Beati i poveri di spirito, dice l’ evangelo, e mi sia consentito d’ interpretare questa beatitudine come una maledizione contro l’ ipocrisia.
Poiché a una simile invettiva nessuno oserebbe opporsi, cerco di estendere il dominio della maledizione nella speranza di fomentare un fertile disaccordo.
Da dove nasce l’ ipocrisia, a chi e a cosa puo’ essere imputata?
Per abbozzare una risposta mi faccio aiutare da un sommo conoscitore di epoche in cui l’ ipocrisia trovò la massima fioritura:
[Giovanni Macchia – La scuola dei sentimenti. Il teatro francese sotto Luigi XIV – Editori Riuniti]
Dopo l’ ascolto del maestro, l’ impressione è che nella genesi sia in qualche modo implicata un’ attenzione spasmodica al linguaggio, un’ attenzione che, non lo nego, nella sua fase iniziale puo’ avere anche intenti nobili.
Il lato lunare delle parole sopravanza sempre più quello solare, si scopre che l’ ombra è altrettanto feconda che la luce, se non di più.
La comunicazione guadagna lentamente il centro della scena.
C’ è una sorta di insana ossessione per i sentimenti risvegliati dalle sfumature espressive. Nel linguaggio si confida molto, al punto da vederlo come uno strumento di governo (politically correct?).
Lo si analizza e lo si viviseziona innamorandosi di dense concettosità che fanno tremare chi è chiamato ad aprire bocca: costui sa bene cosa dirà ma è totalmente all’ oscuro di cosa segnalerà.
La parola è cesellata in modo estenuato. Un’ opera alacre il cui prodotto finito sono delle vere e proprie maschere da mettere o togliere a seconda delle evenienze.
Con l’ avvento dei mafiosetti, le strizzate d’ occhio abbondano, le polisemie si moltiplicano e i sensi vengono continuamente arricchiti, rimpolpati, appesantiti e resi problematici.
Il disinteresse o lo scetticismo per i riferimenti esterni fa assurgere a capolavoro l’ ornamento e la cornice. Siamo presto circondati da esperti che dicono e spiegano troppe cose. Indagatori schematici chiamati a squadrare la giungla.
Prende piede il gusto per il difficile (cosa segnala quel sorrisetto? a cosa allude la grinza sul naso?)
La carta millimetrata avvolge tutto, la spigolosità del reale viene smussata dall’ analisi, le cose sembrano scomparire, il loro gaio fracasso sfuma, si giace su una coordinata e non più nel “qui ed ora”, il territorio si dissolve intorno ai nostri piedi.
Resta solo la mappa contornata dai suoi esegeti che, rinchiusi in una cella astratta, s’ impastoiano nell’ infinito dibattito su segni e parole.
Tutta la metamorfosi del reale si svolge al chiuso: l’ asfittica aula del professore, l’ arida mente di uno spin doctor (Mazarino? Rondolino?). Manca il tempo per vivere e sperare, quando si è chiamati ad interpretare.
L’ ermeneuta, nel suo lento discorso, espone la ricetta per ottenere un “tono medio” in grado d’ insinuarsi in una classificazione precedentemente stilata e che sembrava definitiva.
Qualcun altro è destinatario della sottile consulenza, ma il vero divo è lui. Fa niente se pochi capiscono, lui parla per un’ elite e presto parlerà solo per il Re.
Il sentimento è visto come un punto debole da proteggere o da sfruttare; è una realtà gesuitica in cui vince chi governa al meglio il gioco del simula et dissimula.
Il sentimento e l’ istinto esistono solo in rapporto alla ragione che li scopre, che li scruta e li ingigantisce. Poi li usa con raffinata astuzia. Talmente raffinata da non saper evitare polveroni moralistici in cui denunciato e denunciante si confondono.
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A questo punto parte la difesa d’ obbligo dell’ ermeneuta: non sono io barocco, è il mondo ad esserlo.
Dici?
Io e l’ evangelo pensiamo invece che potrebbe esserlo molto meno se solo indirizzassimo i nostri sforzi altrove (betting, not talking) anziché impegnarci in una schermaglia linguistica destinata all’ escalation entropica.