Lo spiritello di Rawls
La nostra intuizione morale è abbastanza chiara: se tu mi metti le mani in tasca sottraendomi il portafoglio sei un ladro. Tuttavia, c’è qualcuno che potrebbe invece parlare di “ridistribuzione delle risorse”. Ma come giustifica questa apparentemente bizzarra affermazione? Una teoria a cui spesso si ricorre è il contrattualismo: all’origine della nostra società ci sarebbe un contratto sociale che fissa delle regole di equa convivenza, tra queste potrebbero entrare anche degli obblighi legati alla redistribuzione delle risorse. Poiché di questo contratto non c’è traccia, occorre postularlo come ipotetico per poi portare argomenti a suo sostegno. Ora, se l’esistenza del contratto è per sua natura solo un’ipotesi, se una simile ipotesi ha conseguenze che confliggono in modo stridente con le nostre intuizioni etiche primarie, è chiaro che l’ipotesi di cui sopra deve essere avvalorata da argomenti molto forti per poter essere ritenuta credibile. Il contrattualista deve concludere che è inevitabile per gli uomini raggiungere un certo accordo di un certo tipo. Noi dobbiamo giudicare se ci è riuscito.
Attenzione a non confondere il contrattualismo con l’utilitarismo: quest’ultimo si limita a sostenere che certe procedure fanno prosperare la società e non che derivino da un accordo originario. Il contrattualista deve portare una montagna di prove a sostegno dell’ipotesi di un contratto iniziale a prescindere dalla sua utilità. Per lui l’equità deriva dall’esistenza di un accordo, non dal fatto che “funzioni bene”.
Ma partiamo dall’inizio. I teorici del contratto sociale danno credito all’affermazione secondo cui gli individui acconsentirebbero ad avere uno stato – e magari di un certo tipo – in determinate condizioni.
Il contratto sociale è solo ipotetico: è bello (e comodo) sentirsi sollevati dalla necessità di dover provare qualcosa sulla base dei fatti. La semplice ipotesi che avremmo accettato un determinato accordo sociale in un particolare scenario legittimerebbe tale accordo e gli obblighi che da esso derivano. Questo approccio ha il vantaggio dialettico di non dipendere dai fatti empirici del mondo reale.
Ma qual è il dovere del buon contrattualista? In primo luogo deve mostrare in modo convincente che le persone accetterebbero il contratto sociale che lui ha pensato a tavolino; secondo, deve dimostrare che questo ipotetico consenso è moralmente vincolante.
Ecco un’analogia illuminante. Supponiamo che un paziente privo di sensi sia stato portato in un ospedale, si riscontra la necessità di un rischioso intervento chirurgico per salvargli la vita. In circostanze normali, i medici dovrebbero ottenere il consenso informato del paziente. Qualcuno potrebbe fare appello alla ragionevole convinzione che il paziente acconsentirebbe alla procedura di salvataggio se solo fosse in grado di farlo. Tuttavia, quando facciamo appello al consenso ipotetico, ci riferiamo a qualcosa che deve essere coerente con i valori effettivi e le credenze filosofiche espresse in vita dall’interessato. Esempio, in qualche caso il medico curante, a causa della sua familiarità con un certo paziente, è consapevole che il paziente ha forti obiezioni religiose alla pratica della chirurgia, anche quando è questione di vita o di morte.
L’analogia ha comunque dei limiti: i cittadini non sono né inconsci, né inconsapevoli.
Una strada alternativa al “consenso ipotetico”, almeno secondo il filosofo Nagel, è quella che punta sulla “ragionevolezza”: quando un sistema strettamente volontario è irrealizzabile, un’approssimazione accettabile può essere un accordo sul quale nessuna persona ragionevole avrebbe da ridire.
L’ assunzione della “ragionevolezza” non è da poco poiché le persone reali non sembrano molto ragionevoli. Ad esempio, dobbiamo assumere che le parti ideali dell’accordo siano meglio informate e più razionali della maggior parte delle persone reali. Dietro questo assunto spesso sta quello più imbarazzante per cui è l’autore della teoria a proporsi come più razionale e informato.
