E’ un mondo difficile
Il bizzarro compito dell’economia e dimostrare agli uomini quanto poco sanno.
Come esemplificare al meglio questa ignoranza messa in luce da quelle discipline economiche che la danno per scontata?
Prendiamo come esempio un oggetto banale di uso comune, un oggetto presente in tutte le case, un tostapane. Cosa c’è di più triviale? Cosa c’è di più semplice?
Ebbene, provate a costruirne uno!
Oppure seguite le peripezie di chi c’ha provato, uno come Thomas Thwaites, dottorando in design del Royal College of Art di Londra.
Una volta imbarcatosi nel “progetto tostapane” si è subito reso conto della montagna di complicazioni che sta dietro un’opera tanto banale, i pezzi da procurarsi sono più di 400!
I materiali che occorrono non sono banali, il rame per i cavi degli spinotti elettrici e il fili di collegamento. L’acciaio, per il sistema di griglie e la molla. Il nichel, per il componente che scalda. L’amica, per raffreddare il componente che scalda. Infine la plastica per l’isolamento dei figli e della spina.
T. si rese conto che se uno parte completamente da zero ci mette una vita per fabbricare un tostapane. E questo senza nemmeno andare in Cile ad estrarre di persona il rame necessario o in Russia per la mica.
Viviamo circondati da oggetti che non sapremmo mai fabbricare.
A dir la verità tanti di noi non sanno neppure quale sarà la destinazione finale del loro lavoro. Il boscaiolo che taglia un albero non sa se il legno verrà usato per uno stuzzicadente, per la struttura di un letto o per una matita.
L’unico a sapere è “il sistema”. Un sistema in grado di coordinare migliaia di ignoranze sparse sul pianeta.
Questa santa ignoranza affidata al giusto sistema ci rende disponibili una varietà sbalorditiva di prodotti. Basta entrare in un grande magazzino per accorgersi che centinaia di migliaia di articoli diversi sono presenti sugli scaffali. Su piazze come Londra e New York vengono offerti più di 10 miliardi di prodotti diversi.
L’unico a sapere la destinazione dei lavori è il sistema. Strategie alternative con la medesima ambizione, dal feudalesimo alla pianificazione centralizzata, sono finite nei libri di storia.
Ma c’è di più: tostare il pane non è affatto complicato, il pane, diciamo così, non assume un ruolo attivo, non prova a fregarti come potrebbe fare una squadra di banchieri di investimento. Il vero miracolo del sistema non è tanto la fabbricazione di un tostapane ma il coordinamento di migliaia di persone impegnate in quest’opera con i bisogni dei clienti. I problemi con le persone sono enormemente più complicati del già complicatissimo tostapane: le persone non collaborano, non stanno mai ferme, voi cominciate a risolvere un problema e vi accorgete che il problema cambia continuamente sotto le vostre mani.
Un cervello non basta, per quanto sia geniale. Tutti noi ci aspettiamo troppo da un uomo solo. Ci aspettiamo troppo dal capo di governo. Ci aspettiamo troppo da un eroe. Ci aspettiamo troppo da un valoroso militare. Abbiamo il tremendo bisogno di credere nell’efficacia di un leader ma costui resterà sempre un nano se paragonato al “sistema”.
Forse tale istinto oggi perverso ha origine nel fatto che ci siamo evoluti operando in piccoli gruppi di cacciatori e risolvendo problemi che erano, per l’appunto, quelli di un piccolo gruppo. Problemi banali, in un certo senso, problemi che potevano essere risolti anche da un genio. Non riusciamo così a capire come i problemi più complessi possano e debbano essere risolti involontariamente grazie all’ignoranza coordinata di molti.
Philip Tetlock è il più grande esperto di esperti. La sua opera ci fa notare come la contraddizione tra esperti sia all’ordine del giorno, oppure che le previsioni sulla politica Russa pronunciate da esperti di cose sovietiche non fossero più precise di quelle pronunciate da specialisti della politica canadese. Oppure che più gli esperti erano famosi, più erano incompetenti.
Gli esperti, secondo le ricerche di Tetlock, fanno meglio dei non esperti ma “leggerissimamente”, e questo dopo aver studiato “moltissimamente” di più. La colpa non è loro, è che viviamo in un mondo difficile. Viviamo nel mondo in cui il complicatissimo problema del tostapane si archivia nello scaffale dei “problemi semplici”.
Il sistema di mercato sembra l’unico in grado di approcciare questa complessità, ma qual è il suo segreto?
La lezione sembra essere che il fallimento sia parte integrante del metodo risolutivo come del sistema di mercato.
Più un settore economico è giovane, dinamico e promettente più i tassi di fallimento delle sue aziende è elevato.
La macchina per stampare fu inventata da Johann Gutenberg, un uomo che cambiò con la sua invenzione il corso della storia facendo fallire molti progetti alternativi. Ma lui stesso, nel tentativo di realizzare la famosa Bibbia che porta il suo nome, fallì e fu accantonato (il centro dell’industria della stampa si spostò Venezia). Non si guarda in faccia a nessuno nel nome di sua maestà il Fallimento, ovvero il motore per la soluzione di problemi complicatissimi.
Quando esplose la bolla delle cosiddette Dot-com, spazzò via innumerevoli giovani realtà economiche. Grazie ha questa capacità di far piazza pulita il business di Internet fiorì e si affermò.
La moderna industria informatica costituisce un esempio eclatante, il settore più dinamico dell’economia è stato anche quello in cui si sono osservati fallimenti a catena: Hughes, Transitron, Philco, Intel, Hitachi, Xerox… Tutti nel buco nero per risolvere problemi incasinatissimi e realizzare cio’ di cui oggi possiamo godere.
