venerdì 8 marzo 2019

Come vincere la guerra perdendo tutte le battaglie SAGGIO


Come vincere la guerra perdendo tutte le battaglie


Come arrivò l’uomo nelle Americhe? Un mistero che ha coinvolto paleontologi e genetisti. Charles C. Mann è la persona migliore per raccontarlo, il suo saggio “Pleistocene Wars” è cibo per la mente! Racconta una clamorosa vittoria scientifica dei dilettanti.
*** 
La nuova moda: fare la storia con la genetica e capire qualcosa di più sulla presenza umana nelle Americhe. Sérgio D. J. Pena, un ricercatore brasiliano fortemente impegnato su questo fronte.
L’enigma ci tormenta dal 1840, dal ritrovamento di Peter Wilhelm Lund a Lagoa Santa.
Resti di animali arcaici e resti di uomini giacciono in prossimità, e sembra addirittura che delle armi siano confitte nei corpi degli animali. Sarebbe la prova di una presenza ben più antica (migliaia di anni fa) rispetto a quel che si credeva.
Un test scientifico del 1960 su Lagoa: ossa di 15.000 anni fa. Clamoroso!
Ma c’è di più: questa gente di Lagoa è per molti versi fisicamente distinta dagli indiani moderni.
L’uomo di Lagoa è davvero l’antenato dei nativi americani? Sembrerebbe di no. Sembrerebbe appartenere ad una razza ben diversa.
Una misteriosa popolazione non-indiana abitava le americhe 15.000 anni fa?
Nel 1999 Pena esamina il DNA di Lagoa. Delusione, è deteriorato e non ci dice nulla.
In alternativa decide di esaminare il DNA dei Botocudo, il popolo dalle orecchie dilatate che viveva nella foresta brasiliana: è un popolo “sospetto”, con le loro sopracciglia leggermente sporgenti, gli occhi profondi e le mascelle quadrate, i Botocudo sembrano fenotipicamente molto diversi dagli altri indios, la stessa differenza che passa tra uno scandinavo e un nord-africano. Ma quel che più importa è che i Botocudo erano molto simili all’uomo di Lagoa Santa.
Ma dove reperire il DNA dei Botocudo. Il DNA mitocondriale replica bene quello originale e poiché replica perfettamente quello della madre  consente di risalire i rami materni  di una stirpe, dagli anni 70 in poi diventerà presto decisivo nella ricerca dell’origine delle popolazioni.
Oggi sappiamo che nelle Americhe ci sono 4 gruppi mitocondrialiaplogruppi) che concentrano il 96% della popolazione complessiva. Tre di questi quattro hanno origine indiana e sono comuni in Siberia.
L’idea di Pena: alcuni brasiliani con discendenza ancestrale europea sposarono delle donne Botocudo, nella loro discendenza è quindi reperibile il DNA mitocondriale della popolazione.
Pena raccoglie campioni di sangue di brasiliani i cui nonni vivevano in territorio Botocudo. E’ un po’ preoccupato perché sa che qualora dovesse scoprire che gli indiani antichi non avevano alcun legamecon gli indios la reazione dell’opinione pubblica potrebbe essere forte.
Sappiamo per certo che le popolazioni precolombiane fossero molto più numerose di quanto credevamo. Le ricerche che riassumeremo in seguito ci faranno scoprire che la loro presenza sul continente è molto più antica di quanto ipotizzato anche solo 20 anni fa, dobbiamo anticipare tutto di migliaia di anni. La disputa su questo punto sembra ormai vinta dai retrodatatori.
Sfortunatamente per gli esperti, tra gli anni venti e trenta del secolo scorso, la datazione della presenza umana nelle Americhe si rivelò errata. Si entrò in una fase anarchica della disciplina e i dilettanti invasero il campo.
Un altro momento di grande dubbio si ebbe tra gli ottanta e i novanta in cui una messe di nuove informazioni derivante da scavi e analisi di laboratorio si rese disponibile. Per gli esperti cominciò un altro calvario, le loro imprecisioni non giovarono alla reputazione.