In generale, sarebbe meglio non immaginare che le parti dell’ipotetico accordo siano troppo diverse dall’essere umano medio reale, per timore che l’accordo ipotetico perda la sua forza giustificativa. Ad esempio, non dovremmo interessarci a un accordo ipotetico che potrebbe essere raggiunto tra persone che professano una religione particolare.
Purtroppo, i contrattualisti non hanno offerto prove concrete o ragionamenti per dimostrare che un particolare sistema politico sarebbe stato concordato da tutte le persone ragionevoli. Esiste l’ipotesi ma nessuno sforzo di verifica Il loro, in molti casi, è un mero formalismo per esprimere delle intuizioni etiche. Più che pensare a un contratto ipotetico, dovremmo vederlo come una metafora di equità.
Uno come Nagel, o anche come Rawls, non fa alcun serio sforzo per dimostrare che un sistema politico reale possa soddisfare le condizioni da loro poste. Una possibile spiegazione di questa omissione è che, in effetti, nessun governo soddisfa le condizioni di legittimità. La realtà è molto distante dall’ipotesi fatta, che quindi non puo’ dirisi nemmeno “ipotesi”.
C’è poi la questione della vaghezza. Nagel, per esempio, si pone un solo problema: quanto i ricchi debbano dare ai poveri. Poco o tanto? Tutto o niente? Non si sa bene come collocarsi lungo questo spettro vastissimo. Le sue conclusioni sono vaghissime. Talmente vaghe da far sembrare il contrattualismo un approccio inservibile.
D’altronde, il contrattualismo è il paradigma prescelto sia da un propugnatore della tirannide come Hobbes, che dal libertario come James Buchanan. Dentro ci sta tutto.
Rawls è però ottimista. Tuttavia, l’ottimismo di Rawls, sembra poco giustificato. Sembra davvero impossibile che la sua teoria della giustizia possa essere al centro di un consenso tra individui con differenti opinioni religiose, morali e filosofiche.
A Rawls serve un argomento per poter dimostrare che tutte le persone ragionevoli sarebbero d’accordo sui principi da lui individuati a prescindere dalle loro credenze religiose, morali e filosofiche. Un accordo, quindi, indipendente dai contenuti delle credenze. Un mero formalismo che colleghi il contrattualismo all’utilitarismo.
Nagel e Rawls si sono entrambi concentrati sui principi della giustizia distributiva, un settore molto controverso. Il loro fallimento non sorprende considerato il territorio insidioso in cui si sono inoltrati. Forse avrebbero avuto più successo nel difendere un consenso ipotetico sul fatto di avere un governo piuttosto che nessun governo.
Tuttavia, in questo caso, è probabile che la legittimità non prescinda dal contenuto. Se un individuo accetta che ci dovrebbe essere un governo ma crede che dovrebbe essere di un tipo fondamentalmente diverso dal governo che si ritrova di fatto, è dubbio che riesca a giustificarlo adeguatamente. Un caso analogo è quello in cui un individuo desidera che la sua casa sia dipinta di bianco, e l’imbianchino, senza il suo consenso, gliela dipinge di verde. E’ difficile pensare che la volontà di dipingere la casa possa giustificare anche solo parzialmente l’azione dell’imbianchino.
L’accordo sul governo dipende sempre dal contenuto, non puo’ essere un mero formalismo. Non c’è ragione di pensare che le persone ragionevoli raggiungano un accordo sui principi di base del governo senza avere nessun accordo su quale governo o sulla teoria morale di base da adottare. Non esistono principi disincarnati, ovvero una Ragione disincarnata e puramente astratta.
Si potrebbe pensare che io stia imponendo standard eccessivamente rigidi per giustificare l’assetto sociale. Sicuramente il semplice fatto che qualcuno, anche una persona ragionevole, non sia d’accordo con una particolare pratica o un’ istituzione, non è sufficiente a dimostrare che la pratica o l’istituzione non sia giustificata. Il dissidente può semplicemente sbagliarsi (o essere un pazzo che ha senso escludere).
