Dario Fo – Mistero buffo
Puntuale, prima di ogni scenetta, ci piomba addosso un prologo didascalico imperniato su lacunose ricostruzioni storiche; lo si ascolta sempre dubitando se lo spettacolo debba considerarsi iniziato, se siamo dentro o fuori la giullarata.
Forse siamo proprio nel bel mezzo, visto che l’ artista ci tratta come tanti scolaretti in fila per due da redarguire e indottrinare, trattamento che ha del verosimile solo a patto di sostituire la pedana della cattedra con quella ancor più elevata del palcoscenico.
Poi, finalmente, entrati nel vivo la musica cambia.
Si parte subito con il piede giusto evitando di mitigare alcune scomode verità: in un mondo razzista i bambini sono i più razzisti, in un mondo egoista l’ oppresso è il più egoista. La simpatia per il popolo minuto non attenua la sua somma sgradevolezza.
Chi supera lo straccione quanto ad inclinazione reazionaria?; è schifato alla sola idea di iscriversi a un club che accogliesse gente che sguazza nel fango come lui.
Dovendo scegliersi un Salvatore lo pretende di classe superiore… un aristocratico, un re, un re dei re annunciato da trombe argentate.
Alla fine, posto di fronte al Salvatore reale, non si sofferma sull’ umiltà, nota piuttosto la sua eleganza nel vestire e nei modi, il suo fascino e la sua capacità di stare a proprio agio tra i dignitari della città.
Per non parlare della Madonna “… proprio una gran bèla dona…”.
A lui, a Gesù, più che la vita eterna si sollecita il sollazzo del vino (Cana) e i giochi di prestigio (Lazzaro).
Il primitivismo richiede un Dio biblico: geloso, desiderante, generoso, eccessivo.
Inseguito da questa richiesta Fo plasma il suo pezzo forte, un Gesù bambino che è un dio biblico in miniatura stracolmo di paure e voglie. Voglia di giocare, di imparare, di provare, di comandare, di integrarsi… Voglie sempre al confine con il capriccio.
Anche dalla Croce sembra pendere un Gesù Bambino che chiama mammà tra i lacrimotti (… oh mama… mama… indùa at sètt, mama… ol végn scur… hàit frèc, mama… mama…).
La curiosità impertinente fa di questo bimbetto emigrato sulla terra (“terùn”) il protagonista ideale che si aggira in un mondo tutto da scoprire.
E i Misteri sono tanti, c’ è quello doloroso, quello gaudioso e quello glorioso. Ma fuori scena si tiene tutti i giorni un mistero particolare, quello buffo.
E’ un mistero fatto di normalità feriale: di pialle, di seghe, di prezzi, di contrattazioni. Piacerebbe all’ Opus Dei.
Per penetrarlo bisogna frequentare gli interstizi e chiedersi a cosa attende il signor Gesù quando non fa miracoli, quando non impartisce insegnamenti, quando non pronuncia profezie, quando non racconta parabole.
Cosa fa quando esce dalle quinte dei Vangeli canonici?
E la Madonna?
Forse fa quello che fa una mamma qualsiasi: passa mentre va a far la spesa.
Vive il dramma di una mamma qualsiasi che passando casualmente per la via nota con crescente terrore che è proprio suo figlio il tale coinvolto nell' incidente in fondo alla strada (ma quello a terra è il suo motorino!), un tuffo al cuore la paralizza.
E così pure la Madonna, quando scorge che quel tale insultato sotto il legno del supplizio è il suo bambino, precipita negli abissi di un Mistero Doloroso.
Ma un attimo prima in cosa era impegnata? Forse stava spettegolando sui prezzi del mercato con le tre Marie. Era in pieno Mistero buffo.
Il cozzo tra i due Misteri fa scattare una scintilla che illumina le lettere prealpine.
In quel preciso istante il testimone passa dalle mani di Dario Fo a quelle di Giovanni Testori.
Quest’ artista ideale che contende a si passa la palla dobbiamo proprio immaginarcelo come una sola persona con il corpaccione a Sangiano e la crapa a Novate, avrebbe meritato un Nobel all’ anno ed è il parto più notevole della letteratura tra Milano e Lugano.
Dallo sghignazzo scompisciato si passerà così all’ immattimento esistenziale illustrando così la vicenda umana in tutte le sue apparentemente incompatibili sfumature.
A unire i due è innanzitutto il linguaggio; un linguaggio faticoso che entrambi estraggono da un brodo primordiale perturbato da gorgoglii e sfiati (bergamaschi?).
