mercoledì 14 settembre 2011

Primo giorno di scuola…

… E il problema è sempre lo stesso: come traslare la massa di studenti dal sempre più costoso sistema statale al privato?

Ci sono le vie più tradizionali, su quale puntare? Vouchers o tagli? Io ho un debole per la seconda: taglia e la gente si arrangerà altrimenti. La crisi è un ottimo alleato, bisogna comunque riconoscere l’ impopolarità di queste soluzioni.

Alternative?

A sorpresa scopriamo di poter far leva su alcuni cliché progressisti. Di seguito presento due varianti di un qualche interesse.

Il primo è un caso di serendipity: forse abbiamo scovato (per puro caso) una strategia politicamente corretta che favorisce la cruciale migrazione.

L' ha scoperta la città di Boston (senza volerlo).

Città progressista ossessionata dalle “pari opportunità”, come metodo per assegnare l' istituto di riferimento a ciascun remigino che esordisce nel sistema scolastico ha introdotto la lotteria ( previa preferenze).

Non vuoi sottoporti alla lotteria? Hai due alternative: 1. passi al privato, 2. traslochi fuori città.

Esito: 1. fugone nel privato e 2. traslochi in gran quantità delle famiglie con figli.

Eppure, in termini di "giustizia sociale", chi potrebbe mai opinare su un metodo come quello della lotteria?

Anche l' impavido difensore del "pubblico" (così lui si ostina a chiamare la scuola statalizzata), messo di fronte alla dea bendata, decide di battere in ritirata tradendo l' ostentata fiducia e facendo così cadere quel velo d' ipocrisia con il quale impacchetta di solito i suoi sermoni.

Ma come spiegare l' accaduto?

Forse qualcuno illude se stesso chiamando “pubblico” lo stimato liceo del quartiere bene dove risiede. Ho comunque l' impressione che rispondere a questa domanda getterebbe luce su un problema – la popolarità della scuola statalizzata - altrimenti inspiegabile.

P.S.: fonte

carved boook

Veniamo al secondo caso.

Già oggi che vengono ridotti gli incrementi annuali dei sussidi, la nostra scuola annaspa e persino il progressismo fideista di Ilvo Diamanti invita ironicamente ad abbandonare una nave che affonda (ht Giovanna Cosenza):

«CARI RAGAZZI, cari giovani: non studiate! Soprattutto, non nella scuola pubblica. Ve lo dice uno che ha sempre studiato e studia da sempre. Che senza studiare non saprebbe che fare. Che a scuola si sente a casa propria.

Ascoltatemi: non studiate. Non nella scuola pubblica, comunque. Non vi garantisce un lavoro, né un reddito. Allunga la vostra precarietà. La vostra dipendenza dalla famiglia. Non vi garantisce prestigio sociale. Vi pare che i vostri maestri e i vostri professori ne abbiano? Meritano il vostro rispetto, la vostra deferenza? I vostri genitori li considerano “classe dirigente”? Difficile.» (QUI tutto l’articolo.)

Un auspicabile sviluppo della situazione potrebbe essere questo: mentre nella scuola di stato ci si batte per avvicinare il discente alla Costituzione, alla Cittadinanza, ai diritti dell’ uomo, alle pratiche linguistiche anti-discriminatorie… [tutta roba politicamente molto corretta], i privati potrebbero offrire in alternativa a questi catechismi esoterici semplici corsi a pagamento su Dante e Petrarca. La cosa sembra andare a ruba.

"Great Courses, Great Profits: A teaching company gives the public what the academy no longer supplies: a curriculum in the monuments of human thought." City Journal, Summer 2011, Vol. 21, No. 3:

And the company offers a treasure trove of traditional academic content that undergraduates paying $50,000 a year may find nowhere on their Club Med-like campuses. This past academic year, for example, a Bowdoin College student interested in American history courses could have taken "Black Women in Atlantic New Orleans," "Women in American History, 1600-1900," or "Lawn Boy Meets Valley Girl: Gender and the Suburbs," but if he wanted a course in American political history, the colonial and revolutionary periods, or the Civil War, he would have been out of luck. A Great Courses customer, by contrast, can choose from a cornucopia of American history not yet divvied up into the fiefdoms of race, gender, and sexual orientation, with multiple offerings in the American Revolution, the constitutional period, the Civil War, the Bill of Rights, and the intellectual influences on the country's founding. There are lessons here for the academy, if it will only pay them heed.

. . .
So totalitarian is the contemporary university that professors have written to Rollins complaining that his courses are too canonical in content and do not include enough of the requisite "silenced" voices. It is not enough, apparently, that identity politics dominate college humanities departments; they must also rule outside the academy. Of course, outside the academy, theory encounters a little something called the marketplace, where it turns out that courses like "Queering the Alamo," say, can't compete with "Great Authors of the Western Literary Tradition."

. . .
The very fact that the Great Courses has found professors who teach without self-indulgence may suggest that academia is in better shape than is sometimes supposed. But the firm's 200-plus faculty make up a minute percentage of the country's college teaching corps. And some Great Courses lecturers feel so marginalized on their own campuses, claims Guelzo, that "if the company granted tenure, they would scramble to abandon their current ships and sleep on couches to work for the firm." Further, it isn't clear that the Great Courses professors teach the same way back on their home campuses. A professor who teaches the Civil War as the "greatest slave uprising in history" to his undergraduates because that is what is expected of him, says University of Pennsylvania history professor Alan Kors, will know perfectly well how to teach a more intellectually honest course for paying adults.

martedì 13 settembre 2011

Peter Smith sull’ aborto

… Consider the following “gradualist” view: As the human zygote/embryo/foetus slowly develops, its death slowly becomes a more serious matter. At the very beginning, its death is of little consequence; as time goes on, its death is a matter it becomes appropriate to be gradually more concerned about.

Now, this view seems to be the one that almost all of us in fact do take about the natural death of human zygotes/embryos/foetuses. After all, very few of us are worried by the fact that a very high proportion of conceptions quite spontaneously abort. We don’t campaign for medical research to reduce that rate (nor do opponents of abortion campaign for all women to take drugs to suppress natural early abortion). Compare: we do think it is a matter for moral concern that there are high levels of infant mortality in some countries, and campaign and give money to help reduce that rate. Continua…

L’ argomento impegna il cattolico; molto meno un libertario anti-abortista (che tra l’ uccidere e il lasciar morire mette un bel muro).  E i cattolici libertari?

cedric

Libertarianism A-Z: assicurazioni sanitarie

Jeffrey Myron sulle assicurazioni sanitarie
  • Ci sono almeno due motivi per socializzare l’ assistenza sanitaria: 1. il mercato è vittima di adverse selection e 2. le assicurazioni private costano troppo.
  • La selezione avversa si supera costringendo tutti ad avere un’ assicurazione e non “socializzando” la sanità. In ogni caso nemmeno il postulato della selezione avversa sta in piedi basandosi su una asimmetria informativa che in realtà non esiste. Se solo le assicurazioni potessero esaminare a fondo lo stato di salute dell’ assicurato finirebbero per saperne anche più di lui!
  • Ed eccoci allora al secondo problema: gli esami condurrebbero a polizze molto care per chi ha problemi di salute o rischi seriamente di averne in futuro. Ma questo non è un problema che riguarda la gestione della sanita, bensì quella della povertà, una questione ben diversa.
  • La socializzazione della salute implica problemi di azzardo morale risolvibili solo con sistemi di co-pagamento (ticket).
  • Ci fossero solo quelli… il fatto è che l’ assicurazione unica non è certo l’ assicurazione ottimale per tutti! E qui le inefficienze abbondano: i burocrati eludono le decisioni cruciali fornendo schemi assicurativi rozzissimi.
  • C’ è poi il problema dei prezzi: quanto far pagare le medicine? Quanto costano i dottori? Domande ardue se al posto del mercato ci mettiamo un burocrate. Fissare costi sotto il livello di mercato stronca l’ innovazione e incentiva la corruzione. Due mali tipici della sanità europea.
continua

lunedì 12 settembre 2011

Il guaio delle lotte anti-discriminazione

… E’ che non esiste una teoria coerente per cose del genere.

La conseguenza è che si procede alla cieca senza poter rispondere in modo convincente alle critiche.

Robert Wiblin lo dice meglio:

…Discrimination’ against certain groups supposedly remains a big problem in the modern world. But I have never found a theory that can sensibly explain what this bad ‘discrimination’ is precisely and sensibly distinguishes the sorts of discrimination which are OK from those which are not OK and justifies the difference…

… The hard question is figuring out when, if ever, using information accurately is a bad thing…

La confusione concettuale è tale… che sarebbe stupido non dirsi “sessisti”.

aaa

Ragionamenti lasciati a metà: l’ effetto serra

Il prototipo è quello sul global warming:

The argument for large and expensive efforts to prevent or reduce global warming has three parts, in principle separable: Global temperature is trending up, the reason is human activity, and the consequences of the trend continuing are very bad. Almost all arguments, pro and con, focus on the first two. The third, although necessary to support the conclusion, is for the most part ignored by both sides…

The answer, I think, is that nobody knows if the net effects would be good or bad, and probably nobody can know. We are talking, after all, about effects across the world over a century. How accurately could somebody in 1900 have predicted what would matter to human life in 2000? What reason do we have to think we can do better?…

If we have no good reason to believe that humans will be substantially worse off after global warming than before, we have no good reason to believe that it is worth bearing sizable costs to prevent global warming. (leggi tutto)

Miina Äkkijyrkkä

domenica 11 settembre 2011

Libertarianism A-Z: tassa sui consumi

Tassare il consumo promuove il risparmio e l’ accumulazione di capitale. Alti risparmi significa alti investimenti, ogni economia sana non puo’ prescindere dal volume di investimenti.