L’obiezione è sensata ma non puo’ porla il contrattualista. Ciò a cui ricorro è un vincolo, non sulla giustificazione delle teorie sociali in generale, ma sulla giustificazione delle teorie sociali attraverso un appello al consenso ipotetico, e questo vincolo non deriva dalle mie opinioni filosofiche ma da quelle dei contrattualisti. Sono questi teorici (Rawls, Nagel, Scanlon…) che hanno stabilito come condizione di legittimità che tutte le persone ragionevoli concordino su un determinato assetto sociale.
Entro più nel merito valutando quando un accordo ipotetico risulta credibile.
Cominciamo con un’analogia. Immagina che un datore di lavoro contatti un potenziale dipendente con un’offerta di lavoro del tutto onesta, ragionevole e attraente, tra cui retribuzione generosa, orari ragionevoli, condizioni di lavoro piacevoli e così via. Se il lavoratore fosse pienamente informato, razionale e ragionevole, accetterebbe l’offerta di lavoro. Tuttavia, tutti noi siamo d’accordo che il datore di lavoro non abbia alcun diritto a costringere il dipendente ad accettare.
Altro caso: non è permesso a un medico imporre coercitivamente una procedura medica a un paziente.
Altra analogia (più problematica): un naufragio ha costretto un certo numero di persone su un‘isola disabitata. L’isola ha una riserva limitata di selvaggina, che può essere cacciata per il cibo ma deve essere conservata per evitare l’estinzione. Supponiamo che l’unico piano ragionevole sia che i naufraghi limitino con attenzione il numero di animali uccisi ogni settimana. Nonostante questo, un passeggero si rifiuta di accettare tale limite. Sembra plausibile ritenere che gli altri passeggeri possano agire contro di lui con la forza.
Le analogie proposte non sono tutte uguali. La differenza più importante è che nel caso del contratto di lavoro c’è il sequestro di una risorsa, il lavoro del dipendente, su cui la vittima di coercizione vanta un chiaro diritto; mentre nel caso dell’isola c’è la protezione di una risorsa, la selvaggina, sulla quale è plausibile attribuire un diritto collettivo.
Il nostro caso sembrerebbe più affine a quello del lavoro poiché siamo di fronte ad un sequestro di risorse: lo stato rivendica una parte dei guadagni di tutte le persone, qualunque sia la fonte.
Il contrattualismo implica quindi un doppio standard, ovvero un atteggiamento morale lassista applicato al governo a fronte di atteggiamenti duri per qualsiasi altro soggetto.
Entriamo ora nel merito di un caso concreto. Rawls escogita uno scenario ipotetico, la “posizione originaria“, in cui gli individui raggiungono un accordo sui principi di base per governare la loro società. Questi individui sono ritenuti motivati unicamente dall’interesse personale, ma sono stati temporaneamente privati di ogni conoscenza circa le loro caratteristiche reali. Sono, diciamo così, disincarnati. Sono avvolti, questa è l’espressione scelta, da un “velo d’ignoranza”. Rawls prosegue sostenendo che le persone in questa posizione originaria avrebbero scelto due particolari principi di giustizia per governare la loro società: 1) MINMAX (la società migliore è quella in cui chi sta peggio sta meglio) 2) MAXLIB(la società migliore è quella che massimizza la libertà dei suoi componenti).
Ma come può l’ipotetico contratto giustificare i principi di giustizia? Rawls offre la seguente osservazione: dal momento che tutti sono collocati in modo simile [nella posizione originale] e nessuno è in grado di progettare azioni per favorire la sua particolare condizione, i principi di giustizia sono il risultato di un accordo equo. I principi di giustizia dovrebbero trattare tutti i membri da pari e dovrebbero neutralizzare e compensare la fortuna.
Ma perché mai un simile accordo dovrebbe chiudersi? Perché Rawls crede che le parti nella posizione originaria potrebbero raggiungere un accordo piuttosto che continuare a dissentire, come fanno le persone nel mondo reale?