Ogni volta che l’accordo accademico s’incrinava i dilettanti erano pronti ad infilarsi. E questo capitava ripetutamente.
***
L’incontro tra europei e nativi fu più scioccante per i primi. I secondi ebbero, come dire, un approccio pascaliano: scommisero sulla divinità degli europei. Testavano tale divinità in vari modi, per esempio tenendo a lungo sott’acqua la testa di un bianco per vederne la reazione.
Perché Montezuma non ordinò alle sue armate preponderanti di spazzar via Cortes? Probabilmente per questioni religiose, pensava fosse un dio o un inviato celeste.
Dubbi su questa interpretazione: i diari dei bianchi – nemmeno le memorie di Cortes – si soffermano su questo aspetto. Certo, i nativi messicani chiamavano gli spagnoli “teteo”, un termine che rinvia a dio… D’altronde, sia i Wampanoag che i Mexica avevano degli sciamani, perché mai non potevano esistere intermediari divini bianchi?
Ad ogni modo il punto è un altro: gli indios erano teologicamente preparati all’arrivo dei semi-dei bianchi, il loro shock fu contenuto.
Per i bianchi la costernazione fu maggiore, specie quando scoprirono di non essere in Asia (ormai Colombo era sotto terra).
Secondo la Genesi tutta l’umanità perì nel diluvio e gli unici salvati sbarcarono sul monte Ararat. Il gesuita Acosta concluse che gli indiano avevano attraversato Europa e Asia per giungere in quel continente. Questa fu l’ortodossia per i secoli a venire. Tra le personalità che subito vi aderirono: Bartolomeo de Las Casas e William Penn.
Ma chi affrontò un simile viaggio. L’ipotesi più plausibile puntava su una “tribù perduta” di Israele. Ne parla il Libro dei Re.
Problema: gli indiani non erano circoncisi.
Altro problema: i giudei erano codardi e avidi, gli indiani no.
Altro problema, James Ussher, arcivescovo di Armagh e massimo esperto in materia (un po’ il Cavalli-Sforza della sua epoca)  stimava che Dio avesse creato l’universo il 23 ottobre del 4004 avanti Cristo. C’era tempo sufficiente per compiere il viaggio?
***
Una serie avventurosa di ritrovamenti archeologici si concluderà accertando la presenza di popolazioni nel nuovo mondo risalenti all’era glaciale (oltre 10.000 anni fa). Ma fu una guerra scientifica, forse culturale, una guerra vinta dagli eretici dilettanti.
Abbott è convinto che i resti da lui portati alla luce in New Jersey risalgono al Pleistocene.
Teoria di Abbott: se gli antenati dei nativi contemporanei provenivano dall’Asia, evidentemente, hanno spazzato via delle popolazioni che abitavano qui da prima.
L’accademia sollecita William Henry Holmes a far luce sul caso dell’uomo del Pleistocene di Abbott. L’accademia odiava Abbott e tutti i “relic hunters” che come lui gettavano scompiglio ingiustificato nella disciplina.
Holmes fece un lavoro scrupoloso, passò in rassegna tutti i ritrovamenti, compreso quello di Abbott liquidandoli come presenze recenti, e quindi non in grado di gettare ombre sulla narrazione tradizionale.
Altro protagonista fu il geologo W. J. McGee. Pensava fosse suo dovere difendere la scienza dalla profanazione degli incompetenti immaginifici.
Il fanatismo di Abbott ebbe l’effetto collaterale di far fallire la sua attività medica. Non era mai in studio, passava gran parte della sua giornata negli scavi a cercare evidenze dell’indiano del pleistocene. Assediava con lettere i giornali scientifici denunciando rabbiosamente l’opera demistificatoria di Holmes e McGee. Si trasformò praticamente un troll. Avrebbe vinto la guerra ma perdeva regolarmente ogni battaglia.
Il bersaglio di  Abbot: “The scientific men of Washington”, pronto a cospirare contro la verità.
La sentenza finale dello Smithsonian Institute: gli scheletri esumati sono “totalmente” moderni. Abbott va in depressione e crepa.