Qualcuno si oppone dicendo che la tassa sui consumi è regressiva: si potrebbe conciliare le istanze tassando i consumi con aliquote che variano in base al reddito.

venerdì 9 settembre 2011

Sfogo post crisi

Agosto di passione per il risparmiatore. Le Borse crollano e, dopo temporanei puntelli, tornano a crollare come niente fosse. La situazione è talmente grave che anche la ricerca del colpevole appare come tempo perso che alimenta la frustrazione. Viene il dubbio che chi “agisce male” non possa che agire così, che chi sbaglia, se operasse correttamente, otterrebbe solo un rinvio insignificante del redde rationem. La rabbia si placa nell’ impotenza che a sua volta cede a una sorta di malinconica lucidità.

Lasciatemi sfogare! Lasciatemi buttare giù di getto alcune riflessioni così come vengono, senza link, senza note, senza nomi, senza dati. Vi racconto la crisi come la vedo io, vi fornisco la mia “narrazione”. Si tratta forse solo di sensazioni, le declasso così per non apparire intento a decifrare la forma delle nuvole.

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Non è facile districarsi nel dedalo della finanza, siamo sommersi da dati, indici dal segno mutevole che ci franano addosso da ogni dove, siamo assediati da cangianti interpretazioni autorevoli revocate in dubbio da quanto accade il giorno dopo, da cronisti che urlano la notizia mischiandola con gossip&omicidi, spuntano a ogni angolo esperti che commentano nel dettaglio nuove poi smentite. In casi come questi bisogna avere la forza di arretrare di un passo prendendo le distanze in modo da osservare le cose da lontano.

Sorvolo poi sulle distorsioni ideologiche che viziano buona parte dei resoconti, chi puo’ dirsene al riparo quando ci si impegna su un soggetto del genere? Quando gira e rigira, con infinite precauzioni, alla fin fine sei pur sempre chiamato a puntare i fari sull’ untore e a stabilire chi paga?

Eppure di roba ormai ne ho vagliata, alcune convinzioni le ho maturate e il barlume di una visione ha preso forma. Non rivendico la paternità di idee originali, molto più semplicemente alcuni commentatori mi hanno convinto più di altri e qui vorrei assemblare il meglio con coerenza, nel modo più semplice a rischio di banalizzare. Vorrei dire – prima di tutto a me stesso – qualcosa che rasenti l’ approssimativo pur di fissarsi nella mente anche quando sotto il bombardamento mediatico e piazzaiolo sarà facile smarrire qualsiasi bussola.

A quanto pare la confusione sotto il cielo è accresciuta dal fatto che molti nodi sembrano venuti al pettine tutti insieme. Non è semplicemente un temporale a strapazzarci ma un tornado che al suo interno ne contiene molteplici. Se il malato di morbillo soffre anche di calcoli e la nefrite non lo risparmia, il dottore, statene certi, non ci capisce più niente.

Comincio col dire che i cicli economici, croce e delizia degli economisti, hanno sempre tormentato il capitalismo senza mai trovare una spiegazione convincente. Sono dei vecchi amici che alimentano il dibattito accademico in tutte le salse; sono delle presenze misteriose che non gettano la maschera neanche dopo che decine di Nobel sono stati distribuiti per consacrare l’ opera di presunti smascheratori. Un serio consenso in materia latita dando l’ inquietante sensazione che non si farà mai vivo.

A questo punto la cosa migliore è rassegnarsi al fatto che l’ uomo (economico) agisce in modo bizzarro allorché incappa nell’ “innovazione”. Quando ha per le mani un “oggetto nuovo” regredisce all’ infanzia, comincia a giocarci, si esalta e diventa imprevedibile. Il fatto è che in un economia di mercato l’ innovazione ricorre spesso, e guai se non fosse così.

Di fronte alle novità prorompenti il sistema economico capitalistico tende a generare quei fenomeni particolari che chiamiamo “bolle”.

Se a irrompere è la “novità-internet”, per esempio, ecco che tutti si buttano a capofitto su internet. Fuffa e promettenti progetti si avvinghiano in un abbraccio inestricabile.

Opera altresì una sorta di mimetismo ingannevole: anche chi è lontano mille miglia dalla sostanza delle pratiche innovative sente di doversi dare una “verniciatina internettiana” per ricevere attenzione e finanziamenti.

Ma, oltre alla subdola mimesi che fa scendere una penombra in cui tutte le vacche si fanno grigie, quando il fattore “novità” entra in scena, nel fondo di molti cuori lavora sempre anche una “grande speranza”; un sentimento forse irrazionale ma più che comprensibile; la speranza ci serve per procedere nell’ ignoto. Se per lei non c’ è spazio nella teoria delle scelte razionali, se la razionalità cartesiana non ci illumina circa il ruolo di questa inclinazione, lo farà la logica evolutiva. Sta di fatto che “novità” e “speranza” procedono appaiate, inutile voler separare queste due amiche che si danno appuntamento nell’ animo umano quando scruta il futuro e salpa alla conquista di nuovi pianeti.

Senonché, la verità viene presto a galla, le “bolle” scoppiano e la crisi riporta i valori alle giuste proporzioni. Le speranze eccessive si sgonfiano e restiamo con in mano quelle “novità” che un tempo credevamo miracolose e che ora, per quanto ridimensionate, sono comunque utili.

Esempio (facile). Le “novità” più recenti hanno riguardato la contrattualistica finanziaria. Ricordate la vicenda dei subprime e dei CDS? Se ne sono inventati di tutti i tipi, molti in buona fede hanno sperato che in questo modo fosse possibile dare una casa anche a chi prima non poteva permettersela, sta di fatto che le “bolle” relative si sono gonfiate per bene e hanno fatto un bel botto quando sono esplose, come da manuale. Ora, chissà mai che quella sofisticata strumentazione non torni utile all’ umanità grazie a un uso più oculato.

Tutto qui? No, questa di cui ho parlato è la “crisi da manuale”, la “crisi da bolla”, la “crisi da ciclo”, la “crisi da novità”. La solita crisi. Stavolta, forse, c’ è di più.

Per descrivere questo “di più” non saprei da dove partire. Forse l’ unica è partire da un dato: è dagli anni settanta che i paesi sviluppati non conoscono una vera crescita economica.

Sorpresi?

E adesso non precipitatevi sulle serie storiche dei vari pil OCSE. Sebbene anch’ esse segnalino un certo rallentamento, restano comunque ingannevoli. I motivi sono tecnici e per non appesantire li tralascio. Delusi? Fidatevi, sono motivi solidi, dimenticate i sofismi sulle misurazioni alternative al PIL, anche se mi rendo conto che amputare qui un discorso sostanziale ne sacrifica l’ eleganza.

Per impressionare meglio lasciatemi ancora ripetere che l’ economia Occidentale è praticamente ferma da quarant’ anni. Persino i “dinamici USA” non si sono mossi poi granché. Il nostro benessere sostanziale non cresce. Lo ripeto perché secondo me molti non l’ hanno ancora ben realizzato.

E’ un’ affermazione un po’ forte, nemmeno del tutto vera se presa alla lettera (diciamo che la crescita economica è rallentata parecchio rispetto a prima) ma mi sembra che colga un punto sostanziale.

Un sintomo dell’ imprevisto stop è il ruolo assunto dalla finanza: la finanza ha lentamente guadagnato il centro della scena; ma stressare la finanza è un modo per non perdere velocità anche quando l’ auto ormai viaggia a tre cilindri. Aumentando il ritmo delle frustate anche il ronzino viaggia alla pari con il purosangue. Solo che prima si spella e poi collassa. La pratica di operare a debito si è molto diffusa sia presso i privati che presso gli Stati. Notare che in sé la cosa non sarebbe deprecabile; se avete un buon lavoro e guadagnate bene è perfettamente logico indebitarsi anche parecchio per comprare una casa all’ altezza del vostro status. Non è sintomo di “avidità” agire in questo modo! Ebbene, cio’ che ho chiamato “stipendio” a livello globale chiamatelo pure “crescita”: sapendo che si crescerà ai sostenuti ritmi del passato è perfettamente logico indebitarsi.

Ma se il “mondo sviluppato”, chi più chi meno, non cresce praticamente più dagli anni ‘70, la logica dell’ indebitamento è destinata a incartarsi prima o poi. E’ come se vi avessero licenziato e voi continuate a caricarvi mutui sul groppone.