Il mondo di Rawls non è quello reale, lo abbiamo capito. Rawls presume che, una volta eliminate tutte le inclinazioni particolari e tutte le caratteristiche individuali (o la loro conoscenza), le persone ragionevoli e razionali saranno convinte dagli stessi argomenti. Nel mondo di Rawls, in fondo, siamo tutti uguali. il disaccordo, per lui, è dovuto interamente a fattori quali l’ignoranza, l’irrazionalità e i pregiudizi creati dalla conoscenza delle proprie caratteristiche individuali.
Ma quanto è plausibile la diagnosi del disaccordo operata da Rawls? Al di fuori della filosofia politica, i filosofi portano avanti dibattiti senza fine in epistemologia, etica e metafisica, alcuni dei quali hanno millenni.
Una diagnosi più plausibile di disaccordi filosofici diffusi e persistenti è che gli esseri umani sperimentino differenti intuizioni morali. Non quindi la condizione personale ma l’intuizione sottostante. Individui con differenti intuizioni filosofiche e giudizi di plausibilità raggiungeranno, comprensibilmente e razionalmente, posizioni filosofiche differenti. C’è da chiedersi se un’intuizione possa essere smaterializzata.
Consideriamo un caso concreto: il disaccordo tra anarchici e statalisti. Non c’è motivo di pensare che questo disaccordo svanirebbe dietro il velo dell’ignoranza. Non si tratta di neutralizzare dei fantomatici interessi personali. Gli anarchici non sono in disaccordo con gli statalisti hanno una peculiare posizione sociale. Qualunque cosa spieghi questo particolare disaccordo, non c’è nessuno che personalizzi i propri principi morali in base agli interessi. Qui l’ideologia è tutto.
Passiamo ora a trattare l’argomento dell’equità – un argomento spesso avanzato dai contrattualisti come Rawls – introducendolo con un’analogia: immagina che Susanna faccia un’offerta per comprare l’auto di Giovanni. Date le condizione dell’auto, le rispettive posizioni di Susanna e Giovanni, e così via, l’offerta di Susanna appare assolutamente equa. Nonostante questo Giovanni la declina. E’ possibile che Giovanni stia commettendo un torto etico?
Altra analogia: immagina che per puro caso Giovanni scopra un diamante nel suo cortile che gli conferisce un vantaggio materiale rispetto a Susanna. Senza nessuna sua colpa, Susanna si ritrova relativamente più povera di Giovanni. Domanda: Giovanni ha l’obbligo morale di consegnare metà del suo diamante a Susanna?
Come mostrano questi esempi, il fatto che possano esistere accordi ipotetici equi, non crea in generale un obbligo di agire secondo l’accordo ipotetico.
Perché mai dunque dovremmo accettare che in certi casi si applica l’accordo ipotetico? Rawls risponderebbe osservando che i suoi principi di giustizia erano intesi ad applicarsi SOLOalla struttura di base della società. Strana eccezione. Si tratta di una difesa molto debole. Il numero dei contraenti non puo’ mutare i principi etici di base: quel che vale per due, vale anche per tre.
Un’altra distinzione che qualcuno introduce è di natura politica: i miei esempi riguardano attori privati, mentre i principi di Rawls prescrivono l’azione dello stato. Ma in questo modo si ammette che lo status morale di alcuni soggetti è superiore a quello di altri (doppio standard).
Torniamo ora all’assunto cardine di Rawls: la difesa della sua teoria fa appello ai limiti del ragionamento sui principi morali: nel ragionamento morale, bisogna evitare di essere influenzati dall’interesse personale, dalle inclinazioni particolari o da qualsiasi altra caratteristica individuale eticamente irrilevante. Ma le conclusioni di Rawls sono immuni dal vizietto che vorrebbe aggirare? Chi ce lo garantisce? Sembrerebbe che qualsiasi teoria possa soddisfare i requisiti indicati da Rawls, e che quindi una simile teoria non aggiunga nulla alle intuizioni etiche di ciascuno di noi.
