono che il governo debba possedere un canale televisivo e/o radiofonico che trasmetta programmi di qualità. Ne sappiamo qualcosa noi italiani cresciuti con Mamma Rai.
Ma chi decide quali sono i programmi di qualità?
Dopo non aver risposto alla domanda, constatiamo mestamente che tutti i media pendono a sinistra e i media governativi ancor di più. Come chiedere a un conservatore di pagare lo stipendio a un anchor man liberal la diffusione delle cui idee ritiene altamente nocive? Se la prima domanda era difficile, questa è impossibile.
Chiudo dicendo che anche il privato sa produrre qualità, gli esempi non mancano, a partire da History Channel.
La lotta contro il riscaldamento globale infervora la politica del nostro tempo, forse perché fiuta l’ affare, molto “rosso” ieri in circolazione ieri e oggi non più presentabile si è ridato una spruzzata di “verde”.
Il fatto è che dietro ai sociologismi c’ è poi la questione di sostanza. Gran parte del merito è in mano alla scienza: quanto si sta scaldando il pianeta? In che misura ne sono responsabili le attività umane?
Quand’ anche però i precedenti interrogativi fossero appianati, i problemi più grossi della faccenda resterebbero intocchi.
Come calcolare le conseguenze del riscaldamento? Dopotutto, molti posti del nostro pianeta non sono accoglienti perché troppo freddi. Altri, sebbene molto caldi, sono stati resi ospitali.
Buona parte dell’ effetto serra, poi, è responsabilità dei governi. Con che coraggio si impedisce alle aziende che forniscono energia di tariffare in base ai periodi innalzando i prezzi durante i picchi? Con che coraggio esistono ancora parcheggi gratuiti e strade senza pedaggio? Prima di inaugurare nuove politiche, vediamo di far cessare quelle cattive.
C’ è poi la questione delle politiche concorrenti: in termini umani Kyoto vale più di una campagna contro la malaria? A occhio e croce direi proprio di no.
Come dicevo, tra gli ambientalisti ci sono molti riciclati di cui è lecito dubitare. Prendiamo le riserve contro soluzioni improntate al geoengineering, si ha la netta sensazione che siano avversate per il semplice fatto che non costringono la popolazione a rivedere iil suo stile di vita.
S’ invoca un limite di spesa nel finanziamento delle campagne elettorali al fine di porre un argine a candidati super potenti.
Ma i soldi non sono voti e convertire i primi nei secondi è tutt’ altro che agevole.
Misurando la cattiva reputazione dei “ricchi” nelle democrazie moderne si ottiene un indice di come i soldi influenzino le opinioni. Per non parlare delle onnipresenti politiche redistribuite.
Ma è davvero così disdicevole investire nella politica? A volte l’ unico effetto che si ottiene è quello di far pesare di più un’ opinione informata rispetto al disinteresse generalizzato. Effetto tutt’ altro che malvagio.
E poi, anche se dei limiti ci fossero, come farli rispettare? L’ impresa non è agevole. In questi casi la trasparenza sopravanza la proibizione.
Senza il governo sembra che la discriminazione non possa essere combattuta.
In effetti sul mercato esiste un gap in relazione a sesso e razza.
Ma la discriminazione sembra contare ben poco, altri sono i fattori in gioco, per esempio, le donne sembrano preferire lavori a basso valore aggiunto (insegnamento, cura…). Si tratta di fattori culturali e ogni popolo ha la sua cultura.
Cosa resta delle politiche discriminatorie? La punizione inflitta ai migliori.
I “migliori” dei gruppi penalizzati sono esclusi ingiustamente. I “migliori” dei gruppi avvantaggiati sono sottoposti a pregiudizio immeritato visto che ce l’ avrebbero fatta anche senza spintarelle.
Il mercato rende molto costoso discriminare senza gli inconvenienti delle politiche anti-discriminatorie.