A quanto pare ci siamo.

Ecco allora che una normale crisi da bolla come quella dei subprime viene a coincidere con il fatto che il mondo comincia a subodorare una crisi epocale da eccesso di fiducia. L’ errata valutazione che ho descritto si chiama status quo bias: prendevamo decisioni pensando che le cose continuassero ad andare come prima. Per “prima” intendo il periodo che va dalla rivoluzione industriale a oggi, un lasso di tempo in grado di giustificare l’ abbaglio.

I metodi di misurazione del PIL non hanno certo favorito il disincanto, ma qui torniamo alla pedante parte tecnica, che non si addice certo alla retorica dello sfogo, il genere che ho scelto e che qui mi voglio concedere. Quindi… transeat.

Se questo è vero, alcune osservazioni s’ impongono. Io mi limito a tre, proprio perché anche i lunghi elenchi sono pedanti.

Innanzitutto considero illusorio cercare di capire la madre di tutte le crisi focalizzandosi sul “caso Grecia” o sul “caso Italia”. Certo, alcuni sono messi peggio di altri e per loro il countdown è più vicino, i secondi sono nelle condizioni di salvare temporaneamente i primi (magari con gli eurobond) ma la dinamica di fondo riguarda tutti perché più o meno tutti si sono incamminati su quel sentiero.

Secondo, non possiamo definire la crisi in corso semplicemente come una “crisi da debito” ma piuttosto come una “crisi di crescita”. I guai non derivano tanto dai mutui stipulati, quanto dal fatto che ci hanno licenziato. Ci hanno licenziato e nemmeno ce ne siamo accorti! Ma il bello (o il brutto) è che anche il nostro creditore è sembrato all’ oscuro del particolare continuando a farci credito.

Terzo, cio’ che ci minaccia non è qualche perverso meccanismo della Finanza o qualche oscuro gnomo della Speculazione, quanto il pervasivo status quo bias che ci induce a non vedere che siamo più poveri di quanto crediamo, che ci induce all’ indebitamento perché ci fa credere che possiamo permettercelo, che ci fa credere che torneremo a crescere quando di fatto siamo fermi da quarant’ anni.

Adesso sarebbe il momento delle “soluzioni”, e capite bene il mio imbarazzo.

Ricorrendo all’ espansione monetaria, bene o male abbiamo imparato a fronteggiare le “crisi da bolla”, tanto è vero che la Grande Depressione rimane negli annali della storia mentre le crisi di fine anni ottanta, di entità analoga, non ce le ricordiamo neanche. Ma “la madre di tutte le crisi”, quella generata da “illusione di ricchezza”, come diavolo si affronta?

Boh.

O ci si rassegna alla stagnazione ridimensionando il nostro tenore di vita o ci si cerca di capire quali sono le cause della prolungata stagnazione.

Quando si parla troppo di economia è sempre meglio ricordare un concetto fondamentale: la ricchezza, quella vera, arriva con l’ innovazione. Quando un tale scopre un seme che, a parità di cure richieste, dà una spiga con venti chicchi di grano anziché dieci, la ricchezza raddoppia.

Ma bisogna scoprirlo.

La Rivoluzione Industriale ci ha regalato una raffica di innovazioni che ci ha lasciato senza fiato per secoli. Le abbiamo sfruttate a dovere e ora stiamo raschiando il barile. Come mantenere quel ritmo?

A voi la risposta, io mi limito ad alcune suggestioni.

Forse internet cesserà di essere solo un ansiolitico e inciderà realmente fugando le delusioni che per ora sta dando, almeno sul piano del potenziale sviluppo economico che avrebbe dovuto supportare.

Forse è un fatto culturale, forse dobbiamo dare maggiore dignità sociale alla figura dell’ innovatore. D’ altronde la rivoluzione industriale si produsse anche perché l’ imprenditore borghese era un individuo dal prestigio sociale notevole.

Forse, molto più prosaicamente, dobbiamo trovare un sistema per pagarli un po’ meglio, questi “innovatori”. Il sistema dei brevetti non funziona, d’ accordo, ma chiunque faccia quattro conti vede che un vero innovatore non riceve che una minima frazione della ricchezza che contribuisce a produrre.

Forse l’ innovazione che rompe sul serio è un evento casuale nella storia e dobbiamo solo sperare prendendo tempo, in questo caso tornerebbero utili euro bond (e anche mondial bond) che dilazionino la resa dei conti spostando in là la frontiera.

Fin qui mi sembra di aver parlato libero da ogni condizionamento ideologico, concedete infine a un fazioso liberista di accennare al ruolo dello Stato nelle economie moderne. Sento già il monito di chi ci ricorda che viviamo nell’ era del “turbocapitalismo”. Faccio solo notare che il timone della barca italiana è affidato a un tale che ha scritto “La paura e la speranza”. Ma lo avete letto? E a chi si ritiene immerso nella centrifuga del “turbocapitalismo” chiedo se, secondo lui, il ruolo fattivo dello Stato, al netto della retorica, è aumentato o diminuito nell’ ultimo mezzo secolo. I saldi del suo bilancio, che misurano la ricchezza intermediata nel paese, sono saliti o sono scesi? Magari questo sempre più ingombrante protagonista non è del tutto innocente. Magari facendo quattro conti scopriamo a sorpresa che Interferenza Statale e Grande Rallentamento sono vecchi amici e si sentono regolarmente al telefono. E chissà che prima o poi non saltino fuori imbarazzanti intercettazioni.

E adesso, in uno scrupolo di coscienza finale elenco alcuni dei nomi più evidenti da cui mi sono lasciato influenzare nel corso di questa riflessione.

Scott Sumner

Tyler Cowen

Michele Boldrin

Robin Hanson

Oscar Giannino

Eric Falkenstein

giovedì 8 settembre 2011

La petroliera di Baricco

Alessandro Baricco – I barbari -

Finalmente ho letto il libro che altri avevano a suo tempo menzionato come pertinente ad alcune nostre discussioni.

Confesso che certi accorgimenti stilistici dello scrittore-piacione sono per me difficili da digerire: ho in mente le mossette sexy da “scuola di scrittura”, un pervasivo tono “for dummies”, quasi scrivesse proprio per quei barbari le cui invasioni in ogni campo culturale vengono segnalate; ma soprattutto il vezzo di non enunciare mai chiaramente la propria tesi; parlo della perniciosa tentazione, contraria al primo comandamento (*) del buon saggista, di trasformare il proprio scritto in una caccia tesoro per lettori volenterosi.

[ (*) ricordo di passaggio il primo comandamento: se hai in testa una cosa, dilla direttamente senza tanto girarci intorno]

Purtroppo non mancano debolezze di sostanza. Parto da una lacuna generale: Baricco elude il problema. O meglio, non lo formula in termini “interessanti”.

Per capirsi sul punto bisognerebbe prima richiamare i termini della questione: nella società contemporanea il mondo della cultura sembra preda dei “barbari”, ovvero un’ orda senza scrupoli né adeguata preparazione che “consuma” tutto con la foga delle locuste ma limitandosi a brucare in “superficie” senza darsi la pena di “ruminare” mai alcunché.

Il “barbaro” è un “uomo orizzontale” che si limita a “surfare” sull’ oggetto del suo momentaneo interesse senza mostrare alcun interesse per “l’ anima delle cose”. In lui manca il culto della fatica e della preparazione: prende, strappa alla sua preda un godimento effimero e passa ad altro.

In un mondo del genere il “riferimento culturale” si fa ipertrofico, si moltiplica ma rimane a livello meramente epidermico: scivola addosso senza lasciare nulla. Inutile aggiungere che ogni forma di approfondimento latita.

Il “barbaro” lascia la sua impronta digitale ovunque visto che la sua velocità gli consente di stare ovunque, smantella la sacralità della cultura, svelle i significati totemici divenendo il nemico giurato di ogni spirito romantico.

Ebbene, il problema sostanziale consiste nel chiedersi se le cose stanno veramente così, se possiamo prendere sul serio questa descrizione della contemporaneità all’ apparenza verosimile.

A me, lo dico subito, non pare proprio.

Certo, oggi i contatti che ciascuno di noi intrattiene con la “cultura” sono cresciuti in modo esponenziale. Abbiamo “più cose” tra le mani. Abbiamo “più di tutto”. E di sicuro passiamo molto più tempo di prima in superficie.

Ma questo non significa ancora nulla.

Mi spiego con un esempio.

Le petro-trivellatrici che indagano sui giacimenti petroliferi sono navi dedite allo scavo di sonda. Ieri scavavano molto più di oggi – erano costantemente “in profondità” - ma gran parte di quegli scavi erano inani tentativi che finivano in un nulla di fatto. Oggi possiedono una strumentazione più sofisticata che le rende quasi infallibili. Passano molto più tempo in superfice perlustrando il fondo marino e le poche volte che affondano le loro trivelle intraprendono uno scavo lo fanno a colpo sicuro.