La nostra intuizione morale è abbastanza chiara: se tu mi metti le mani in tasca sottraendomi il portafoglio sei un ladro. Tuttavia, c’è qualcuno che potrebbe invece parlare di “ridistribuzione delle risorse”. Ma come giustifica questa apparentemente bizzarra affermazione? Una teoria a cui spesso si ricorre è il contrattualismo: all’origine della nostra società ci sarebbe un contratto sociale che fissa delle regole di equa convivenza, tra queste potrebbero entrare anche degli obblighi legati alla redistribuzione delle risorse. Poiché di questo contratto non c’è traccia, occorre postularlo come ipotetico per poi portare argomenti a suo sostegno. Ora, se l’esistenza del contratto è per sua natura solo un’ipotesi, se una simile ipotesi ha conseguenze che confliggono in modo stridente con le nostre intuizioni etiche primarie, è chiaro che l’ipotesi di cui sopra deve essere avvalorata da argomenti molto forti per poter essere ritenuta credibile. Il contrattualista deve concludere che è inevitabile per gli uomini raggiungere un certo accordo di un certo tipo. Noi dobbiamo giudicare se ci è riuscito.
Attenzione a non confondere il contrattualismo con l’utilitarismo: quest’ultimo si limita a sostenere che certe procedure fanno prosperare la società e non che derivino da un accordo originario. Il contrattualista deve portare una montagna di prove a sostegno dell’ipotesi di un contratto iniziale a prescindere dalla sua utilità. Per lui l’equità deriva dall’esistenza di un accordo, non dal fatto che “funzioni bene”.
Ma partiamo dall’inizio. I teorici del contratto sociale danno credito all’affermazione secondo cui gli individui acconsentirebbero ad avere uno stato – e magari di un certo tipo – in determinate condizioni.
Il contratto sociale è solo ipotetico: è bello (e comodo) sentirsi sollevati dalla necessità di dover provare qualcosa sulla base dei fatti. La semplice ipotesi che avremmo accettato un determinato accordo sociale in un particolare scenario legittimerebbe tale accordo e gli obblighi che da esso derivano. Questo approccio ha il vantaggio dialettico di non dipendere dai fatti empirici del mondo reale.
Ma qual è il dovere del buon contrattualista? In primo luogo deve mostrare in modo convincente che le persone accetterebbero il contratto sociale che lui ha pensato a tavolino; secondo, deve dimostrare che questo ipotetico consenso è moralmente vincolante.
Ecco un’analogia illuminante. Supponiamo che un paziente privo di sensi sia stato portato in un ospedale, si riscontra la necessità di un rischioso intervento chirurgico per salvargli la vita. In circostanze normali, i medici dovrebbero ottenere il consenso informato del paziente. Qualcuno potrebbe fare appello alla ragionevole convinzione che il paziente acconsentirebbe alla procedura di salvataggio se solo fosse in grado di farlo. Tuttavia, quando facciamo appello al consenso ipotetico, ci riferiamo a qualcosa che deve essere coerente con i valori effettivi e le credenze filosofiche espresse in vita dall’interessato. Esempio, in qualche caso il medico curante, a causa della sua familiarità con un certo paziente, è consapevole che il paziente ha forti obiezioni religiose alla pratica della chirurgia, anche quando è questione di vita o di morte.
L’analogia ha comunque dei limiti: i cittadini non sono né inconsci, né inconsapevoli.
Una strada alternativa al “consenso ipotetico”, almeno secondo il filosofo Nagel, è quella che punta sulla “ragionevolezza”: quando un sistema strettamente volontario è irrealizzabile, un’approssimazione accettabile può essere un accordo sul quale nessuna persona ragionevole avrebbe da ridire.
L’ assunzione della “ragionevolezza” non è da poco poiché le persone reali non sembrano molto ragionevoli. Ad esempio, dobbiamo assumere che le parti ideali dell’accordo siano meglio informate e più razionali della maggior parte delle persone reali. Dietro questo assunto spesso sta quello più imbarazzante per cui è l’autore della teoria a proporsi come più razionale e informato.
