La maledizione del finto bar
Il guaio di Facebook è di essere considerato un bar senza esserlo.
Se spiegassi a un marziano autistico cos’è Facebook, quello alla fine lo penserebbe come il mezzo ideale per discutere e approfondire: la scrittura facilità l’analisi, la scomposizione dei temi, la trattazione nel dettaglio e, al contempo, la possibilità di interagire mantiene una fresca dialettica, ovvero la presenza di più voci che si stimolano a vicenda. Una specie di epistolario plurale dove si ha modo di accedere, ordinare e soppesare le ragioni reciproche.
Scripta manent, per esempio, è una maledizione per alcuni utenti ma una benedizione per la discussione. Puoi riprendere e rileggere quel che è stato scritto, puoi mettere l’interlocutore di fronte alle sue parole (di cui magari si è già dimenticato), puoi verificare le tue ribadendo dei concetto o facendo le dovute precisazioni…
Ma chi ha tempo e voglia di farlo? Chi ha tempo e voglia di scrivere un messaggio in cui esporre in modo ordinato il proprio pensiero, di predisporre una replica facendola decantare qualche ora – se non qualche giorno – affinché affiorino le imperfezioni, di ricalibrarla ulteriormente e poi, solo dopo, di postarla? La mancanza di tempo e voglia, però, non sono un difetto del mezzo ma del soggetto che lo utilizza. Non siamo al bar ma ci comportiamo come se lo fossimo.
Per chiarire ulteriormente la tesi descrivo la tipica esperienza frustrante in cui mi imbatto gironzolando per i social.
La stragrande maggioranza delle “persone social”, come dicevamo, si comporta come al bar dove si lancia una battuta ad effetto per poi sparire nel nulla nell’illusione che gli altri restino bloccati dove li lasciamo a delibare la nostra genialità; il bar, in effetti, consente e facilita una simile illusione, se uno avesse contezza di come commenta la cassiera quando hai chiuso la porta per andartene tutto tronfio, probabilmente faresti marcia indietro e anche i bar diventerebbero un ring sfibrante anziché catartico. Tuttavia, purtroppo o per fortuna, Facebook è una piattaforma strutturalmente diversa dal bar, il lanciatore di battute puo’ sempre trovare qualcuno che lo riprende per la collottola (quel rompicoglioni!) voglioso di vagliare quanto affermato con tanta sicumera. Qui scatta un momento delicato poiché il battutista da bar – per questioni che pertengono il carattere umano – in genere non è disposto a credersi tale, in genere va orgoglioso della sua “brillante” battuta, che non ritiene affatto priva di sostanza, e spesso nemmeno priva di punti deboli o soggetta ad eccezioni. Da un lato, quindi, non negozia sulle sue ragioni, e al contempo, avendo preso Facebook per la pausa caffè da cui rientrare immantinente, non ha nemmeno il tempo o la capacità di metterle meglio a fuoco ne tantomeno di difenderle analiticamente. Il nervosismo cresce e non resta che rifugiarsi nell’aggressività, che diventa subito reciproca; ecco allora che la potenziale discussione viene abortita e rimpiazzata da una sequela di stucchevoli stratagemmi retorici, quelli tipici della lite da cortile, tanto per intenderci: la proiezione, l’allusione, l’equivoco posticcio, la vaghezza ad hoc, le alleanze strumentali in cui ci si dà manforte…
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Ma c’è un di più che spiega il ricorrente scazzo facebookiano. Qualcuno ha detto che senza un buon “cattivo” non puo’ nascere una storia interessante, e per me questa è una sacrosanta verità.
Analogia: senza un disaccordo non puo’ nascere una discussione, e chi ama le discussioni è attirato dai disaccordi. Ma poi, trascinato da questo pericoloso amore, capita che ti ritrovi spesso a cavalcare una tigre.
Nelle discussioni tradizionali buona norma vuole che, prima di infliggere il colpo, si ripetano con cura gli argomenti dell’interlocutore evidenziando le concordanze con i nostri, si elogino con sussiego l’espressiva esposizione che l’altro ne ha fatto enfatizzando quanto ci ritroviamo nelle sue parole. Poi, finalmente, tranquillizzato il nostro “avversario” si isola con delicatezza il punto di frizione e su quello si innesca una rispettosa discussione sempre intervallata con riconoscimenti reciproci.
Ma su Facebook, come su qualsiasi social, è difficile riprodurre la noiosa ma salutare manfrina del preambolo più o meno ipocritamente omaggiante, cosicché si parte in quarta con la sostanza, ovvero con i disaccordi e l’accidentata discussione che ne segue.
Concentrandosi solo sul disaccordo e parlando sempre e solo di quelli, le parti, potenzialmente vicine, cominciano a sentirsi estranee l’una all’altra, il che puo’ facilmente degenerare in aperto conflitto, basta una parolina sbagliata e l’equivoco esplode.