Baricco sembra snobbare i quantitativi di petrolio estratto, si limita a constatare che “si passa più tempo in superficie”, e una volta concluso che mai come ora la superficie è il nostro habitat, trae conclusioni indebite circa le quantità di petrolio portato alla luce.

Chi non coglie che qui c’ è qualcosa che mina l’ analisi?

Dicevamo prima che oggi abbiamo “più di tutto”; ebbene, dovremmo aggiungere che abbiamo anche più “petrolio”. Mutilo di questa considerazione il problema affrontato da Baricco resta irrimediabilmente privo d’ interesse.

Peccato perché ci sono sprazzi di lucidità in cui Baricco si avvicina al punto:

… oggi uno scrittore di qualità come Tabucchi vende più di quanto potesse fare, oggettivamente, un Fenoglio ai suoi tempi… quello che ci induce a pensare il contrario è la prospettiva e il gioco delle proporzioni…

A parte il parallelo Tabucchi\Fenoglio che mi disturba anche solo come esempio, a livello concettuale ci siamo: oggi circola molta più qualità, occorrono antenne idonee all’ individuazione, una dotazione fino a ieri superflua.

Ma una volta afferrato il punto Baricco se lo fa sfuggire e l’ osservazione, anziché imbastire il ragionamento viene bellamente lasciata cadere nel vuoto.

Altre lacune sono più specifiche. Penso al passo falso costituito dall’ analisi proposta intorno all’ attacco che i “barbari” hanno portato al pianeta calcio.

L’ analisi è incongrua su un punto nevralgico: dopo aver affermato che il “barbaro” procede a spettacolarizzare tutto cio’ che tocca, si aggiunge che “Baggio in panchina” costituisce il marchio di fabbrica del saccheggio barbarico.

Ma come? Baggio, il numero 10, la fonte di ogni spettacolo, escluso proprio da chi esalta i fuochi d’ artificio?

Baricco si accorge del vicolo cieco in cui si è cacciato e dedica un capitolo intero (Calcio 2) al tentativo di uscirne salvando capra e cavoli. Ma l’ unica uscita possibile è una poco onorevole retromarcia a centottanta gradi, e l’ autore non puo’ permettersela.

Art & Cartoons

Art & Cartoon

Baricco resta comunque uno scrittore più che un sociologo, a lui non chiediamo analisi certosine e il nostro perdono su alcuni passaggi a vuoto è garantito quanto pronto. Chiediamo a lui invece una sequela di “espressioni felici”, un’ immaginazione sgargiante, una bellezza diffusa in grado di allietarci ad ogni pagina. Chiediamo uno stile. Spesso l’ autore, devo dirlo, è all’ altezza del compito. Di seguito riporto alla rinfusa alcuni passaggi degni di menzione. Mi scuserete se cito a memoria personalizzando nel tentativo di migliorare l’ originale.

Parlando di Walter Benjamin:

… ci dava un’ immagine del mondo, fotografava il divenire, anche per questo le sue foto vennero un po’ mosse quindi inutilizzabili da quelle istituzioni che danno uno stipendio…

Facendo una petizione di principio:

… sarà questo un libro a cui non farà schifo niente…

Citando Glenn Gould sulla musica rock

… “non riesco a capire le cose troppo semplici”…”

Sul vino californiano:

… al primo sorso c’ è già tutto… senza tanti tannini fastidiosi o acidità difficili da domare…

Sulla storia della musica:

… da Bach a Beethoven si puo’ dire che lavorassero indefessamente per una furba semplificazione del mondo ricevuto in eredità… contrassero i suoni, le armonie e le forme… accelerando una spettacolarità che nessuno si era mai sognato…

Sulla domenica sera del calciofilo anni settanta:

… la domenica sera… come mesto rituale c’ era la partita registrata (si noti il singolare)… il risultato era noto ma sottaciuto, le riprese notarili… quasi “sovietiche”… il commento impersonale, di tipo medico… il telecronista faceva finta di non sapere… poi, all’ improvviso, un attimo prima del telegiornale, prima di passare la linea… sapeva tutto come per incanto e ci aggiornava frettolosamente sugli eventi congedandosi… era assurdo, mortificante… tentavamo di sintonizzarci su Capodistria o sulla Svizzera per un naturale bisogno d’ aria… come si tentava di valicare il muro di Berlino…

Sul ruolo tradizionale del terzino (giova alla comprensione l’ aver giocato superando il trauma del passaggio dal cortile al campo regolamentare):

… io per anni ho visto la mia squadra far gol in zone del campo lontane e vagamente misteriose… buttarla in fallo laterale andava benissimo… ti applaudivano… la sagoma lenta e paterna del libero… la marcatura a uomo… con tutti i suoi falletti intimidatori… gli scatti a vuoto…

Sui numeri 10 in panca:

… il genio è lento… le tv digitali non hanno il tempo di aspettarlo…

Musica e letteratura nel passato:

… c’ era la “musica classica” prima che inventassero l’ idea di musica classica?… di certo a corte il musicista non contava più del giardiniere… oggi ascoltiamo Bach, Haydn e Mozart alla luce deilla lezione romantica… attribuendo loro, a volte, una spiritualità che forse non si sognarono mai di avere… fu con Beethoven che nacque l’ idea di musica classica come oggi la conosciamo… nel settecento chi leggeva libri erano essenzialmente coloro che li scrivevano…

Sull’ avvento del romanzo ottocentesco:

… il genere del romanzo era da molti concepito come una minaccia sociale, come un oggetto sostanzialmente nocivo…

Nel commentare il ritratto di M. Bertin, ovvero il prototipo della borghesia affaristica francese ottocentesca:

… lo sguardo è quello di chi ascolta attentamente e ha già in mente cosa obiettare… sembra un bolso riccone ed è invece un lottatore destinato a vincere… nel suo mondo ha un ruolo primario la fatica… il piacere delle arti prevede fatica, la profondità della riflessione prevede fatica… la fatica è lavoro e il lavoro è la garanzia della sua affermazione sul vecchio mondo e sull’ aristocrazia…

Sul mutato rapporto con le arti:

… se davvero intendo dedicare tutto il tempo necessario a scendere fino al cuore della Nona è difficile mi resti del tempo per qualsiasi altra cosa… e, per quanto la Nona sia un giacimento immenso di senso, da sola non ne produce a sufficienza alla sopravvivenza dell’ individuo… che te ne fai di aver capito la Nona se poi non vai al cinema o non sai neanche cosa siano i videogame?… è il paradosso che denunciano gli occhi smarriti dei nostri ragazzi a scuola…

I tre argomenti

Craig contro Dawkins.

Cosa cerchi in un libro?

Stile!

C’ è altro?

Peeps Dioramas

altre miniature stilizzatee altre ancora…

Per me era scontato, parlo dei libri con velleità artistiche (romanzi, racconti, poesia…). Da profano non riesco davvero a capire le alternative a questa risposta.

L’ autore di un’ opera non “la possiede” proprio perché l’ opera consiste nello stile e chi possiede uno stile non è detto che ne possieda anche un’ interpretazione soddisfacente. A volte manca persino di una coscienza adeguata in merito.

Cosa c’ è oltre allo stile?

Chi ha stile puo’ dire qualsiasi cosa e il giudizio sulla sua opera sarà sempre: bello! Persino di un libello antisemita si puo’ dire “bello!”.

Certo, anche l’ originalità e la genealogia conta: se X ha lo stesso stile di Y ma lo precede nel tempo, la cosa non è del tutto irrilevante. 

Sinceramente non riesco a capire cosa possa esistere oltre allo stile.

Ecco, visto che è sempre meglio leggere un saggio con lo spirito di chi ricerca delle risposte a domande già chiare, quando leggo libri di critica letteraria lo faccio con in testa questo assillo: cosa c’ è oltre allo stile?

Non crediate infatti che la questione non sia dibattuta.

Gabriele Pedullà:

Scrittori, bisogna avere stile!