In generale, sarebbe meglio non immaginare che le parti dell’ipotetico accordo siano troppo diverse dall’essere umano medio reale, per timore che l’accordo ipotetico perda la sua forza giustificativa. Ad esempio, non dovremmo interessarci a un accordo ipotetico che potrebbe essere raggiunto tra persone che professano una religione particolare.
Purtroppo, i contrattualisti non hanno offerto prove concrete o ragionamenti per dimostrare che un particolare sistema politico sarebbe stato concordato da tutte le persone ragionevoli. Esiste l’ipotesi ma nessuno sforzo di verifica Il loro, in molti casi, è un mero formalismo per esprimere delle intuizioni etiche. Più che pensare a un contratto ipotetico, dovremmo vederlo come una metafora di equità.
Uno come Nagel, o anche come Rawls, non fa alcun serio sforzo per dimostrare che un sistema politico reale possa soddisfare le condizioni da loro poste. Una possibile spiegazione di questa omissione è che, in effetti, nessun governo soddisfa le condizioni di legittimità. La realtà è molto distante dall’ipotesi fatta, che quindi non puo’ dirisi nemmeno “ipotesi”.
C’è poi la questione della vaghezza. Nagel, per esempio, si pone un solo problema: quanto i ricchi debbano dare ai poveri. Poco o tanto? Tutto o niente? Non si sa bene come collocarsi lungo questo spettro vastissimo. Le sue conclusioni sono vaghissime. Talmente vaghe da far sembrare il contrattualismo un approccio inservibile.
D’altronde, il contrattualismo è il paradigma prescelto sia da un propugnatore della tirannide come Hobbes, che dal libertario come James Buchanan. Dentro ci sta tutto.
Rawls è però ottimista. Tuttavia, l’ottimismo di Rawls, sembra poco giustificato. Sembra davvero impossibile che la sua teoria della giustizia possa essere al centro di un consenso tra individui con differenti opinioni religiose, morali e filosofiche.
A Rawls serve un argomento per poter dimostrare che tutte le persone ragionevoli sarebbero d’accordo sui principi da lui individuati a prescindere dalle loro credenze religiose, morali e filosofiche. Un accordo, quindi, indipendente dai contenuti delle credenze. Un mero formalismo che colleghi il contrattualismo all’utilitarismo.
Nagel e Rawls si sono entrambi concentrati sui principi della giustizia distributiva, un settore molto controverso. Il loro fallimento non sorprende considerato il territorio insidioso in cui si sono inoltrati. Forse avrebbero avuto più successo nel difendere un consenso ipotetico sul fatto di avere un governo piuttosto che nessun governo.
Tuttavia, in questo caso, è probabile che la legittimità non prescinda dal contenuto. Se un individuo accetta che ci dovrebbe essere un governo ma crede che dovrebbe essere di un tipo fondamentalmente diverso dal governo che si ritrova di fatto, è dubbio che riesca a giustificarlo adeguatamente. Un caso analogo è quello in cui un individuo desidera che la sua casa sia dipinta di bianco, e l’imbianchino, senza il suo consenso, gliela dipinge di verde. E’ difficile pensare che la volontà di dipingere la casa possa giustificare anche solo parzialmente l’azione dell’imbianchino.
L’accordo sul governo dipende sempre dal contenuto, non puo’ essere un mero formalismo. Non c’è ragione di pensare che le persone ragionevoli raggiungano un accordo sui principi di base del governo senza avere nessun accordo su quale governo o sulla teoria morale di base da adottare. Non esistono principi disincarnati, ovvero una Ragione disincarnata e puramente astratta.
Si potrebbe pensare che io stia imponendo standard eccessivamente rigidi per giustificare l’assetto sociale. Sicuramente il semplice fatto che qualcuno, anche una persona ragionevole, non sia d’accordo con una particolare pratica o un’ istituzione, non è sufficiente a dimostrare che la pratica o l’istituzione non sia giustificata. Il dissidente può semplicemente sbagliarsi (o essere un pazzo che ha senso escludere).