Avviso dello SI agli amatori di scavi: se trovate ossa alla profondità di sei piedi non mettetevi strane idee in testa: è roba recente!!!
Il più arcigno custode dell’ortodossia accademica: Hrdlička,fondatore della American Journal of Physical Anthropology. Era un tipo industriosissimo, catalogò più di 32.000 scheletri provenienti da tutto il mondo. Non gli sfuggiva nulla, il suo rigore era leggendario. Contro le mode, disprezzava qualsiasi cosa puzzasse di “curiosità”. Detto anche “il signor no”: respingeva ogni presunto ritrovamento dell’indiano del pleistocene.
La teoria di H: ogni ritrovamento isolato non ha valore. Un ritrovamento attendibile deve poter essere contestualizzato e avvenire insieme ad altri ritrovamenti in zona. Si fece un nome “uccidendo” una serie di carriere nell’archeologia. La sua domanda in presenza di ossa umane: “dove sono le ossa degli animali di cui si nutriva questa persona?”.
***
McJunkin fu protagonista di un ritrovamento chiave a Folsom. Nato schiavo prima della guerra civile, non aveva un’educazione formale ma una grande caparbietà: tentò per anni di propagandare il suo “capolavoro” archeologico.
Jesse D. Figgins, direttore del museo di storia naturale del Colorado prese in mano il giacimento di Folsom. Da ulteriori scavi emersero due artefatti, non grezzi come quelli di Abbott ma particolarmente curati, erano punte di freccia finemente lavorate. Non solo, erano conficcate nelle ossa di un bisonte del pleistocene. Dimostrata la presenza umana in quell’epoca remota?
Hrdlička chiede la supervisione di esperti a Folsom. Figgins scava ovunque nella zona e trova altri reperti. L’entusiasmo cresce. Figgins afferma che quella roba è lì da mezzo milione di anni. Mezzo milione? Immaginatevi la faccia di Hrdlička.
Agosto 1927: il team di Figgins rinviene un’altra punta di freccia tra le costole di un bisonte del pleistocene. Altra prova. La “battaglia sulle origini” è praticamente chiusa con il trionfo delle tesi dei dilettanti, bisogna solo elaborare il nuovo consenso tra gli esperti. Ma per Hrdlička le prove non sono ancora schiaccianti.
Hrdlička vinse tutte le battaglie scientifiche che affrontò ma perse la guerra: in America l’uomo era effettivamente presente sin dal pleistocene nonostante che in molti sostenessero questa tesi sulla base di prove farlocche.
***
Altro ritrovamento. Passeggiando nel bacino di Clovis, il diciannovenne Whiteman rimase colpito da quello che sembrava un colossale osso di elefante che emergeva in parte dal terriccio. Mammuth? Scrive allo Smithsonian. Il paleontologo Charles Gilmore prende il treno per raggiungerlo. Passeggiando un’ oretta laggiù decise che il posto non aveva interesse archeologico.
Un giornalista locale mise W in contatto con Edgar B. Howard, un giovane archologo della University of Pennsylvania.
Nel frattempo a Clovis si costruisce un supermercato: dal terreno viene su un mucchio di roba interessante.
Il telegramma di Howard alla sua università: “EXTENSIVE BONE DEPOSIT AT NEW SITE. MOSTLY BISON, ALSO HORSE & MAMMOTH”
Cosa si cercava? Manufatti intersecati in qualche modo con  scheletri di animali estinti da tempo. Presto cominciarono a fioccare.
Gli oggetti erano di fattura diversa, il che testimoniava l’alternarsi di società umane differenti.
Anche i più scettici ora accettavano la presenza a Clovis di una cultura antica. Al mega-simposio che consacrò il nuovo consenso Whiteman non venne invitato, morì a Clovis nel 2003. Nel suo intervento Hrdlička eluse il ritrovamento di W.
Nei successivi 10 anni si ebbero almeno 80 ritrovamenti di vestigia paleo-indiane. In Messico, in Canada, negli USA.