In un amore felice (Adelphi), l'ultimo libro di Guido Ceronetti, esibisce un sottotitolo apparentemente bislacco: «Romanzo in lingua italiana». La replica si offre spontanea già tra gli scaffali della libreria: e in quale altra lingua dovrebbe mai esprimersi un narratore cresciuto a sud delle Alpi? Ma ovviamente si tratta di una provocazione. Ceronetti ci sta dicendo che lui, a differenza di tanti connazionali, continua a scrivere nell'idioma del suo Paese e non in una simil-lingua, senza stile e senza musica, che ricorda piuttosto le cattive traduzioni dall'inglese.
Beninteso, la battaglia in difesa di una prosa sontuosa, in cui si serbi memoria della tradizione letteraria e ci si diverta a giocare con le parole per scovare nuovi significati, non ha nulla di particolarmente originale. Il Novecento, per esempio, ha sperimentato in tutte le sue asprezze la lotta tra quelli che Tomasi di Lampedusa chiamava gli «scrittori grassi» e gli «scrittori magri». Si tifava per gli uni o per gli altri, con la medesima passione con cui si sosteneva un partito politico. Eppure – gaddiani o hemingwayani, rondisti o espressivisti, asiani o atticisti – tutti, ma proprio tutti, sapevano che di opzioni stilistiche sempre e comunque si trattava. Inutile scappare. Lo stile poteva farsi invisibile, promettere una presunta oggettività come sinonimo di visione diafana e assenza di pregiudizi: ma lo faceva, appunto, in quanto stile. Se c'è anzi un'idea che il Ventesimo secolo ha combattuto con speciale veemenza, questa è stata proprio la convinzione che lo stile fosse un abito con cui di volta in volta rivestire un corpo già formato. Niente più forma & contenuto, insomma: se non come coppia di fratelli siamesi, inoperabili perché provvisti di un solo cuore e di un unico apparato respiratorio.
Come ci sono i sostenitori dello «stato minimo», così sono esistiti sempre i fautori dello «stile minimo». Ma nelle loro dichiarazioni di poetica «lo stile non mi interessa» non voleva dire altro che «non ho bisogno di fuochi d'artificio, il vero stilista lavora nel profondo, proprio dove lo si vede meno». Il contesto nel quale si colloca la battuta polemica di Ceronetti appare invece, per la prima volta, mutato. Da qualche tempo, infatti, l'affermazione che lo stile non ha alcuna importanza per giudicare del valore di un romanzo ricorre sempre più spesso nelle recensioni di critici autorevoli. Lo afferma la celebre anglista a proposito dell'ultimo bestseller su commissione e lo ripete il giovane intellettuale impegnato per parlare del gothic novel di un coetaneo. Ma si tratta, a ben vedere, di un atteggiamento più generale, quasi una vox populi (che, come le promette il proverbio, aspira a tramutarsi in una vox Dei): l'impressione che, nella ricezione di un libro, lo stile stia diventando semplicemente irrilevante.
Il tratto più vistoso di questa tendenza è che, mentre nel Novecento i narratori anti-stilisti si riconoscevano per lo stile minimo, i loro eredi esibiscono piuttosto un espressionismo forzato e volontaristico. Metafore azzardate, similitudini sgradevoli pensate per catturare al volo l'attenzione di chi legge, continue ridondanze al limite del pleonasma… Lo si nota particolarmente con i romanzieri di genere (gli anti-stilisti per eccellenza, se badiamo alle loro dichiarazioni di poetica), i quali nel Novecento si attenevano a una prosa quanto più semplice possibile, per non stancare il lettore, mentre oggi non fanno che sovraccaricare la pagina di fuochi d'artificio. Con l'obiettivo, è chiaro, di inseguire un pubblico distratto e un poco frettoloso, forse nella speranza di tenere testa alla iperstimolazione dello spettatore che da trent'anni caratterizza il cinema contemporaneo.
Qualcuno potrà persino rallegrarsi di tale mutamento, che è anche un ritorno al passato. Prima del culto romantico del genio e dell'eccesso, per secoli lo stile è stato innanzitutto sinonimo di controllo, e i grandi teorici della retorica hanno sempre temperato la vecchia massima secondo cui "lo stile è l'uomo" con la constatazione che ogni scrittore provetto deve anzitutto saper dominare i propri strumenti e adattare il tono alla situazione. Una pratica che, appunto, richiede per prima cosa quella autodisciplina di cui proprio gli anti-stilisti di oggi sembrano difettare.
Questo vale per gli scrittori. Nei critici l'inconsueta disponibilità a disfarsi della nozione di stile ha invece una diversa origine. Qui si direbbe che l'estetica letteraria stia semplicemente entrando nell'orbita delle arti visive. Il pregiudizio antistilistico sembra nascere infatti dalla tendenza a interpretare la pubblicazione di un'opera letteraria con le stesse categorie con cui giudicheremmo una performance, vale a dire un puro gesto estetico, senza produzione (se non, al limite, nella forma surrettizia del video o delle fotografie che la documentano): un gesto che si esaurisce in se stesso e che punta tutt'al più a suscitare scandalo nel circuito della comunicazione. Ma che per questo, a condizione che qualcuno reagisca, può prescindere completamente dallo stile.
Consapevolmente o inconsapevolmente, la ridefinizione del campo artistico messa in atto negli anni Sessanta è giunta oggi a influenzare anche la letteratura. Se un romanzo e un poema sono solo un gesto, è inutile interrogarsi troppo sul loro stile: il loro significato sarà tutto nel progetto che li sorregge, o al massimo nella loro sintomaticità sociale, secondo la formula ben nota per cui a tanto maggiore scandalo (o, nel caso della letteratura, a tante più copie vendute) deve corrispondere necessariamente tanto maggior valore - link

mercoledì 7 settembre 2011

Perché ragioniamo

The answer, according to Mercier and Sperber, is that reasoning was not designed to pursue the truth. Reasoning was designed by evolution to help us win arguments. That's why they call it The Argumentative Theory of Reasoning. So, as they put it, and it's here on your handout, "The evidence reviewed here shows not only that reasoning falls quite short of reliably delivering rational beliefs and rational decisions. It may even be, in a variety of cases, detrimental to rationality. Reasoning can lead to poor outcomes, not because humans are bad at it, but because they systematically strive for arguments that justify their beliefs or their actions. This explains the confirmation bias, motivated reasoning, and reason-based choice, among other things."

http://econlog.econlib.org/archives/2010/08/not_robin_hanso.html

Forza di volontà

Chiedete a vostro figlio se preferisce un biscotto ora o due biscotti tra un quarto d’ ora, la risposta che vi dà potrebbe illuminarvi sul suo futuro. Nulla più del self-control predice il successo dell’ individuo. Non solo, è anche un elemento della nostra personalità che possiamo almeno in parte “allenare”.

Larry Moss 

 Steven Pinker commenta l’ ultima fatica di Roy F. Baumeister and John Tierney:

Ever since Adam and Eve ate the apple, Ulysses had himself tied to the mast, the grasshopper sang while the ant stored food and St. Augustine prayed “Lord make me chaste — but not yet,” individuals have struggled with self-control. In today’s world this virtue is all the more vital, because now that we have largely tamed the scourges of nature, most of our troubles are self-inflicted. We eat, drink, smoke and gamble too much, max out our credit cards, fall into dangerous liaisons and become addicted to heroin, cocaine and e-mail.

Enlarge This Image291 pp. The Penguin Press. $27.95.Nonetheless, the very idea of self-­control has acquired a musty Victorian odor. The Google Books Ngram Viewer shows that the phrase rose in popularity through the 19th century but began to free fall around 1920 and cratered in the 1960s, the era of doing your own thing, letting it all hang out and taking a walk on the wild side. Your problem was no longer that you were profligate or dissolute, but that you were uptight, repressed, neurotic, obsessive-compulsive or fixated at the anal stage of psychosexual development.

Then a remarkable finding came to light. In experiments beginning in the late 1960s, the psychologist Walter Mischel tormented preschoolers with the agonizing choice of one marshmallow now or two marshmallows 15 minutes from now. When he followed up decades later, he found that the 4-year-olds who waited for two marshmallows turned into adults who were better adjusted, were less likely to abuse drugs, had higher self-esteem, had better relationships, were better at handling stress, obtained higher degrees and earned more money.

What is this mysterious thing called self-control? When we fight an urge, it feels like a strenuous effort, as if there were a homunculus in the head that physically impinged on a persistent antagonist. We speak of exerting will power, of forcing ourselves to go to work, of restraining ourselves and of controlling our temper, as if it were an unruly dog. In recent years the psychologist Roy F. Baumeister has shown that the force metaphor has a kernel of neurobiological reality. In “Willpower,” he has teamed up with the irreverent New York Times science columnist John Tierney to explain this ingenious research and show how it can enhance our lives.

In experiments first reported in 1998, Baumeister and his collaborators discovered that the will, like a muscle, can be fatigued. Immediately after students engage in a task that requires them to control their impulses — resisting cookies while hungry, tracking a boring display while ignoring a comedy video, writing down their thoughts without thinking about a polar bear or suppressing their emotions while watching the scene in"Terms of Endearment" in which a dying Debra Winger says goodbye to her children — they show lapses in a subsequent task that also requires an exercise of willpower, like solving difficult puzzles, squeezing a handgrip, stifling sexual or violent thoughts and keeping their payment for participating in the study rather than immediately blowing it on Doritos. Baumeister tagged the effect “ego depletion,” using Freud’s sense of “ego” as the mental entity that controls the passions.

martedì 6 settembre 2011

Confessioni davanti al dado

Molti non vedono come il Caso possa convivere con il Progetto; secondo questa visione il secondo dovrebbe necessariamente dileguarsi non appena il primo fa capolino. Ma le cose non stanno così, il Caso, infatti, è un’ arma senza la quale molti Progetti sarebbero destinati a fallire. Anche il Dio creatore vi è ricorso per progettare “il migliore dei mondi possibili”
Ma lasciamo perdere il Dio creatore, un argomento dall’ impatto talmente emotivo da instupidire molte intelligenze. Gli esempi migliori per dar conto di questa faccenda sono più minuti e anche meno vaghi.
deviantART user Hallincogenius  piedi in prestito
Avete presente quella massa di interviste destinata successivamente a trasformarsi in statistiche? Ebbene, molto spesso le ricerche condotte su questa base sono inattendibili, specie quando si chiede conto di verità inconfessabili o quantomeno imbarazzanti. Chi non vede i problemi che su questo campo incontra il ricercatore? Eppure, grazie al Caso, nella fattispecie un dado, è possibile progettare le domande in modo da rendere molto più significative le risposte. L’ articolo che suegue mi ha colpito.
 