L’obiezione è sensata ma non puo’ porla il contrattualista. Ciò a cui ricorro è un vincolo, non sulla giustificazione delle teorie sociali in generale, ma sulla giustificazione delle teorie sociali attraverso un appello al consenso ipotetico, e questo vincolo non deriva dalle mie opinioni filosofiche ma da quelle dei contrattualisti. Sono questi teorici (Rawls, Nagel, Scanlon…) che hanno stabilito come condizione di legittimità che tutte le persone ragionevoli concordino su un determinato assetto sociale.
Entro più nel merito valutando quando un accordo ipotetico risulta credibile.
Cominciamo con un’analogia. Immagina che un datore di lavoro contatti un potenziale dipendente con un’offerta di lavoro del tutto onesta, ragionevole e attraente, tra cui retribuzione generosa, orari ragionevoli, condizioni di lavoro piacevoli e così via. Se il lavoratore fosse pienamente informato, razionale e ragionevole, accetterebbe l’offerta di lavoro. Tuttavia, tutti noi siamo d’accordo che il datore di lavoro non abbia alcun diritto a costringere il dipendente ad accettare.
Altro caso: non è permesso a un medico imporre coercitivamente una procedura medica a un paziente.
Altra analogia (più problematica): un naufragio ha costretto un certo numero di persone su un‘isola disabitata. L’isola ha una riserva limitata di selvaggina, che può essere cacciata per il cibo ma deve essere conservata per evitare l’estinzione. Supponiamo che l’unico piano ragionevole sia che i naufraghi limitino con attenzione il numero di animali uccisi ogni settimana. Nonostante questo, un passeggero si rifiuta di accettare tale limite. Sembra plausibile ritenere che gli altri passeggeri possano agire contro di lui con la forza.
Le analogie proposte non sono tutte uguali. La differenza più importante è che nel caso del contratto di lavoro c’è il sequestro di una risorsa, il lavoro del dipendente, su cui la vittima di coercizione vanta un chiaro diritto; mentre nel caso dell’isola c’è la protezione di una risorsa, la selvaggina, sulla quale è plausibile attribuire un diritto collettivo.
Il nostro caso sembrerebbe più affine a quello del lavoro poiché siamo di fronte ad un sequestro di risorse: lo stato rivendica una parte dei guadagni di tutte le persone, qualunque sia la fonte.
Il contrattualismo implica quindi un doppio standard, ovvero un atteggiamento morale lassista applicato al governo a fronte di atteggiamenti duri per qualsiasi altro soggetto.
Entriamo ora nel merito di un caso concreto. Rawls escogita uno scenario ipotetico, la “posizione originaria“, in cui gli individui raggiungono un accordo sui principi di base per governare la loro società. Questi individui sono ritenuti motivati unicamente dall’interesse personale, ma sono stati temporaneamente privati di ogni conoscenza circa le loro caratteristiche reali. Sono, diciamo così, disincarnati. Sono avvolti, questa è l’espressione scelta, da un “velo d’ignoranza”. Rawls prosegue sostenendo che le persone in questa posizione originaria avrebbero scelto due particolari principi di giustizia per governare la loro società: 1) MINMAX (la società migliore è quella in cui chi sta peggio sta meglio) 2) MAXLIB(la società migliore è quella che massimizza la libertà dei suoi componenti).
Ma come può l’ipotetico contratto giustificare i principi di giustizia? Rawls offre la seguente osservazione: dal momento che tutti sono collocati in modo simile [nella posizione originale] e nessuno è in grado di progettare azioni per favorire la sua particolare condizione, i principi di giustizia sono il risultato di un accordo equo. I principi di giustizia dovrebbero trattare tutti i membri da pari e dovrebbero neutralizzare e compensare la fortuna.
Ma perché mai un simile accordo dovrebbe chiudersi? Perché Rawls crede che le parti nella posizione originaria potrebbero raggiungere un accordo piuttosto che continuare a dissentire, come fanno le persone nel mondo reale?