Non sono tanti i dirigenti d’azienda che amano ammetterlo, ma il mercato trova tentoni la via giusta.
La stessa selezione naturale in campo biologico, spesso sinteticamente definita come il processo di sopravvivenza del più adatto, è in realtà innescata dalla “sconfitta del meno adatto”.
Dicevamo che i problemi che coinvolgono gli esseri umani sono particolarmente difficili da trattare. I manager li hanno sul tavolo ogni giorno.
Molti ritengono che i dirigenti delle grandi aziende debbano avere delle qualità eccezionali, lo pensano sicuramente gli azionisti che pagano loro stipendi profumati, ma lo pensano molte persone della strada (che vengono a sapere di quegli stipendi). Ma e poi davvero così? In fondo non si capisce bene cosa facciano di tanto eccezionale.
Un tentativo interessante di risposta all’enigma lo fornisce l’economista Paul Ormerod che ha confrontato quel che i reperti fossili ci ci dicono circa le estinzioni (fallimenti biologici) avvenute negli ultimi 550 milioni di anni con le statistiche di Leslie Anna sulla morte dei giganti industriali. Ebbene, il rapporto opportunamente normalizzato delle estinzioni biologiche e delle estinzioni aziendali appare molto simile, e questo nonostante che il processo biologico sia cieco mentre invece quello economico guidato dai geni del management.
Vogliamo tradurre? Beh, secondo Ormerod Apple potrebbe tranquillamente sostituire Steve Jobs con uno scimpanzé.
Non sono i manager ad essere dei geni, è il mercato (ovvero il sistema in cui sono inseriti) ad essere geniale.
Ma il modo più efficace per vincere la complessità è anche il meno popolare, chi ha voglia di brancolare nel buio in cerca di una soluzione vincente commettendo ripetuti errori sotto gli occhi di tutti? Chi vuole votare per un politico che segue questo metodo, o sostenere un manager di livello la cui strategia sembra quella di sparare ideee casaccio?
Di solito i politici si presentano come gente che promette di tirare dritto per la sua strada, di non cambiare mai idea, di essere coerenti. Dovremmo invece tollerare, persino celebrare tutti i politici che mettono alla prova le loro idee in modo talmente coraggioso da dimostrare che alcune non funzionano. Ma in realtà non lo facciamo mai!
La varietà di opinioni e la diversità di approcci è una ricchezza, ma a quanto pare poco apprezzata anche nei luoghi deputati al culto dell’efficienza. Ci sono alcune dimostrazioni del fatto che più una persona è ambiziosa, più sceglierà di essere uno Yes Man, e per buone ragioni visto che questi tendono essere premiati. Persino quando i leader e i manager vogliono davvero un onesto riscontro delle loro azioni, spesso non riescono a riceverlo.
Tendiamo a presumere che l’economia pianificata dell’Unione Sovietica sia crollata perché mancava l’effetto galvanizzante della ricerca del profitto e la creatività del settore privato. Molto più probabilmente è crollata perché mancavano i fallimenti, ovvero quei segnali che ci indicano più o meno direttamente la direzione da prendere. L’Unione Sovietica ha tirato dritto con i suoi progetti faraonici messi al riparo da ogni fallimento… ed è finita nel burrone. Una patologica incapacità di sperimentare.
Ma anche in una moderna multinazionale la diversità degli approcci è difficilmente tollerata, gli ostacoli sono almeno due. Il primo è la mania di grandezza: sia i politici sia i capi d’azienda a mano i grandi progetti. Il secondo è che noi raramente amiamo la convivenza di un’accozzaglia di principi incoerenti fra loro, è come se turbassero la nostra naturale inclinazione all’eleganza e all’uniformità. Ci piace pensare che tutto sia uniforme.
Sarà anche per questo che gestiamo tremendamente male i nostri fallimenti, a volte ci deprimiamo ma l’insidia maggiore non è la depressione.
Prendiamo il mondo del poker, un mondo dove regna il sangue freddo. Diversi giocatori professionisti raccontano che esiste un momento specifico in cui il rischio di perdere il controllo è molto alto, non è quando vincono e l’euforia li coglie ma quando hanno appena perso un sacco di soldi per una cattiva giocata e siamo colti da un demone pericolosissimo: la voglia di riscatto. Riconoscere la sconfitta e ricalibrare il gioco è l’unica cosa da fare, per quanto dolorosa. Una persona che non si fa una ragione delle proprie perdite è probabilmente destinata a correre rischi che in altre situazioni non prenderebbe nemmeno in considerazione.
La perdita ci fa perdere la ragione, gli economisti parlano di “sunk cost”, se al ristorante abbiamo ordinato il piatto sbagliato ci sentiamo in dovere di mangiare ugualmente, il fatto di dover pagare (e quindi buttato i nostri soldi) è come se ci imponesse un dovere, ovvero sacrificare ulteriormente il nostro piacere sorbendoci una schifezza. Se ho prenotato una vacanza pagando un congruo anticipo mi sento in dovere di partire anche se non sto bene, lo trovo un modo per non sprecare i soldi versati. Non appena ci accade qualcosa di negativo noi evitiamo ogni analisi accurata abbandonandoci alla voglia di riscatto. La giusta reazione sarebbe quella di incassare la battuta d’arresto e cambiare direzione, sebbene l’istinto ci spinga nella direzione opposta.
Questo spiega perché il detto “sbagliando si impara”, che è un saggio consiglio, sia tremendamente difficile da seguire.