How to use dice to stop people from lying on surveys
Whenever we turn on the news, we're treated to statistics about things there seem to be no way of verifying. How many people has the average person slept with? How many crimes has the average person committed? The numbers quoted are often the result of surveys. In a survey, there's nothing to keep people honest, especially about things like crimes. Scientists have found that dice can shake the truth out of people.
It's been shown that people lie on surveys. A survey of the number of sexual partners people had — in which participants believed they were hooked up to a lie detector — dramatically shrunk the gap between the numbers of partners usually reported by men and women. One way to keep people from telling a lie is to make them believe that they can't tell anything other than the truth.
Another way to get at the truth is to make people that they sometimes have to tell a lie. A toss of the dice allows people to confess things on surveys that they otherwise wouldn't. When South Africa wanted to conduct a survey about whether or not farmers had killed leopards (an illegal practice), the surveyors brought along a die.
If the farmer tossed the die and got a one, they had to respond "yes" to the surveyor's question. If they got a six, they had to say "no." The rest of the time, they were asked to answer honestly. The die was hidden from the person who was conducting the survey, so they never knew what number the farmer was responding to.
Suddenly, the number of "yes" responses to the leopard question started coming up by more than just one-sixth. This technique — called the randomized response technique — provided a blind that people could use to respond honestly to difficult questions. Depressingly, it was estimated that almost twenty percent of farmers had killed leopards within the last year. The accurate numbers, though, can help the government form more helpful responses, like compensation for livestock lost to leopards, and protect more leopards in the future.






Un altro esempio lo si trae dalla stretta attualità: combattere l' evasione grazie alle lotterie:
Questa estate di passione per i nostri conti pubblici e di affannosa ricerca di misure di risanamento del debito ha riportato al centro dell’attenzione il tema della lotta all’evasione fiscale. È necessario spezzare il circolo vizioso, in cui due elementi si sostengono a vicenda: più è alta l’evasione, più devo fare ricorso a misure dure e invasive e più incrino il rapporto tra fisco e contribuenti, facendo venir meno ogni possibilità di cooperazione tra gli attori del sistema. In effetti, la cosa più fastidiosa per un lavoratore autonomo è essere considerato automaticamente un evasore. E probabilmente non è neanche utile per raccogliere più tasse. Secondo gli economisti, il modo migliore per incentivare il buon comportamento fiscale non sia tanto il controllo e la punizione quanto piuttosto la “compartecipazione ai profitti”… Il programma prevede un ulteriore incentivo che si affianca alla restituzione di parte dell’Iva incassata: la distribuzione di premi sorteggiati mensilmente tra i partecipanti… leggi tutto

Donne sottopagate che non guadagnano meno

Discriminazione o scelte differenti?

lunedì 5 settembre 2011

Tutti i guai di chi sbaglia metafora

Curioso, la crisi sui mercati ha mandato in tilt innanzitutto i critici del mercato.

Dapprima si sono animati subodorando il momento propizio per sferrare un attacco a colpo sicuro ma la dolorosa scoperta che le armi in mano erano obsolete o  spuntate li ha resi pigri, riluttanti all’ approfondimento, rabbiosi e inclini alla rissa verbale.

E non parlo solo della vuotaggine caciarona dei no-global-spacca-vetrine e del loro allucinato “altro mondo possibile”, ho in mente anche la semplicioneria di compassati personaggi sia di destra che di sinistra da sempre nostalgici del dirigismo dei bei tempi e a disagio nel muoversi e nel comprendere una società liberale retta da fili invisibili, una società che non capiscono mai bene come faccia a tenersi in piedi  in assenza di burattinai.

Di seguito, a titolo d’ esempio preclaro, riporto una zoppicante analisi zeppa di vieti slogan del solitamente lucido Giorgio Israel. Parlo dunque di persona stimabile. E’ un formulario compilato diligentemente e vale la pena scorrerlo, un mesto repertorio di mezze verità strumentali alla polemica virulenta, un catalogo di stereotipi forse in grado mezzo secolo fa di innescare fruttuosi dibattiti ma che oggi appare più che altro come la stanca riproposizione di una critica pigra e dai contenuti vaghi, l’ ideale cioè per posizionarsi comodamente tappandosi orecchie e cervello.

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D’ altro canto qui i malintesi si susseguono con ritmo incalzante andando a comporre un canovaccio esemplare; tanti birilli messi così ordinatamente in fila invitano allo strike e la sfida di una replica è appetitosa anche per il suo valore didattico di esercitazione.

La crisi del 2008 suscitò pungenti critiche alla capacità di previsione della teoria economica, che oggi si ripropongono.

Né quello che accadrà tra un mese, né quello che accadrà domani è alla portata delle capacità predittive della teoria economica

. Eppure la politica è sempre più dominata dalla tecnocrazia, che si tratti di agenzie di rating o di “esperti” che, pur incapaci di previsione, dispensano ricette per superare la crisi.

Non occorre essere marxista né keynesiano per ammettere che la teoria economica del cosiddetto “mainstream” è un galeone affondato, perché sono in crisi i suoi capisaldi teorici. Il primo è che il mercato lasciato a sé stesso va spontaneamente in equilibrio. Lo si presenta come un asserto “normativo”: lasciate libero il mercato e tutto va a posto. Peccato che non esista un solo risultato teorico che lo convalidi: al contrario, ogni risultato va in senso opposto. Quanto alle pratiche concrete, basti pensare al fallimento dei modelli matematici che da un trentennio sono stati costruiti sulla convinzione che i mercati finanziari siano controllabili e sul secondo capisaldo del “mainstream”: è “razionale” il soggetto economico che conosce perfettamente il funzionamento del sistema e agisce in modo assolutamente egoista, massimizzando il proprio profitto. La versione moderna di questa concezione è la teoria delle “aspettative razionali”, ovvero delle attese dei soggetti economici di fronte a eventi che influiscono sulle loro decisioni. Se i soggetti si comportano “razionalmente” l’economia s’indirizzerà verso gli eventi che essi “razionalmente” si aspettano. In definitiva, da un’idea di razionalità quanto mai discutibile si ricava il precetto che farebbe evolvere l’economia in modo determinato e prevedibile: comportatevi “razionalmente” e la realtà sarà “razionale”. Negli anni settanta gli economisti matematici Fisher Black e Myron Scholes e l’ingegnere Robert Merton formularono un modello matematico che traduceva tale visione ispirandosi ad analogie con la meccanica statistica. Esso mirava a descrivere l’andamento nel tempo di prodotti finanziari (come un portafoglio di azioni o obbligazioni) e di opzioni definite su di essi.  Le ipotesi irrealistiche del modello – per esempio, che le attività finanziarie si spalmano nel tempo per frazioni arbitrariamente piccole di prodotti finanziari – sono state accettate come prescrizioni adeguate a prevedere e controllare il mercato finanziario. Si è fatto credere che bastasse implementare nei computer il modello di Black-Scholes-Merton per realizzare il sogno di un’economia “razionale” e mezzo mondo finanziario ha operato in tal modo.

Ricordate il crack della finanziaria Long Term Capital Management nel 1998? Era l’occasione per concludere che il mondo è fatto da uomini che non hanno conoscenze perfette e non si comportano come robot, che non esiste una legge meccanica di equilibrazione del mercato, che il primato nel governo della società e dell’economia è della politica e non della tecnocrazia e della sua pseudoscienza. Nessuno se n’è dato per inteso.

Eppure qualcuno l’aveva detto, proprio un protagonista di oggi, che sul declassamento dell’economia statunitense da parte dei “tecnici” della Standard & Poors avrebbe fatto una fortuna. Nel corso di una audizione al Congresso USA (15 settembre 1998), il finanziere George Soros dichiarò quanto segue:

«Il riorientamento dovrà iniziare riconoscendo che i mercati finanziari sono intrinsecamente instabili. Il sistema capitalista globale è fondato sulla convinzione che i mercati finanziari lasciati a sé stessi, con i loro strumenti, tendono verso l’equilibrio. Questa convinzione è falsa. I mercati finanziari sono portati verso gli eccessi e se una successione di rialzi e di ribassi si verifica al di là di un certo limite, non si tornerà mai al punto di partenza. Invece di agire come un pendolo, i mercati finanziari hanno agito, soprattutto di recente, come una palla di demolizione, colpendo un’economia dopo l’altra. Si parla molto dell’eventualità di imporre una disciplina di mercato, ma imporre la disciplina del mercato significa imporre l’instabilità e quanta instabilità può essere tollerata dalla società? La disciplina del mercato deve essere integrata con un’altra disciplina: mantenere la stabilità dei mercati deve essere il fine delle politiche pubbliche».

