PERCHE' NON SONO VEGETARIANO
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Se uno vive nel XXI secolo prima o poi dovrà chiedersi se sia giusto mangiare gli animali. In genere le persone hanno forti convinzioni su questo punto ma spesso si basano su vaghe intuizioni che si traducono nel dialogo da sordi tipico delle guerre culturali.
La domanda centrale da porsi è se la vita di un animale di allevamento valga la pena di essere vissuta, poiché l'alternativa realistica al consumo di carne non è una vita migliore dell'animale stesso ma molto più semplicemente il non venire al mondo.
Partiamo da un fatto incontrovertibile: il "dolore" degli animali schiavizzati e uccisi sarebbe irrilevante se incosciente. Investigare sulla coscienza degli animali diventa importante. La maggior parte degli animali ha sensori, ma, in assenza della coscienza, innescarli potrebbe non provocare l'esperienza soggettiva della "sofferenza". Purtroppo, il concetto di coscienza è problematico. Cos'è la coscienza? Il solipsismo ci impedisce di vedere quella altrui. Io sono cosciente, ma potrei mentire e nessuno potrebbe smascherarmi. Potrei avere dei dubbi anche sulla coscienza di mia figlia!. Di fatto una "cosa" è cosciente se è cosciente. Se è sensibile al bene e al male, se è libera, se è responsabile, se si rende conto.
Di certo gli animali hanno una coscienza inferiore a quella umana, indirettamente lo ammettiamo tutti non ritenendoli responsabili per quello che fanno; gli animali non rivendicano i loro diritti e anche l'animalista più acceso trova giusto schiavizzare il suo adorato cane. Tuttavia, potrebbero avere una coscienza in grado di provare dolore e sofferenza. Gli indizi fondamentali di una "coscienza inferiore" in questo senso sono due:
1. Un'architettura del cervello simile alla nostra e risultante dal medesimo processo evolutivo.
2. Comportamenti difficili da spiegare se non in riferimento all'esperienza cosciente.
2. Comportamenti difficili da spiegare se non in riferimento all'esperienza cosciente.
Fisicamente la coscienza sembra risiedere nella corteccia cerebrale posteriore, laddove c'è un certo ripiegamento che non saprei descrivere altrimenti (l'ho letto su un libro e mi fido). Non chiedetemi di più. Molte parti del cervello possono essere rimosse senza grandi cambiamenti nella personalità o nell'intelligenza, ma se mancano anche piccole parti della corteccia posteriore i pazienti perdono grandi quantità del contenuto cosciente: consapevolezza del movimento, consapevolezza spaziale, sonora, visiva, ecc. È importante riconoscere che la coscienza è una cosa specifica, fragile, con caratteristiche distinte che differiscono da altre attività neuronali che associamo all'intelligenza, quindi l'intelligenza degli animali rispetto agli umani non si correla necessariamente con il loro grado di coscienza.
Ora, tutti i mammiferi hanno una corteccia cerebrale, con gradi diversi di sviluppo. Pertanto, tutti i mammiferi sono probabilmente coscienti, sebbene con grandi differenze in vividezza e complessità. Uccelli e rettili sono un caso più difficile perché la loro evoluzione del cervello è divergente rispetto a noi. I pesci non hanno alcuna architettura neurale per le parti legate alla coscienza.
Lo studio del cervello è importante perché se schiacci una mosca, si dibattere ed emetterà forti rumori "arrabbiati" prima di soccombere, un uomo reagirebbe allo stesso modo. Se non sapessi nulla dell'architettura neurale delle mosche, potresti concludere che le mosche sono consapevoli e capaci di soffrire come noi.
Ma la coscienza non è il cervello, quindi un altro ambito di indagine sono i comportamenti animali. Si possono progettare test di "intelligenza" animale, come il test dello specchio (consiste nell'osservare la reazione dell'animale allo specchio). Ma gli elefanti (sicuramente coscienti nell'analisi dei cervelli) falliscono regolarmente nel riconoscersi mentre più di un pesce lo passa. Considerando anche la dissociazione tra coscienza e intelligenza direi che questi test hanno un'importanza relativa.