Una società dove impera la “quota” è una società costruita in laboratorio sulla carta millimetrata, un obiettivo a dir poco complicato, conclusione che deve essere condivisa anche da chi si è infilato su quella strada in buona fede.
I sindacati non sono un male in sé, lo diventano nel momento in cui cominciano ad avere protezioni governative.
I sindacati vorrebbero alzare i salari. Stando alle evidenze non sembrano esserci riusciti: il livello dei salari nei vari paesi non è legato all’ importanza del sindacato.
In realtà la diffusione dei sindacati ha soprattutto un effetto: cambia i metodi produttivi. Automazione e outsourcing diventano convenienti.
Per i sindacati non resta che puntare sulla redistribuzione delle risorse, per farlo si politicizzano abbandonando la fabbrica dove erano nati.
ma la redistribuzione voluta dai sindacati è a dir poco curiosa: avvantaggia solo i lavoratori iscritti al sindacato.
In Italia ne sappiamo qualcosa di “mercato duale”.
Molti sostengono che la politica debba finanziare la ricerca di base poiché il mercato non è in grado di farlo e da essa dipende anche la ricerca applicata.
Sarà vero?
Galileo, Newton, Cartesio, Darwin, Pasteur, Adam Smith, Milton Friedman… hanno operato senza sovvenzioni. Cio’ dimostra che il privato può produrre ottima ricerca di base.
Non tutti sanno poi che spesso è la ricerca di base che fiorisce da quella applicata.
Resta poi la questione di base: chi decide?
Chi decide se si va sulla luna o si costruisce una pista per elettroni?
Il burocrate, non proprio la persona più adatta, direi.
Per i san Tommaso c’ è poi l’ evidenza: a grandi sovvenzioni statali non corrispondono grandi scoperte. Corrisponde piuttosto uno spiazzamento della ricerca privata che, se continua a esistere, spesso diventa parassitaria.
Le tasse servono a molte cose, ma hanno anche un costo: distorcono le decisioni economiche.
Chi per sua scelta vorrebbe lavorare dieci ore al giorno si rassegna a lavorarne otto una volta resosi conto che il suo salario è decurtato dalle tasse.
L’ unica tassa che non “distorce” è quella per capitazione: mille euro a testa e via. Non è molto diffusa.
Le distorsioni si moltiplicano all’ infinito quando le politiche diventano sempre più “mirate”.
Un altro costo delle tasse è la compliance: farle pagare costa, a volta addirittura più di quel che si raccoglie.
L’ ultimo costo è il più rilevante: l’ inefficienza. Le risorse spese dal burocrate sarebbero state spese con più oculatezza da chi le ha prodotte.
Chi vorrebbe chiudere le messe in Chiesa, giudica impudica l’ ostensione per strada che Matana fa del suo suono.
Da vera buskers lo prende e lo sbatte sull’ asfalto invitando a guardare e a danzare.
E’ franto e bianco come un osso spezzato. E’ scarnificato come uno scheletro.
Ma sorride paziente, come il bambino insidiato dall’ inedia.
Sbozzato di fresco, comincia a muoversi a scatti, come un pinocchietto. Cerca a mici. Chiama la mamma con urla in cui il capriccio ammanta la disperazione.
Ma perché, Matana, non aggiungi qualcosa a quell’ erba scondita?
Fa rabbia la mancanza di ambizione di certi artisti neri. L’ indolenza della parlata si prolunga puntualmente nello strumento, e non si conclude un discorso.
Orecchiano un groove puerile e vi si abbandonano trascurando il capolavoro che stavano intessendo.
Forse sono troppo concentrati su qualcos’ altro. Qualcosa che a noi religiosi-da-chiesa sfugge una volta fuori, per la strada, a contatto con quelle caco-filastrocche da marciapiede.
