lunedì 7 aprile 2008

Imre Kertesz: Essere senza destino

L' eterna storia dei campi vissuta e raccontata da un ragazzino che non la capisce appieno e che quindi ci lascia soli e in balia della sua cronachistica descrizione, ci abbandona sprofondati nelle lucide angosce in cui ci precipita una distanza settantennale.

L' esito è notevole perchè un tormento, vissuto nella solitudine, moltiplica i suoi effetti e la sua capacità invasiva.

Un espediente narrativo di sicuro effetto dunque, almeno pari al distacco con cui il chimico Levi prosciuga gli eventi riducendoli al mero fatto.

L' arte poi consiste nell' evitarci ogni trauma allorchè le considerazioni puerili del bambino vengono assoggettate ad una metamorfosi che le trasfigura in intuizioni preziose per noi tutti. Trovata l' ispirazione, le pagine migliori ci regalano arguzie illuminanti a ripetizione. L' occhio senza malizia osserva sottilmente e ci lascia nelle mani il midollo palpitante del dramma.

Le formidabili epifanie, oltretutto, ci confermano la presenza aleggiante di una mente votata alla futura consapevolezza e ci fanno raggiungere per la via giusta quel patetismo che è giusto non manchi.

Il lievito della tragedia è costituito dalla quantità di eventi comuni che la contorna; parole e brandelli di accadimenti si susseguono esattamente come ora nelle nostre case ma illuminati da una luce spettrale che, dopo aver letto il libro, difficilmente la si dimentica anche se non la si è mai vista.