lunedì 19 maggio 2008

L' immaginifico cacciaballe

Camilo Josè Cela: A tempo di mazurca.





Con Don Josè è tutta una questione di ritmo...

"... due passi, cinque battiti del cuore, peto scivolato, pausa, un colpo di tosse, scoreggia a pernacchia, tremolio dello zigomo, occhietto, pausa, lamento sospiroso, assolo di singhizzo, flatulenza abortita, passo e giravolta, scaracchio..."

tanto per capirsi, Don J. scrive in falsetto quando riferisce un dialogo tra donne. E' l' unico che sa farlo.

I suoi libri di solito iniziano così:

"...piove, tranquillamente e senza smettere, piove svogliatamente e con infinita pazienza, come tutta la vita, piove sulla terra che è dello stesso colore del cielo..."

e tu capisci subito che la storia ha già preso una piega truffaldina, che sei di fronte a quel sussiego fraudolento che invera la miglior tradizione iberica.

Te ne rendi conto ma quando JMC suona il suo piffero, noi topolini siamo percorsi da un fremito alle setole. E poi succeda quel che deve succedere.

Bisogna dirlo per avvertenza: sono proprio libri che con tutto il loro moto non vanno da nessuna parte. La prosa è sugosa e la brace che l' indora sempre viva. Eppure si limitano a girare in tondo senza prospettiva.

La carne frolla di quelle parole è dolce come marmellata e nugoli di vivaci mosche nere la presidiano. Libri semimprovvisati, monchi, abortiti, ripresi, mai salvati. Come si puo' dire che è il più grande di uno che ha scritto solo roba malriusita? E quando ti accorgi dell' incoerenza non sai mai a quale giudizio rinunciare.

"... è ormai autunno, dall' albero cade una foglia..."

ecco un fatto, è accaduto. L' umile cronista consegna all' avido lettore lo scabro evento tramite un resoconto fedele quanto scheletrico.

Ma se a prendere la parola fosse l' immaginifico cacciaballe, allora la musica cambia:

"... conosco un albero rarissimo le cui foglie, quando arriva l' autunno, cadono per terra abbattute dalla tristezza, si accartocciano dolcemente come fossero carne di chiocciola... se soffia il vento si possono sollevare e cominciano a vivere e volare; altrimenti, bosogna lasciarle per terra finchè muoiono di fame, perchè ucciderle porta male; solo se le lasci per terra non succede niente e il mondo continua a girare come sempre...".

Don Camilo ogni 2 righe ricomincia la sua storia, ogni 2 righe imposta una variazione sorprendente e risaputa. Il suo martello è ossessivo quanto fantasioso. Fiato corto e voce intonata. La prosa scurrile si stempera nel gioco. Una parlata sminuzzata ma espressiva: il ritmo si fa serrato e sincopato, la nuova invenzione irrompe a metà del rigo troncando il promettente sviluppo della precedente.

Don Camilo ogni due righe ricomincia a tessere una storia. Puo' farlo perchà sa raccontare storie in due righe:

"... Anton, il marito di Fina, venne ucciso dal treno, davanti a tutti, alla stazione di Orense. "Come mai non s' è tirato da parte?" "Che ne so! Il poveretto non parlava molto"..."

"... mia cugina Georgina, mentre era ancora vivo il suo primo parito, Adolfito, faceva il bagno nuda nello stagno del mulino di Lucio Mouro. C' era una trota che restava a fissarle le tette e non si muoveva finchè mia cugina non se ne andava per i fatti suoi. Mia cugina ha sempre avuto delle belle tette. Lo strano era che una trota si fermasse per fissarle come fosse un coscritto..."

"... Luisino Bocelo, il servo castrato di don Benigno, morì in guerra per morte naturale. Gli venne una polmonite in seguito ad un acquazzone, divento cieco e poi morì. Luisino Bocelo lo chiamavano Papero, ma così alla buona, senza cattiveria. "Papero!", "Comandi don Benigno", "Stai su una gamba sola e resisti finchè puoi", "Sì, signore"...".


Chi ci vede un gomitolo arruffato, chi un labirinto di destini incrociati... ma sono destini rattrappiti: chi fila quelle vite ha poca lana. Ogni storia di Don Camilo ha le gambe corte, ma quello non è ancora il suo marchio di fabbrica. Che dall' altra parte della penna ci stia Don Camilo lo capisci dal cominciamento ex abrupto di una favola già predestinata a tamponare violentemente nella successiva.

Canta, abbozza, digressiona creando vortici e buchi neri. Usa la parola come un artificiere, un pirotecnico. Si sgola, sussurra, blatera, enuncia, fa tutte queste cose insieme e poi le rifà al contrario senza mai inghiottire la saliva, fa tutto con l' impegno amorale di un circense.

Se nel rigo che leggiamo invoca calamità, nel rigo dopo impartisce una benedizione. Quando sembra imporsi un pudico riserbo, è la volta buona che apre la sua ruota mostrando una pompa barocca. Agile e vuota, si dispiega la sua narrazione, la lima non cessa mai un lavorio all' impronta. Le sue storie sono gonfie come furuncoli infarciti di un sebo putrido e nutriente. La scorrettezza è ilare e gratuita e, ormai precipitati in una vacuità amorale, la accettiamo senza riserve: si rutta come leoni, si scopa con dispotismo, si rimane zitelle per orgoglio, si evitano le smancerie da fighetti, ci s' ingelosisce come giapponesi, ci si evira con il falcetto, l' umidità è spessa come la vasellina, i modi di peccare sono salubri e allegri. Un paio di virgolette sono sempre disponibili per alienare la tragedia.

La raffica di fantasie si fa talmente fitta da farsi percepire presto come automatica. Emerge un elemento agonistico, sembra sia in corso una gara, tratteniamo il fiato, qualche primato sta senz' altro per essere infranto.