Matana Roberts - Coin Coin Chapter One - Gens de Couleur Libre
Ce n’ è voluta per liberarla dal fastidioso imballaggio del quotarosismo, così come dall’ involucro del terzomondismo. Di fronte a certi fenomeni il sospetto è sempre forte e l’ accertamento costoso, di solito mi tocca lasciare perdere e puntare su altro (uomini bianchi, possibilmente nordici). Ma questa volta s’ intuiva qualcosa in più e mi sono dato da fare: dopo pochissima buccia ho potuto già incontrare la sugosa polpa.
L' Economist si sbaglia. Berlusconi ha sì «f...o l'Italia», ma non per averne frenato la crescita. Ho calcolato la media aritmetica del tasso di crescita del Pil negli ultimi vent'anni, separatamente per i Governi di centro-destra e di centro-sinistra. È vero, sotto il centro-destra il Paese è rimasto in stagnazione, con una crescita media dello 0,1% all'anno, mentre sotto il centro-sinistra la crescita media è stata dell'1,4 per cento: una differenza apparentemente abissale, se composta su venti anni.
Ma un confronto corretto dovrebbe tener conto della situazione internazionale, e il centro-destra ha governato durante periodi (i primi anni duemila e ovviamente l'ultima recessione) in cui la crescita in tutto il mondo è stata molto più bassa.
La differenza rispetto agli altri Paesi è stata pressoché identica sotto i due schieramenti (anzi, di pochissimo migliore sotto il centro-destra): in entrambi, l'Italia in media è cresciuta di circa l'1,1 % all'anno in meno degli altri Paesi Ue, l'1,2% in meno dei Paesi del G7, e l'1,4% in meno dei Paesi Ocse. Numeri disarmanti, ma bipartisan. E ci dicono che tendiamo a dare troppa importanza ai Governi; appena l'economia va bene, i sostenitori del Governo gli attribuiscono tutti i meriti; quando va male gli oppositori gli attribuiscono tutte le colpe.
In realtà, perché le riforme si riflettano in un miglioramento osservabile della crescita ci vogliono spesso anni. Un Governo, questo sì, può invece rovinare facilmente e velocemente un Paese, come sanno bene per esempio i cittadini di Venezuela e Zimbabwe. Ma fortunatamente nella seconda Repubblica abbiamo avuto ministri dell'Economia competenti che hanno almeno evitato grossi disastri: questa è una differenza rispetto agli anni Settanta e Ottanta di cui spesso non ci rendiamo conto.
Dunque la vera eredità negativa di Berlusconi non è stata l'economia. La prima eredità è stata aver riportato indietro il dibattito sociale di trent'anni. Berlusconi ha confermato e anzi rafforzato l'avversione che la maggioranza degli italiani, di destra e di sinistra, prova istintivamente per il mercato. Ha rafforzato l'innata convinzione di molti che tutte le riforme siano una congiura dei ricchi contro i poveri.
L’ articolo più originale della nostra Costituzione è il 9:
“… La Repubblica… tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione…”.
Non esiste nulla di simile al mondo, e non è un caso.
L’ idea che la protezione dei beni culturali sia da sottrarre alla buona volontà delle persone è una primizia che l’ Italia ha esportato ovunque.
Ma cosa significa pensare al Colosseo come ad un “bene comune” per tutti noi?
La risposta canonica che si dà a questa domanda divulga un pensiero insidioso autorevolmente esposto da Salvatore Settis: il cuore della nostra identità sta nel nostro patrimonio storico-artistico.
Difendendo la bellezza, difendiamo noi stessi. Anche per questo tali beni devono restare pubblici (=statali).
Per gli appassionati di filosofia potrei tradurre così: è la “struttura” che ci determina!
Poiché Settis è fermamente convinto che sia il contesto a formare il pensiero delle persone e quindi la loro sostanza, l’ azione decisa dello Stato diventa indispensabile in queste faccende. Solo lo Stato ha un qualche controllo sul “contesto”.