La storia delle datazioni è parimenti interessante. Negli anni 50 Willard F. Libby aveva introdotto il metodo del carbonio. La sua passione da giovane erano i raggi cosmici.
Aveva notato che ogni cellula vivente contiene un basso e costante livello di C14. Quando persone, animali o piante muoiono smettono di assimilare il C14 e quello esistente comincia a decadere con regolarità e tempi molto lunghi. Ogni 5738 anni metà del C14 si trasforma in un atomo di normale carbonio. Nel 1960 Libby vinse il Nobel.
L’uomo di Clovis datato con il carbonio risultò  tra 13.500 e 12.900anni fa. Con tanti saluti ad Hrdlička.
L’uomo di Clovis arrivò in America dalla Siberia non appena i ghiacci lo consentirono. Haynes notò la correlazione tra la formazione del corridoio canadese e la comparsa dell’uomo a Clovis. la comunità scientifica abbracciò questa ipotesi facendone la nuova ortodossia.
I migranti dalla Siberia vedevano nelle foreste un bestiario fantastico, mastodonti sgraziati, rinoceronti corazzati, lupi enormi, gatti dotati di sciabole lunghissime ed armadilli smisurati con dieci piedi. Una fauna che presto si estinse completamente (studio del 2009). Secondo A.R. Wallace l’impoverimento della fauna americana in quel frangente fu catastrofico.
La scomparsa di animali addomesticabili segnò profondamente la civiltà americana. Esempio: senza promiscuità con gli animali le epidemie furono poche e quando arrivarono i maiali europei fu una strage.
Secondo il paleontologo Martin Paul l’estinzione animale è l’inevitabile conseguenza del primo incontro con l’uomo. Senza istinto alla fuga soccombi.
La versione di Martin Paul: attraversato lo stretto di Bering i primi americani vissero nell’abbondanza sterminando animali ingenuotti. La fertilità esplose e la bomba demografica li sospinse fino al Messico.
Insomma, i maggiori mammiferi americani si estinsero sterminati dall’uomo di Clovis (che aveva una passione particolare per il mammuth). Gli accampamenti sui laghetti testimoniano gli agguati quando le fiere venivano a bere.
Per altri l’estinzione è da attribuire ad eventi climatici sul finire del pleistocene. L’obiezione di Martin: cambiamenti simili sono registrati anche altrove senza conseguenze simili. Inoltre, simili estinzioni si sono ravvisate nell’invasione di Madagascar, Australia, Nuova Zelanda e isole polinesiane varie.
***
Antefatto: pochi mesi fa una coalizione di tribù indiane ha querelato lo stato di Washington perché, limitando la pesca del salmone, non rispetta un trattato del 1854.
La difesa dello stato: le circostanze sono cambiate. Sempre condannato, finché si è giunti alla corte suprema.
Facciamo un passo indietro. Perché gli indiani ce l’hanno tanto con gli archeologi? Forse per l’ipotesi di Aleš Hrdlička: gli indiani sterminarono una quantità impressionante di animali, il loro impatto sull’ambiente fu tutt’altro che armonioso.
Negli anni sessanta il mito dell’indiano “ecologista” andava forte. Ma poi ecco spuntare l’ipotesi Hrdlička: Gli indiani sono stati autori di un mega disastro ecologico.
Comincia lo scontro “culturale”. Vine Deloria Jr (scienziato della politica in Colorado): “gli archeologi sono intrappolati nei loro pregiudizi”.
L’ipotesi “overkill” risale agli anni trenta, ovvero a Carl Sauer. Per superarla occorreva far fuori l’uomo di Clovis: se l’uomo si fosse presentato dopo sul continente l’estinzione di massa non poteva essere causa sua. Molti critici di Clovis avevano un secondo fine: confutare l’ overkill.
Si consideri questa disanalogia: gli indiani parlano oltre 1200 lingue. Tutti gli europei 4 famiglie di lingue. Sviluppare una simile ricchezza linguistica richiede tempo. Molto tempo.