Sono parole che fotografano in modo impressionante gli eventi attuali e dicono che in tanti anni non si è appreso nulla. Si paventa il ritorno a ricette socialiste o keynesiane. Ma un equivoco – evidente nel dibattito seguito all’articolo di Marcello Veneziani – sta nel fatto che essere liberali non significa – al contrario! – credere che non esista un ruolo della soggettività, o che essa debba essere ridotta alla parodia della razionalità come infinita preveggenza e illimitato egoismo. Tantomeno è intrinseco al liberalismo concepire l’economia come un sistema fisico governato da leggi cieche che garantirebbero l’equilibrio. Questo gretto scientismo è estraneo a una concezione liberale in cui la centralità del soggetto fonda il primato della politica. Al contrario, scientismo e tecnocrazia uccidono il ruolo della politica e sono consoni a visioni totalitarie.

In questi giorni si levano voci da ogni parte circa i rischi che corre l’economia reale schiacciata da un’economia finanziaria che vale (oltretutto virtualmente) molto di più e detta legge alla politica economica pretendendo di rappresentare il giudizio “oggettivo” del mercato. Si parla di rischio per una democrazia e una politica sempre più deboli di fronte a tecnocrazie sempre più prepotenti e prive di legittimazione. È il momento di capire che la posta in gioco è la fine del primato delle ideologie tecnocratiche, a tutti i livelli, soprattutto a quello culturale. La politica deve avvalersi delle (autentiche) competenze, non subordinarsi passivamente ad esse. Altrimenti, la palla di demolizione continuerà nella sua opera implacabile e autodistruttiva, tra una predica e l’altra degli “esperti”. Il compito primario della politica deve essere quello di difendere a tutti i costi l’economia reale e puntare sulle forze produttive e non parassitarie, perché una società che avvilisce i soggetti effettivamente produttivi e li abbandona a processi “spontanei” (che di fatto non lo sono affatto) non riesce a suscitare le forze morali e la spinta etica che sole possono rivitalizzare la società e garantirle un futuro. (leggi tutto)

Nel precedente pezzo è facile individuare almeno una dozzina di fraintendimenti a cui spesso la libellistica anti-mercato ricorre a meri fini strumentali confondendo le idee a chi tenta in buona fede di farsene una. Cerco di isolarli uno ad uno nelle righe che seguono anche se so bene che domani, aprendo il giornale, sono destinato a patire la cocente frustrazione di leggere chi ripeterà la litania da capo.

Le crisi

A volte sembra che i nostri commentatori mettano allegramente insieme le varie crisi che stiamo vivendo riducendole ad una senza tanto pensarci su. Far di tutta l’ erba un fascio è sviante e un po’ di prudenza non guasterebbe:

Unfortunately, not everyone is talking about the same crisis.  Some are talking about the housing bubble/crash, some are talking about the late 2008 financial crisis, and I believe both groups have the 2011 unemployment crisis in the backs of their minds (otherwise why is the debate seen as being so important?)… But the link between the housing bubble and the severe financial panic is much weaker than people realize.  And the link between the severe financial panic and high unemployment in 2011 is almost nonexistent.

Previsioni.

Se non fossimo stremati bisognerebbe ripetere per l’ ennesima volta che il senso dell’ esistenza dei mercati risiede proprio nella loro imprevedibilità. Infatti, se esistesse una casta di esperti in grado di predirne gli esiti che senso avrebbe raccomandarne il ricorso? In un certo senso la sconfitta dell’ esperto è da valutare come una vittoria del mercato.

Perfetta informazione.

Se non avessimo il latte alle ginocchia insisteremmo con pazienza a far presente che il concetto di “perfetta informazione” è probabilistico. Di conseguenza, anche su cio’ che conosciamo molto approssimatamente possiamo dire di essere “perfettamente informati. Ho la sensazione che chi legge le perentorie quanto frettolose righe di Israel difficilmente possa intuire il reale contenuto dell’ espressione.

Egoismo.  

Anche l’ homo economicus è solo una convenzione metodologica ed è davvero spossante puntualizzare di nuovo che il raffazzonato riferimento operato ad arte nell’ articolo non aiuta nessuno a capire di che si sta parlando.

L’ homo economicus ha delle preferenze e una ragione attraverso cui le persegue, solo in questo senso è un “egoista”. Ammettiamo che tra le sue preferenze rientri la felicità del prossimo: farà di tutto per perseguirla anche se la cosa costa cara. Strano egoista! Dalla caricatura di Israel avete forse percepito che l’ altruismo di sostanza è perfettamente compatibile con l’ egoismo metodologico? Scommetto di no visto che trattasi di una caricatura fatta per ridicolizzare e non per capire.

Razionalità. 

Tra le preferenze dell’ homo economicus potrebbero esserci, tanto per dire, anche comportamenti irrazionali. In questo caso sarebbe perfettamente razionale comportarsi irrazionalmente in taluni frangenti. Chi si attiene al “fantoccio” abbozzato da Israel troverebbe a dir poco singolare che comportamenti irrazionali caratterizzino la condotta di un agente “perfettamente razionale”. Ma in tali paradossi cade proprio perché i fantocci assemblati con l’ imperizia furbetta dei faziosi non  consentono di capire alcunché.

Infallibilità. 

L’ homo economicus nella versione fantozziana di Israel è “perfettamente informato”, “perfettamente egoista” e “perfettamente razionale”. Detto questo l’ ingenuo in buona fede che legge fiducioso concluderà che un uomo del genere è necessariamente infallibile nelle decisioni che prende. Come ci rimarrà costui nell’ apprendere che la nozione di homo economicus è compatibile con quella di operatore che sbaglia di continuo senza mai azzeccarne una? L’ ipotesi dell’ homo economicus è infatti un’ ipotesi relativa alla configurazione statistica degli errori e non a particolari talenti o psicologie. Non aspettatevi che il cruciale concetto emerga anche solo per sbaglio nel fazioso resoconto di Isreal.

Detto questo, chi ha capito cosa sia il mercato ha capito anche che esiste un solo modo serio per criticarlo: fornire un algoritmo per far soldi sistematicamente giocando in borsa. I critici competenti almeno provano ad avanzarne una parvenza ma quella riportata è una critica piazzaiola che ha ben poco di serio. 

LCTM.

Dove attingere poi le forze per ribadire ancora che il fallimento di un operatore di mercato (LCTM) non equivale al fallimento del mercato? Il mercato non fallisce se fallisce un’ impresa. Anzi, fallisce se non produce un numero adeguato di fallimenti d’ impresa.

Per sprecare un rigo entrando nel merito, pur sapendo benissimo che è l’ ultima cosa che interessa, mi limito a far osservare che Israel confonde l’ ipotesi dell’ efficienza dei mercati finanziari (EMH) con le teorie per prezzare le attività finanziarie (CAPM): se si fallisce operando con CAPM cio’ non compromette in alcun modo EMH.

Ultima cosa: le posizioni assunte da LTCM si sono rivelate vincenti nel lungo periodo. Questa variabile (“lungo periodo”) non è specificata nel modello teorico, tanto è vero che ironicamente si dice rivolgendosi a chi pretende di battere il mercato: “il mercato è razionale ma lo diventa il giorno dopo che cessa la vostra solvibilità”.

Conclusione: chi liquida il modello con supponenza fanfarona mischiando nozioni eterogene dimostra solo di non conoscerlo a fondo. 

Equilibrio economico.

Passiamo all’ annosa questione dell’ “equilibrio economico”. Israel disorienta il lettore già sfiancato con un passaggio contraddittorio nel quale, dopo aver affermato che la teoria mainstream postula l’ equilibrio efficiente dei mercati, sostiene che non esiste un risultato teorico di tale portata. Ma allora cosa cavolo dice la teoria? Dopo averle fatto dire tutto è il contrario di tutto è facile proseguire affermando quel che si crede in completa balia del proprio arbitrio e dei propri umori.

La teoria ortodossa, in effetti, ci parla dei fallimenti del mercato, ma anche di fallimenti della politica (cosa che naturalmente Israel salta a pié pari visto che rivendica una “nuova centralità della politica”) per concludere che in genere, laddove applicabili, le soluzioni competitive si fanno preferire. Un atteggiamento troppo umile per un nemico che s’ intende accusare d’ arroganza. Meglio taroccare le sue posizioni inventandosi una trombonata come quella dei “mercati assolutamente razionali, informati e efficienti”.

Ciliegina: l’ azione del mercato viene comunemente definita di distruzione creativa. Come conciliare allora “distruzione” ed “equilibrio”? Arduo problema, ma solo per chi ha in mente la versione naif di equilibrio, quella spacciata per comodità da Israel al solo fine di irriderla.

Soros.

Se non fossimo senza fiato inviteremmo poi a prendere con le molle i consigli di un capitalista ora sulla cresta dell’ onda che invita a bloccare le dinamiche dei mercati sotto una valanga di regole che immobilizza più di una colata di cemento, il conflitto d’ interesse è palpabile. E’ come invocare “l’ arimo” quando si sta soccombendo. Israel si mette sotto i piedi il primo comandamento di chi si occupa del mercato: difendere il capitalismo dai capitalisti. 

