La ciabatta dell’immigrato
Perché quando l’economista parla di immigrazione nessuno lo sta a sentire?
In effetti sentendolo spiegare al “popolo” i vantaggi dell’immigrazione colgo anch’io una nota stonata che mi fa cadere le braccia. Per quanto sia impeccabile nei suoi ragionamenti non sembra davvero aver colto il problema.
L’idiosincrasia verso lo straniero non si traduce molto bene in termini micro-economici, non è (solo) una questione di chi arriva e ci “ruba il lavoro” ma coinvolge due antitetici paradigmi culturali, per comodità li battezzo come “cosmopolitismo” e “comunitarismo”, ma avrei anche potuto chiamarli “economia di mercato” e “economia morale”. O di qua, o di là.
MORALE CONTRO MERCATO
Il cosmopolitismo affida la propria sostenibilità sociale agli incentivi del mercato, il patrono di riferimento è Sant’ Adam Smith, e con lui la schiera di pensatori radicali che si sono alternati dalla fine del XVIII secolo: “non è dalla generosità del macellaio, del birraio o del fornaio che noi possiamo sperare di ottenere il nostro pranzo, ma dalla valutazione che essi fanno dei propri interessi”.
Il comunitarismo affida invece la propria sostenibilità e la contenzione delle devianze agli incentivi della morale, il riferimento costante è quello della religione tradizionale: “il timore di Dio rende prospera la città in cui alligna”.
PRO E CONTRO LA COMUNITA’ MORALE
Il punto di forza del comunitarismo (o “economia morale”) sta nel fatto che tiene sotto controllo cio’ che gli economisti chiamano “esternalità”. Esempio: essere cortesi (creando così benessere diffuso) o abbellire la propria casa (abbellendo così anche il quartiere) sono comportamenti ricompensati in termini di status. Nel piccolo villaggio tutti si conoscono e la fama della persona gentile e di buon gusto è valorizzata al massimo.
Al contrario, il fan dei mercati odia la parola “esternalità”, il solo pronunciarla fa comparire orridi eczemi sulla sua pelle, sì perché se ci affidiamo al mercato l’unico modo per arginare le esternalità consiste nel consegnarsi alla morale (e ci risiamo) o alla burocrazia (peggio che peggio), due fattori da cui il liberale ama girare al largo.
Il film di Frank Capra del 1953 “La vita è una cosa meravigliosa” offre un quadretto delizioso del comunitarismo. George Bailey è un banchiere empatico attento ai bisogni della sua comunità, conosce personalmente i suoi compaesani uno per uno e quando puo’ dà loro una mano concedendo generose proroghe sui pagamenti. Allorché sarà lui sull’orlo del fallimento la comunità intera, ricordandosi della sua opera, si mobiliterà fino al più canonico degli Happy End. Bailey è un tipico esponente dell’ “economia morale”, il suo rivale è l’avido e amorale Mr. Potter, un odioso esponente dell’economia di mercato.
Ma non sono tutte rose e fiori nella piccola comunità, la morale è sempre pronta a trasformarsi in moralismo, in pettegolezzo, in maldicenza, in stimmate sociale. L’empatia, poi, spesso distorce le decisioni prese rendendole miopi poiché assunte senza la necessaria freddezza. Per avere un’idea del comunitarismo avariato leggetevi dei classiconi come “La lettera scarlatta”, oppure “Nostra sorella Carrie”, e se invece volete qualcosa di più recente affidatevi al genio della Margaret Atwood del “Racconto dell’ancella”.
PRO E CONTRO IL MERCATO
Il punto di forza del mercato sono invece le economie di scala: man mano che i mercati si allargano la divisione del lavoro spinta crea miracoli. Giusto ora ho in mano una matita dal costo insignificante per costruire la quale hanno prestato la loro opera lavoratori di almeno tre continenti, gente anonima che non conoscerò mai e che non si conoscerà mai, tutti coordinati unicamente dalla mano invisibile che il Santo ci ha spiegato ben bene oltre due secoli fa. E’ chiaro che la società che hanno in mente i comunitaristi non potrebbe mai e poi mai produrre nulla del genere, le matite Amish hanno prezzi doppi e qualità dimezzata, per usare un eufemismo.
Ma questo anonimato in cui si lavora “non si sa per chi” insieme a “non si sa chi” ha delle cotroindicazioni: è difficile viverci dentro, abbiamo un’identità che chiede di essere riconosciuta e quando manca questo riconoscimento la personalità sfiorisce. Probabilmente anche così si spiega il debole collegamento tra denaro e felicità: siamo ricchi e depressi, forse più depressi dei nostri nonni (che erano più poveri) e dei nostri genitori (che oltretutto non erano nemmeno poi così più poveri di noi). Certo, l’avventura imprenditoriale è esaltante, in un’economia libera ci si puo’ sbizzarrire, ma man mano che la società capitalista avanza, avanza anche il gigantismo delle imprese, pochi soggetti “too big to fail” che sanno “connettersi” al meglio con la burocrazia e, di concerto, soffocare ogni dinamismo sociale. Cio’, purtroppo, rende sempre di più il piccolo imprenditore nient’altro che un lavoratore subordinato… senza i diritti del lavoratore subordinato.
AND THE WINNER IS…
Oggi, grazie alle economie di scala garantite dalla globalizzazione, il “cosmopolitismo” ha schiantato il “comunitarismo”; l’ “economia di mercato” ha schiantato l’ “economia morale”. Il segno di questa vittoria è lo straniero che ci “invade”, questo sconosciuto su cui il mercato globale si è sempre retto e che oggi circola da noi in carne ed ossa.
Ieri era uno sconosciuto anonimo, stava dietro la mia matita, scavava nelle miniere di zinco della Pennsylvania l’occorrente per la ghiera o raccoglieva in Brasile il caucciù per il gommino. Magari agiva attraverso le borse e noi lo chiamavamo di volta in volta “speculatore” o “forza del mercato”. Ci faceva un po’ paura perché sentivamo di non avere più tanto controllo del sistema ma ci adattavamo, era la paura di chi viaggia in aereo, si sopporta sapendo che in auto lo stesso viaggio sarebbe un inferno.
Oggi l’ “anonimia” del mercato internazionale ha un’ulteriore incarnazione: è l’immigrato, lo sconosciuto con la sua faccia estranea. Dall’ “anonimia” all’ “estraneità”, e noi sentiamo ancor di più il “controllo” venir meno. Veder girare (ciabattare) un’ umanità aliena per le nostre strade reca a molti un disagio che non ha nulla di materiale, un disagio che appartiene anche al vecchietto che vive ormai scudato da una più che decente pensione maturata con il retributivo, un disagio che l’economista non esorcizza certo diffondendosi sui “vantaggi comparati”. E’ il disagio di chi tocca con mano la sconfitta del comunitarismo, l’estinzione dei George Bailey, la fine dell’empatia, della morale e della religione. O almeno di questa roba come architrave del vivere comune.