Ai loro protagonisti è successo qualcosa che li spinge ad articolare cio’ che fino a prima era solo un ribollire indistinto.
Non si puo’ più tacere, bisogna farsi capire! Abbiamo assistito a cose straordinarie e ora dobbiamo testimoniare. Noi, i muti, dobbiamo testimoniare.
Come fare?
Tentando, imitando, inventando, iterando, rabberciando, improvvisando, ritentando. Con le labbra, con la lingua, con la glottide, con le viscere, sbracciando, sputando…
Armati di pleonasmi e ridondanze in qualche modo forgeremo una lingua passe-partotut nuova di zecca, senza regole e che, periclitante, stia in piedi solo grazie al venire incontro dell’ orecchio altrui.
***
Cio’ che disturba in Fo è come risolve goffamente il dilemma canonico in cui s’ imbatte chi imbocca la strada da lui scelta: il giullare è un folle-libero-pensatore o un tipo grottesco e inattendibile schiavo dei sue pensate bislacche?
Qui lo sciagurato Fo perde la necessaria ambiguità, il suo braccio si accorcia e non arriva a consegnare il testimone a Testori: vuole fortemente la prima soluzione spingendo fuori dalla porta la seconda che, a quel punto, solo nei momenti migliori e di straforo rientra felicemente dalla finestra.
Come nel testoriano episodio de “La strage degli innocenti”, con quella mamma obnubilata a cui hanno appena scannato il pargoletto.
In compagnia dei soldati assistiamo pietrificati al suo impazzimento (… chi l’ è? l’ è vuna che ol s’ è ruersà ol cerveèl par ol dulur che gh’ èm cupàt ol fiolìn…)
La sua è una follia-rifugio, l’ opposto della follia erasmiana; una follia da cui promana impotenza, non saggezza; che non disvela strategie ma l’ abisso di un cuore; non istiga all’ azione ma alla pietà.
La rincontreremo calma e intenerita con un fagottino, c’ è qualcosa che lì dentro lo scialle ancora insanguinato: ha tra le braccia un agnello (péguritt… agnus dei). Un presentimento ci ghiaccia mentre assistiamo a quella gioia demente.
Deambulando senza meta, con l’ alibi della follia, bestemmiava il Padreterno per la disgrazia che le aveva mandato, finché, passando davanti l’ ovile, nella sua allucinazione, ha sentito il pianto del suo bimbo…
[… de bòt… me son sentìda ciamàr del me fiolìn… ho voltà i ogi e dènter a l’ uvìl, in mèz ai pegurì, ho descoverto ol me bambìn che ol piagnéva! Me ciamava bèèèèè, bèèèèè ‘me ‘na pegura… a l’ era el me fiolìn… ma cossa ghe faseva el me fiolìn tra i péguri?! A l’ era lì a gatoni… l’ hait catàt in brazi… l’ ho stringiùo… l’ ho basàt e ho scomensà a piàgnere de consulaziùn… at te domandi perdono Segnùr misericordiùs par sti bruti paròli che t’ hait criàt, che mi non le penzava miga… l’ è stai ol diavul… che ti te set tanto buono che me t’ hait salvà ol fiòl de mi…]
In un crescendo schizofrenico ascoltiamo questo strano giullare in gonnella raccontare tra le strizzatine d’ occhio di come ha beffato i soldati e salvato la prole zoccoluta che ora coccola senza sosta.
La disgraziata spinge per stare al fianco della sciùra Madonna in qualità di unica mamma con il bambinello scampato.
La sentiamo lodare la sua gioia (varda chi… l’ ha già mess su duu dencitt).
Qui si respira il grande teatro, viene in mente il Cristo eroinomane che crepa nel suo vomito barricato in un cesso della Centrale (In exitu).
Noi non siamo certo divertiti dalla stramberia, ma nemmeno ci sentiamo ammaestrati e istruiti.
L’ effetto che fanno queste scene quando arrivano è quello di mettere addosso una strana voglia di amare.
Una voglia volatile, s’ intende, destinata a sgabbiare non appena nella calca all’ uscita da teatro un cretino ci pesterà il piede calloso. Ma intanto possiamo testimoniare (a noi stessi) che esiste, che vale la pena di provarla una o due volte l’ anno e che in questo caso vale, oltre al prezzo del biglietto, un applauso spaccapalme.
p.s. l’ ormai “mitico” primo miracolo di Gesù Bambino parte all’ altezza di 1:12:40
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