martedì 26 luglio 2016

Dopo un secolo di proibizionismo

Il proibizionista crede che se la droga fosse libera i consumi s’impennerebbero, e reputa la cosa poco desiderabile di per sé.
Ma va oltre e individua degli effetti collaterali perniciosi per tutti.
Secondo lui il consumo di droga è un propellente per il crimine.
Secondo lui il consumo di droga fa male alla salute e diminuisce la produttività.
Secondo lui la droga causa incidenti.
Secondo lui la droga inasprisce la povertà.
Secondo lui la droga supporta il terrorismo.
Insomma, droga libera e collasso della civiltà sono un tutt’uno.
Personalmente, penso che a gran parte di questi mali la proibizione contribuisca più dell’uso.
Innanzitutto, è il proibizionismo ad essere un male in sé: diminuisce le libertà civili.
La violenza poi è un portato tipico del proibizionismo: le guerre tra bande per garantirsi lo spaccio sono un classico, ma anche un sistema di giustizia parallelo per punire i cattivi pagatori si rende necessario.
Sul mercato nero la qualità dei prodotti è precaria, e questo va a detrimento della salute dei consumatori.
Ad ogni modo anche andare in montagna nuoce alla salute, così come gettarsi in deltaplano. Insomma, “vivere” non fa bene alla salute. E’ un modo per sottolineare come le scelte personali siano opinabili fino ad un certo punto.
Ma torniamo al mercato nero: sul mercato nero i prezzi sono iperbolici e il consumatore ossessionato finisce per investire tutto lì tagliando i ponti con le altre attività e le relazioni sociali che potrebbero salvarlo dal baratro.
Sul mercato nero è problematico procurarsi la merce e i consumatori  investono mediamente più tempo per procacciarsi la merce, il che inficia la loro produttività sul lavoro.
Dove c’è mercato nero c’è corruzione e nel mondo della droga la corruzione è la regola.
Per quanto riguarda i trasferimenti ai criminali, è chiaro che sono garantiti dai divieti.
Ridurre i consumi potrebbe essere desiderabile, ma proibire è un modo terribile per perseguire l’obbiettivo.
Le domande decisive alla fine sono due: 1) liberalizzare porta ad un aumento notevole o scarso dei consumi? 2) proibire aumenta o diminuisce la violenza?
Per quanto riguarda la prima domanda si potrebbero conteggiare le patologie tipiche del drogato (esempio morte per overdose o cirrosi epatica) in tempi di proibizionismo e di liberalizzazione.
Gli USA hanno avuto un periodo di proibizionismo alcolico, una vera fortuna per il ricercatore che constata come la frequenza delle cirrosi non calò di molto.
La frequenza degli omicidi invece aumenta nei periodi “puritani”, e devo ammettere che la cosa non mi stupisce.
Puo’ darsi che il liberalizzatore non abbia dimostrato i benefici complessivi della sua ricetta ma secondo me ha neutralizzato le “chiare dimostrazioni” della controparte, qualcosa che deve avere in mano chi chiede di ridurre le libertà civili.
ganga
Spesso i proibizionisti fanno notare come certi mercati (scommesse, prostituzione, droga), per quanto legalizzati, restino contigui al mondo della delinquenza. Ma qui il nesso non è affaristico, come nel caso del proibizionismo. Certi beni danno una gratificazione intensa, immediata e di breve periodo, magari facendo correre un rischio al beneficiario. E’ proprio cio’ che cerca una mente incline al crimine, per cui non meravigliamoci se la liberalizzazione delle droghe non trasforma i rivenditori ufficiali in tranquilli commercianti come tutti gli altri.
Altri affermano che la droga libera “disgrega le famiglie”. Puo’ darsi che ci sia un rischio ma… Ma mi chiedo: affidare alle famiglie un compito educativo importante vuol dire “disgregarle”? Forse è più pericoloso farle vivere sotto una campana di vetro, in un mondo artificiale dove appena si presenta un problema la soluzione venga demandata a terzi (anonimi burocrati). A quel punto le famiglie, più che disgregarsi, non sono più nemmeno necessarie. L’epoca contemporanea è l’epoca dei proibizionismi ipertrofici (dai bordi dei giocattoli ai caschetti imbottiti) ma non mi sembra che l’istituto familiare fiorisca come non mai. E’ nella libertà e nel rischio che la protezione della famiglia acquisisce valore.