Alcuni studiosi osservano comportamenti che si associano a stati emotivi simili a quelli umani. A volte c'è grande differenza nell'intelligenza ma grande somiglianza nel comportamento. In questi ultimi casi è plausibile che l'animale stia vivendo un'esperienza cosciente simile alla nostra. Quando giochiamo con il nostro cane percepiamo un suo coinvolgimento cosciente, al di là della sua intelligenza. Gli scimpanzé che vedono un altro scimpanzé perdere un combattimento lo consolano con un sovrappiù di grooming, cosa impossibile da immaginare senza una bruciante sconfitta. Tutto sommato, trascorrere del tempo con gli animali (in particolare i mammiferi superiori) rende abbastanza difficile immaginare che siano tutt'altro che coscienti, anche se la mera intelligenza potrebbe da sola spiegare molto direi che non spiega tutto. C'è anche da dire che la gamma e la complessità dei comportamenti animali è strettamente correlata all'architettura del cervello che riteniamo causa la coscienza: più complessa è l'architettura del cervello, più il comportamento è "umano".
Gli animali che intendiamo come coscienti hanno meno probabilità di esibire un comportamento "meccanico" tipico degli automi. Esistono molti esempi di comportamento "robotico" negli insetti (tipo i vortici della formica, il volo ripetitivo delle api o delle falene), mentre ci sono pochissimi esempi di "robotica" nel comportamento dei mammiferi. Un esempio comico di robotica l'ho appena visto su YouTube: è quello degli anatroccoli che seguono il cane pensando sia la loro mamma.
Al netto di tutte le incertezze c'è una buona ragione per credere che tutti i comuni mammiferi che ci mangiamo (mucche, maiali, pecore, capre) abbiano una coscienza inferiore in grado di sottoporli a sofferenze. Dall'altro lato, questa coscienza degrada man mano che passiamo dai primati, agli altri mammiferi, agli uccelli, ai pesci, agli insetti giù giù fino alle piante. C'è come una scala di coscienza che va dall'uomo alle pietre in modo più o meno uniforme.
Ma noi crediamo realmente che gli animali abbiano una coscienza? Qui si crea un problema poiché il nostro atteggiamento verso gli animali, anche quello degli animalisti, non è conforme a questa scala. Di solito, per esempio, attribuiamo una coscienza inferiore a certi animali e zero coscienza agli insetti. Nessuno si preoccupa di ammazzare milioni di insetti con il parabrezza della propria auto! Bryan Caplan ne ha tratto conseguenze decisive: poiché il problema della coscienza è troppo ostico se affrontato nel merito, traggo le mie conclusioni misurando l'ipocrisia della gente che partecipa al dibattito; poiché la "questione insetti" segnala alta ipocrisia tra gli animalisti, la probabilità che abbiano ragione nel merito si abbassa in modo decisivo. Questo è un buon punto. Tuttavia, ripenso al mio cane e non riesco ancora a convincermi che sia solo un robot intelligente: una certa coscienza è presente in lui, nessuno mi convincerà del contrario.
Sulla coscienza concluderei così: le incertezze sono molte, anche se negare la coscienza mi sembra piuttosto azzardato. Per questioni di prudenza sarei orientato ad adottare per gli animali una morale di tipo utilitarista. Se l'uomo ha dei diritti inviolabili, l'animale ha un benessere di cui bisogna tenere conto. Se l'uomo è sempre un fine e mai un mezzo, l'animale puo' essere mezzo ma solo a certe condizioni. Va bene così?
In questo caso, quindi, diventa importante capire "quanto" soffrono gli animali allevati. Purtroppo non esiste alcuna unità di misura per misurare questa esperienza. In generale si puo' concludere che la vita delle mucche sia migliore di quella dei maiali che è migliore di quella dei polli (un vero inferno). Il problema è un altro: a prescindere dalla qualità si tratta comunque di vite che meritano di essere vissute? E qui si entra nel vivo.
Parlando in generale, l'evoluzione non si preoccupa di quanto tu sia felice fintanto che a) esisti e b) trasmetti i tuoi geni, cosicché ha escogitato una serie di compensazioni nel sistema nervoso per garantire che gli animali come te 1) non siano mai soddisfatti al punto da smettere di competere, ma neanche 2) mai così infelici da desiderare di non esistere. Cio' che abbiamo è una specie di felicità di base a cui ritorniamo sempre una volta assorbiti i picchi verso l'alto e verso il basso. Poiché non si possono intervistare gli animali, vale la pena di concentrarsi su quelle condizioni in cui le persone segnalano cambiamenti nella felicità o si suicidano e di confrontarle con le esperienze degli animali d'allevamento.