Il mondo di Rawls non è quello reale, lo abbiamo capito. Rawls presume che, una volta eliminate tutte le inclinazioni particolari e tutte le caratteristiche individuali (o la loro conoscenza), le persone ragionevoli e razionali saranno convinte dagli stessi argomenti. Nel mondo di Rawls, in fondo, siamo tutti uguali. il disaccordo, per lui, è dovuto interamente a fattori quali l’ignoranza, l’irrazionalità e i pregiudizi creati dalla conoscenza delle proprie caratteristiche individuali.
Ma quanto è plausibile la diagnosi del disaccordo operata da Rawls? Al di fuori della filosofia politica, i filosofi portano avanti dibattiti senza fine in epistemologia, etica e metafisica, alcuni dei quali hanno millenni.
Una diagnosi più plausibile di disaccordi filosofici diffusi e persistenti è che gli esseri umani sperimentino differenti intuizioni morali. Non quindi la condizione personale ma l’intuizione sottostante. Individui con differenti intuizioni filosofiche e giudizi di plausibilità raggiungeranno, comprensibilmente e razionalmente, posizioni filosofiche differenti. C’è da chiedersi se un’intuizione possa essere smaterializzata.
Consideriamo un caso concreto: il disaccordo tra anarchici e statalisti. Non c’è motivo di pensare che questo disaccordo svanirebbe dietro il velo dell’ignoranza. Non si tratta di neutralizzare dei fantomatici interessi personali. Gli anarchici non sono in disaccordo con gli statalisti hanno una peculiare posizione sociale. Qualunque cosa spieghi questo particolare disaccordo, non c’è nessuno che personalizzi i propri principi morali in base agli interessi. Qui l’ideologia è tutto.
Passiamo ora a trattare l’argomento dell’equità – un argomento spesso avanzato dai contrattualisti come Rawls – introducendolo con un’analogia: immagina che Susanna faccia un’offerta per comprare l’auto di Giovanni. Date le condizione dell’auto, le rispettive posizioni di Susanna e Giovanni, e così via, l’offerta di Susanna appare assolutamente equa. Nonostante questo Giovanni la declina. E’ possibile che Giovanni stia commettendo un torto etico?
Altra analogia: immagina che per puro caso Giovanni scopra un diamante nel suo cortile che gli conferisce un vantaggio materiale rispetto a Susanna. Senza nessuna sua colpa, Susanna si ritrova relativamente più povera di Giovanni. Domanda: Giovanni ha l’obbligo morale di consegnare metà del suo diamante a Susanna?
Come mostrano questi esempi, il fatto che possano esistere accordi ipotetici equi, non crea in generale un obbligo di agire secondo l’accordo ipotetico.
Perché mai dunque dovremmo accettare che in certi casi si applica l’accordo ipotetico? Rawls risponderebbe osservando che i suoi principi di giustizia erano intesi ad applicarsi SOLOalla struttura di base della società. Strana eccezione. Si tratta di una difesa molto debole. Il numero dei contraenti non puo’ mutare i principi etici di base: quel che vale per due, vale anche per tre.
Un’altra distinzione che qualcuno introduce è di natura politica: i miei esempi riguardano attori privati, mentre i principi di Rawls prescrivono l’azione dello stato. Ma in questo modo si ammette che lo status morale di alcuni soggetti è superiore a quello di altri (doppio standard).
Torniamo ora all’assunto cardine di Rawls: la difesa della sua teoria fa appello ai limiti del ragionamento sui principi morali: nel ragionamento morale, bisogna evitare di essere influenzati dall’interesse personale, dalle inclinazioni particolari o da qualsiasi altra caratteristica individuale eticamente irrilevante. Ma le conclusioni di Rawls sono immuni dal vizietto che vorrebbe aggirare? Chi ce lo garantisce? Sembrerebbe che qualsiasi teoria possa soddisfare i requisiti indicati da Rawls, e che quindi una simile teoria non aggiunga nulla alle intuizioni etiche di ciascuno di noi.