Tecnocrazia.

Ora però vorrei occuparmi di un altro svarione e chiedo: ma chi è il tanto odiato “tecnocrate” se non un regolamentatore dei mercati?

Il banchiere centrale, tanto per fare un esempio, è il tecnocrate chiamato a mettere ordine nel mercato del credito. L’ authority antitrust è il tecnocrate che limita le concentrazioni in qualsiasi settore.

Come si può allora accumunare nella stessa condanna i mercati e i suoi regolamentatori chiamati a porre paletti?

Boh. Pensavo che la regolamentazione dei mercati fosse l’ alternativa al mercato selvaggio.  Ma forse, come alternativa, si ha in mente piuttosto la Corea del Nord.

Israel sembra qui aver dimenticato il cruciale discrimine tra competizione e concorrenza, tra “mercato” e pseudo-mercati disegnati a tavolino, il che significa procedere sprovvisti della più elementare bussola.

Keynes.

Ma le cose sembrano stare ancora peggio: come si puo’ sprezzare la figura del tecnocrate per poi ammiccare a politiche keynesiane? Non risiede proprio nel “fine tuning” keynesiano il trionfo della tecnocrazia?

Oltretutto, mostrare in piena crisi da deficit una certa simpatia per approcci deficit spending è a dir poco intempestivo.

Meccanicismo.

Il peccato originale di Israel è quello di confondere il mercato con un meccanismo razionale, quasi fosse una macchina, dimenticando (forse perché non lo ha mai saputo) che se mai esistesse un’ istituzione che si oppone recisamente ad ogni soluzione razionalistica dei problemi sociali, questa è il mercato. Il mercato sostituisce l’ Intelligenza Unica del tecnico con una moltitudine d’ intelligenze le più disparate. Quanti guai puo’ procurare una metafora sbagliata.

I ragionieri.

Non si puo’ nemmeno dire  che Isreal compia lo strafalcione in buona compagnia visto che la suo fianco si ritrova l’ incartapecorita partita doppia del rag. Massimo Mucchetti (qui Piero Ostellino cerca pazientemente di introdurre il giornalista all’ ABC dell’ opera del mai letto e sempre citato a sproposito Adam Smith).

La fisica.

Di questo passo c’ è d’ aspettarsi una denuncia a breve contro l’ interferenza dei fisici nelle vicende internazionali seguita da un richiamo alla politica affinché riprenda la sua centralità limitando il pervasivo ruolo della forza di gravità.

sabato 3 settembre 2011

L’ infelice espressione attira superficiali condanne

Alcuni inestetismi nel frasario hanno il potere di arrestare la lettura del libro ma non il giudizio che se ne dà. 

In 1989 Francis Fukuyama made a bold prediction.  The world would become increasing democratic and market-oriented.  Other political models would gradually wither away.  He called this “The End of History.”  Here are a couple facts about his prediction:

1.  It would be difficult to find any other prediction in the humanities or social sciences that has proved more accurate.  There are many more democratic countries than in 1989, and policy has become much more market-oriented in most countries.

2.  When intellectuals discuss his prediction today, 99% assume it failed to come true.  Indeed most utter the phrase “the end of history” with undisguised contempt.

The juxtaposition of these two realities has made a deep impression on me.

continua

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venerdì 2 settembre 2011

La canzone dell’ estate 2011

Jovannotti?

... oppure qualcosa più all' avanguardia...

Perché non ridistribuire i voti scolastici?

Per chi si oppone anche alla ridistribuzione dei redditi la risposta è facile. Ma per gli altri?

College Students in Favor of Wealth Distribution Are Asked to Pass Their Grade Points to Other Students

A California college student is conducting a social experiment where he’s trying to get his peers to sign a petition in favor of distributing grade point averages to show how the federal government distributes wealth.

Oliver Darcy, a recent college graduate, proposes that students with good grades contribute their GPA to their academically sluggish friends. He argues that this is how the federal government takes wealth from the country’s high wage earners and distributes it to the low income earners. 

“They all earn their GPA,” said Darcy in an interview with "Fox and Friends." “So we asked them if they’d be interested in redistributing the GPA points that they earned to students who may be having trouble getting a high GPA.”

Darcy, who films his encounters with teachers and fellow students, doesn’t have much luck selling this theory. 

He said many students on college campuses support high taxes on the rich, but when put into relative terms, cringed at the thought of spreading around their academic wealth.

In a video posted on Exposingleftists.com, one student said, “If I do give GPA points to students that don’t deserve it, it isn’t fair, I work for what I have.”

Oliver also goes around campus asking whether students want to sign his petition to pay their share of the national debt – which amounts to nearly $47,000 per person. 

This, too, brought mixed reaction, with one student saying the debt isn’t hers because she didn't contribute to it.

Read more: http://www.foxnews.com/us/2011/08/17/college-students-in-favor-wealth-distribution-are-asked-to-support-grade/#ixzz1WmEMWfJn

Allen Stairs denuncia una falsa analogia:

Suppose that as a matter of social policy, we set up a system that left everyone with a paycheck of the same size at the end of every month. What does that amount to? It amounts to saying that each person is entitled to the same quantity of goods as each other person. Maybe that would be a bad idea; maybe the result would be that people would get lazy and less wealth would end up getting produced overall. But that's not built into to very logic of the idea. It's an empirical claim, even if a highly plausible one. There's nothing logical incoherent, as it were, about a system intended to produce completely uniform distribution of wealth, whatever the practical upshot might be.

Suppose, on the other hand, that we set up a system that smooths GPAs out completely, so that every student gets the same GPA - say, 3.2. Then what we've done amounts to getting rid of GPAs. It gets rid of them because what a GPA does, at least roughly, is tell us how well people did on certain sorts of tasks. For that to be possible, the system for awarding GPAs must allow (though needn't require) that different people can end up with different GPAs.

We've looked at the extreme cases of completely uniform distribution. In practice, the reply might be, no one has anything that extreme in mind. But the point of looking at the extremes was to draw attention to a difference between the very logic of the two cases. Redistributing income doesn't as a matter of logic affect the purchasing power of a dollar, even though redistribution schemes raise lots of perfectly good policy and empirical questions. But unless the "redistribution" of grades is a mere matter of relabeling, redistributing GPAs destroys the information that GPAs are intended to convey.

No, AS non mi convince: dimentica la lezione di Hayek, quella per cui i prezzi (e quindi i redditi) hanno innanzitutto un ruolo informativo, proprio come i voti scolastici.

giovedì 1 settembre 2011

Perchè ci sono così pochi vegetariani?

Sembrava la rivoluzione prossima ventura, eppure…

… the reason for the widespread but mistaken belief that America is rapidly going veg is the mismatch between what people say they eat and what they actually eat… The Campaign to Moralize Meat-Eating Has Failed… The great paradox of our culture's schizoid attitudes about animals is that as our concern for their welfare has increased, so has our desire to eat them. In 1975, the average American ate 178 pounds of red meat and poultry; by 2007, the number had jumped to 222 pounds…

"Moralization" is the cultural transformation of a preference into a value. Attitudes toward cigarette smoking is an example. About the same time the animal rights movement was gearing up in the 1970s, the anti-tobacco forces were also getting their act together. Since then, the rate of smoking among American adults has dropped from nearly 50% to less than 25%. In contrast, the number of meat eaters has remained stable, hovering around 98%…

Why has the effort to make smoking a moral issue been so successful while the anti-meat campaign has failed? I blame it largely on biology… Meat, it seems, is more addictive than nicotine

In his book, The Happiness Hypothesis, the psychologist Jonathan Haidt discusses his reaction to reading Peter Singer's argument against animals. He writes, "Since that day, I have been morally opposed to all forms of factory farming. Morally opposed but not behaviorally opposed. I love the taste of meat, and the only thing that changed the after reading Singer is that I thought about my hypocrisy each time I ordered a hamburger." Leggi tutto.

Libertarianism A-Z: politiche anticicliche o di stabilizzazione

Molti, specie dopo la moda keynesiana, le ritengono imprescindibili.

Ma si tenga conto che soffrono di molti limiti: innanzitutto il cosiddetto lag. Tra le decisioni e gli effetti passa del tempo così come tra la realtà e le decisioni.

C’ è poi una scarsa evidenza del loro successo: prima del 1914 gli USA non avevano una banca centrale. I singoli stati degli USA e della UE non ce l’ hanno nemmeno adesso.

La Grande Depressione dovrebbe averci insegnato qualcosa: le politiche di stabilizzazione prolungarono la crisi ad oltranza e spesso furono responsabili del suo inasprimento.

Alcune fluttuazioni, poi, sono salutari e danno segnali importanti (pensate all’ aumento nei prezzi del petrolio e agli incentivi per nuove trivellazioni).

Ci sono effetti collaterali: si è costretti a prevedere le mosse della politica oltre a quelle dell’ economia. Doppia incertezza.

Una cosa è certa: il breve periodo dominerà sulla lungimiranza.