Anzi, probabilmente parliamo di un’invasione del continente avvenuta in diversi momenti. Il linguista Greenberg ipotizza tre ondate attraverso lo stretto di Bering: 3.000 aC, 7.000 aC e 12.000 aC.
G. Turner II, antropologo dell’ università dello stato dell’Arizona supporta l’ipotesi delle tre ondate con evidenze sulla dentatura.
Ma Lyle Campbell si smarca da Greenberg: l’ipotesi delle tre ondate confonde i non specialisti.
L’ipotesi delle tre ondate è sotto attacco, e qui entrano in campo i genetisti come il dott. Pena e il suo DNA mitocondriale.
I mutamenti del genoma danno una buona misura dei tempi: ogni variazione del 2-3% corrisponde a 10.000 anni. Possiamo confrontare con il carbonio.
Nuove datazioni a sorpresa grazie ai genetisti. Il primo gruppo sembra migrato sul continente tra i 22.000 e i 30.000 anni fa. 10.000 anni prima di Clovis.
Bolzano e Bonatto stimano che gli indiani hanno lasciato l’asia 33.000-40.000 anni fa. Arrivati allo stretto di Bering si sono divisi in due con il primo gruppo sceso nel nuovo mondo prima del picco di freddo. Alla chiusura del corridoio il secondo gruppo è rimasto intrappolato a nord per 20.000 anni circa. Successivamente, con l’innalzarsi delle temperature, anche il secondo gruppo è potuto calare nelle Americhe. Insomma, per Bolzano solo un gruppo colonizzò il continente ma lo fece in fasi diverse.
Il casino sotto il cielo è grande ma una cosa sembra appurata: Clovis non è l’inizio di tutto.
***
Monte Verde è una baia cilena dove Tom Dillehay (University of Kentucky) ha condotto i suoi scavi.
La presenza umana a Monte Verde risale a 12.800 anni fa. La discesa fino in Cile deve essere iniziata migliaia di anni prima. Archeologia e genetica sembrano incontrarsi a Monte Verde, ma tra mille resistenze.
Dillehay ci fa capire come funziona la scienza: i colleghi si rifiutavano di darmi la mano ai meeting.
La disputa su Monte Verde. Haynes, che aveva autenticato Monte Verde nel 1996, nel 1999 dice che occorrono “approfondimenti”. Mancano le foto dei manufatti. E’ il caos. Dillehay insiste, con il suo team pubblica nuovi articoli.
Altre prove pro ipotesi pre-Clovis. Michael Waters della Texas A&M University rinviene 15 manufatti in un sito texano che datano almeno 2/3.000 anni prima di Clovis.
Nel frattempo (anni novanta) irrompono le datazioni per stimolazione ottica – ideali in assenza di carbonio – Si riesce a capire l’ultima volta che un certo oggetto “ha visto la luce”. Anche questo metodo conferma: l’uomo era presente nelle Americhe ben prima di Clovis. La caduta del nuovo dogma fu inevitabile.
L’archeologia ufficiale ha comunque un problema: non riesce a tacitare i ciarlatani con una teoria precisa e ferma. La caduta del Clovis-consensus rende percorribili strade eterodosse.
Alternativa all’overkill: James Kennett crede che una cometa dal diametro di tre miglia ha impattato il nostro pianeta in Canada 11.000 anni fa precipitandoci nel gelo. Poche le evidenze. Science in copertina: “Mammoth-Killer Impact Flunks Out”. Molti problemi restano aperti con gran gioia dei dilettanti.
Altro esempio. La teoria del corridoio non sembrava molto solida a Fladmark che ha ipotizzato un arrivo via acqua lungo la costa. Purtroppo le ricerche sulla costa sono ardue: l’acqua non conserva bene e gli oceani si sono alzati per lo scioglimento dei ghiacciai.
Dubbi sulle teorie ufficiali. Le isole britanniche, ancora 12.000 anni fa, erano disabitate a causa dei ghiacci, se l’ipotesi Monte Verde è corretta molti popoli tra l’Alaska e il Cile prosperavano. Com’è sta storia? E i dilettanti si scatenano…