Nell'uomo l'abitudine assorbe quasi tutto. E' un potente ammortizzatore delle condizioni esterne. ma questa è una regola base del nostro apprendimento: quando ci viene ripetutamente inviato un segnale, soprattutto se è molto frequente e non è cambiato di recente in intensità o durata, cessiamo di sperimentarlo in modo consapevole. Noi notiamo solo le novità. Ci abituiamo anche al dolore e alla sofferenza, persino a forti shock del sistema. In letteratura questo è noto come il paradosso della disabilità, in base al quale la maggior parte delle persone con disabilità grave riferisce di avere una qualità della vita buona o decente, anche quando agli osservatori esterni la loro sembra una vita indegna di essere vissuta. Il consenso nelle ricerche sulla felicità è che le persone abbiano un livello generale abbastanza stabile di felicità-base a cui rimbalzano regolarmente dopo qualsiasi cambiamento in positivo o in negativo. In un famoso studio di Brickman, i paraplegici vittime di incidenti e i vincitori di lotteria hanno riportato livelli simili di felicità prima e dopo il "grande evento" della loro vita.
Passiamo alla storia: il consenso tra gli storici è che mentre la schiavitù causava stress e sofferenze estreme, il tasso di suicidi da parte degli schiavi è sempre stato decisamente basso.
Passiamo alla medicina. Analizzando il profilo psicologico dei pazienti in cure palliative con cancro terminale, solo un trascurabile numero era da considerarsi a rischio suicidio. E anche chi ha scelto alla fine questa strada funesta, per quanto presentasse menomazioni funzionali e fisiche, dolore incontrollato, consapevolezza di essere nella fase terminale della propria vita e depressione, segnalava comunque come fattore scatenante della scelta la paura di perdere la propria autonomia e di essere un peso per gli altri.
Tirando le somme, talvolta gli uomini decidono che le loro vite sono intollerabili e si suicidano. Ma è interessante notare che questo fatto non lo vediamo mai in altri animali. Le uniche osservazioni aneddotiche credibili sono relative ai delfini, si tratta di bestie molto intelligenti che possono suicidarsi non respirando. Tuttavia, se gli uomini in condizioni estremamente miserabili non scelgono il suicidio, penso sia lecito ipotizzare che la vita di un animale di allevamento valga comunque la pena di essere vissuta.
La preferenza per la vita è tenace in qualsiasi essere vivente. La letteratura scientifica e gli esempi storici tratti dalla schiavitù e dalle malattie terminali suggeriscono che ci abituiamo praticamente a tutto. L'adattamento edonico è una forza travolgente. La vita dei nostri antenati era molto molto dura. Brutale, direi. Per questo anche in condizioni che le persone dei paesi avanzati etichetterebbero come "molto peggio della morte", l'evoluzione ha fatto in modo che si continui a preferire la vita. Non solo si sopravvive ma si vuole farlo in tutta coscienza. I bambini che giocano nelle discariche africane non sono poi molto meno felici dei bambini che giocano nei soggiorni europei.
Questo significa che gli animali, non importa quanta sofferenza provino, preferiscano vivere? Una risposta certa non c'è ma dopo quanto detto propenderei per il sì. Se le cose stessero così gli allevamenti aggiungerebbero felicità al mondo. Se non ci fossero ce ne sarebbe un po' meno: gli animali allevati possono vivere una vita degna e noi possiamo mangiarli a cuor leggero. Il caso più infernale è quello dei polli ma, essendo uccelli, anche il loro cervello segue una linea evolutiva ben differente dal nostro. Questa distanza aumenta i dubbi di una loro coscienza, cosicché anche il loro caso puo' rientrare in quello più generale.
Ma la scelta carnivora è ostacolata da altri due fattori: salute e ambiente.
Privare della carne un bambino puo' essere problematico ma contenere il consumo degli adulti dà dei benefici in termini di salute. Per fortuna, almeno per quanto riguarda gli adulti, si tratta di un'opzione personale. S'informano e scelgono per conto loro. Ognuno scelga come morire.
Ma la carne inquina, è un fatto. Gli allevamenti emettono gas serra. Ma il problema è collettivo e si affronta razionalmente tassando le esternalità, non con scelte etiche personali o stili di vita che oggi hanno tutta l'aria dell'esibizionismo moralista. Tuttavia, è anche vero che in assenza di politiche fiscali adeguate, la scelta personale puo' pesare.
Personalmente penso che mangiare carne sia lecito: 1) il problema della coscienza è ostico e indebolito dall' "argomento insetti",1) agli animali è comunque corretto applicare un'etica utilitaristica, 3) gli allevamenti sembrerebbero aumentare la felicità nel mondo anziché diminuirla. Resta il problema ambientale, ma qui l'impegno politico è comunque preferibile all'impegno dietetico.