Sembra paradossale, ma in qualche modo la nostra identità starebbe innanzitutto fuori da noi.
Nei suoi lavori trabocca dunque il culto dell’ ufficialità. Solo chi riveste incarichi ufficiali è degno di ricevere ascolto in materia. Poi, magari, mentre l’ “organizzazione” ingessata dalla sua autoreferenzialità è impegnata in coffee break, aperitivi di inaugurazione e brochure in filigrana, a salvare la pieve di campagna ci pensa un gruppo di maestre elementari, un laureato precario, il parroco o degli emeriti sconosciuti.
Il rischio è quello di sacrificare le persone sull’ altare della loro supposta identità. Conservare per conservare conserva tutto tranne il senso dell’ oggetto.
Adesso spero sarà chiaro il perché parlavo di “pensiero insidioso”.
Carlo Betocchi, riflettendo sulla bellezza, diceva: “ci occorre un uomo”. Ma, a quanto pare, non per tutti e non sempre un uomo è più interessante di una roccia o di un tramonto.
Don Giussani riteneva che la bellezza fosse portatrice di senso ma affinché svolga la sua funzione è necessario produrre un’ attenzione particolare.
Attenzione, sguardo… parliamo di qualcosa che parte dall’ uomo e investe la cosa.
Settis inverte le precedenze.
La questione non è da poco: prima le persone o prima i beni? Sono le persone a valorizzare i beni o viceversa.
Lo strutturalista privilegia una direzione ben precisa di questo nesso cruciale e lo strutturalismo di Settis salta fuori in ogni occasione.
Per esempio, celebrando l’ unità d’ Italia, sostiene con coerenza che essa deriva innanzitutto dall’ incommensurabile patrimonio artistico ricevuto dalle generazioni precedenti.
Ma allora la supposta “unità” si fonderebbe solo sul passato, esisterebbe a prescindere da noi.
Questo modo di guardare ai “beni culturali” uccide il singolo consegnandolo ad un flusso nel quale abbandonarsi rassegnato. E non escludo che per molti sia delizioso “abbandonarsi rassegnati”.
Intanto, forti del paradigma vincente, l’ etichetta di “bene culturale” spopola e dove viene apposta cala una sterile campana di vetro.
Lo stesso “Settis Re Mida” gira per il bel paese e qualunque cosa tocchi si trasforma in oro. Ma la lucentezza dura poco visto che dell’ oro acquisisce anche quella tipica immobilità pronta a ricoprirsi di muschio.
Con orrore Settis si volge indietro lamentando il proliferare di una burocrazia che congestiona gli amati tesori, ma, al tempo stesso, si rifiuta di scorgere alcun collegamento con le premesse che lui stesso ha posto con tanta eloquenza.
Intanto, per ragioni in gran parte avulse dalla storiella che ho raccontato, il paradigma dominante accusa un cedimento venendo qua e là sacrificato sull’ altare del profitto, del denaro, dell’ interesse privato.
Le sensibili antenne di Settis percepiscono il pericolo e fanno scattare l’ allarme.
Si potrebbe dire così: oggi una duplice minaccia attenta alla nostra preziosa identità: il negro straccione che sbarca a Lampedusa e il barbaro che entra nel business dei “beni culturali”.
L’ analogia è chiara: per un leghista i confini stabiliscono chi siamo, e vanno preservati a prescindere. Per Settis il patrimonio artistico forgia la nostra identità, e va preservato a prescindere.
In entrambi i casi i soggetti passano in secondo piano: bisogna difendere l’ oggetto che ci fa essere cio’ che siamo, e, se non vogliamo sparire, questa battaglia è prioritaria.
La coerenza ci spingerebbe ad opporci o a sostenere contemporaneamente entrambe le sensibilità. Ci riusciamo?
Sul punto vedo in giro tanta schizofrenia.
Luca Nannipieri – Salvatore Settis e la bellezza ingabbiata. – Edizioni ETS