Cosa puo’ un imprenditore guadagnarsi il Paradiso?
Domanda ardua di cui si occupa quel ramo della filosofia morale che va sotto il nome di “etica degli affari”.
Si tratta di una disciplina destinata a deludere il curioso poiché le due principali visioni che propone appaiono entrambe insoddisfacenti.
Da un lato c’è chi ritiene (per esempio i cattolici) che l’ “imprenditore buono”, nel momento in cui passa all’azione, debba soppesare tutti gli interessi coinvolti nelle decisioni che prenderà. Sarà sua cura valutare come interferirà col benessere dei lavoratori, dei clienti, dei fornitori, dei terzi e finanche dei concorrenti.
Forse si pretende un po’ troppo, uno non lavora più. Arricchirsi sembra incompatibile con un simile puntiglio etico, da qui forse il detto su cammelli e crune.
Dall’altro lato, c’è chi vede il mercato come un meccanismo fondamentalmente amorale, per cui l’ “imprenditore buono” deve badare solo a far prosperare la sua azienda nel rispetto delle regole date dalla politica. Questo delizioso coretto illustra in modo vivido il concetto di responsabilità sociale dell’impresa.
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Anche qui sembra di cogliere una certa esagerazione: non ce lo vedo in Paradiso chi nella vita ha solo massimizzato profitti.
Ma non è disponibile una terza via?
In effetti qualcuno l’ha proposta in questi termini: l’ “imprenditore buono” deve badare solo ai suoi profitti cercando di compensare sia i fallimenti di mercato che quelli della politica.
Colmare i fallimenti di mercato significa essenzialmente non adottare comportamenti opportunistici che compromettano l’efficienza del mercato.
Un esempio?: l’avvocato deve essere leale e trasparente col suo cliente (di solito più ignorante di lui in materia). Il problema non è tanto il fatto di spillare indebitamente soldi a un ingenuo, quanto il fatto che l’asimmetria informativa rende sospettosi molti clienti, il che impedisce la chiusura di diversi contratti con relativa inefficienza del sistema.
Colmare i fallimenti della politica significa essenzialmente trascurare le normative che nuocciono alla concorrenza.
Un esempio?: è bene che l’avvocato tolleri gli abusivi qualora la “lobby avvocatizia” ottenga dalla politica delle riserve di legge che limitano indebitamente la competizione nel settore.
In questo senso l’ “imprenditore buono” non mira né alla bontà né al suo esclusivo profitto, bensì all’ efficienza complessiva del sistema in cui opera. Per far questo, di solito, basta essere sinceri e leali, non è necessario avere slanci mistici.
Notevole il fatto che il risultato finale si ottenga in modo obliquo, un po’ come nello sport. Non a caso l’analogia con lo sport risulta particolarmente potente: il fine del calcio, per esempio, è divertire il pubblico ma gli atleti non si propongono di certo questo obiettivo (lo sport non è il circo!), a loro è richiesto solo di vincere in modo leale, magari aiutando l’arbitro quando è in difficoltà. Il divertimento del pubblico discende naturalmente come effetto collaterale.
Chi desiderasse approfondire “la terza via” puo’ leggere la raccolta di articoli del filosofo Joseph Heath contenuta in Morality, Competition, and the Firm: The Market Failures Approach to Business Ethics.