Agosto di passione per il risparmiatore. Le Borse crollano e, dopo temporanei puntelli, tornano a crollare come niente fosse. La situazione è talmente grave che anche la ricerca del colpevole appare come tempo perso che alimenta la frustrazione. Viene il dubbio che chi “agisce male” non possa che agire così, che chi sbaglia, se operasse correttamente, otterrebbe solo un rinvio insignificante del redde rationem. La rabbia si placa nell’ impotenza che a sua volta cede a una sorta di malinconica lucidità.
Lasciatemi sfogare! Lasciatemi buttare giù di getto alcune riflessioni così come vengono, senza link, senza note, senza nomi, senza dati. Vi racconto la crisi come la vedo io, vi fornisco la mia “narrazione”. Si tratta forse solo di sensazioni, le declasso così per non apparire intento a decifrare la forma delle nuvole.
Non è facile districarsi nel dedalo della finanza, siamo sommersi da dati, indici dal segno mutevole che ci franano addosso da ogni dove, siamo assediati da cangianti interpretazioni autorevoli revocate in dubbio da quanto accade il giorno dopo, da cronisti che urlano la notizia mischiandola con gossip&omicidi, spuntano a ogni angolo esperti che commentano nel dettaglio nuove poi smentite. In casi come questi bisogna avere la forza di arretrare di un passo prendendo le distanze in modo da osservare le cose da lontano.
Sorvolo poi sulle distorsioni ideologiche che viziano buona parte dei resoconti, chi puo’ dirsene al riparo quando ci si impegna su un soggetto del genere? Quando gira e rigira, con infinite precauzioni, alla fin fine sei pur sempre chiamato a puntare i fari sull’ untore e a stabilire chi paga?
Eppure di roba ormai ne ho vagliata, alcune convinzioni le ho maturate e il barlume di una visione ha preso forma. Non rivendico la paternità di idee originali, molto più semplicemente alcuni commentatori mi hanno convinto più di altri e qui vorrei assemblare il meglio con coerenza, nel modo più semplice a rischio di banalizzare. Vorrei dire – prima di tutto a me stesso – qualcosa che rasenti l’ approssimativo pur di fissarsi nella mente anche quando sotto il bombardamento mediatico e piazzaiolo sarà facile smarrire qualsiasi bussola.
A quanto pare la confusione sotto il cielo è accresciuta dal fatto che molti nodi sembrano venuti al pettine tutti insieme. Non è semplicemente un temporale a strapazzarci ma un tornado che al suo interno ne contiene molteplici. Se il malato di morbillo soffre anche di calcoli e la nefrite non lo risparmia, il dottore, statene certi, non ci capisce più niente.
Comincio col dire che i cicli economici, croce e delizia degli economisti, hanno sempre tormentato il capitalismo senza mai trovare una spiegazione convincente. Sono dei vecchi amici che alimentano il dibattito accademico in tutte le salse; sono delle presenze misteriose che non gettano la maschera neanche dopo che decine di Nobel sono stati distribuiti per consacrare l’ opera di presunti smascheratori. Un serio consenso in materia latita dando l’ inquietante sensazione che non si farà mai vivo.
A questo punto la cosa migliore è rassegnarsi al fatto che l’ uomo (economico) agisce in modo bizzarro allorché incappa nell’ “innovazione”. Quando ha per le mani un “oggetto nuovo” regredisce all’ infanzia, comincia a giocarci, si esalta e diventa imprevedibile. Il fatto è che in un economia di mercato l’ innovazione ricorre spesso, e guai se non fosse così.
Di fronte alle novità prorompenti il sistema economico capitalistico tende a generare quei fenomeni particolari che chiamiamo “bolle”.
Se a irrompere è la “novità-internet”, per esempio, ecco che tutti si buttano a capofitto su internet. Fuffa e promettenti progetti si avvinghiano in un abbraccio inestricabile.
Opera altresì una sorta di mimetismo ingannevole: anche chi è lontano mille miglia dalla sostanza delle pratiche innovative sente di doversi dare una “verniciatina internettiana” per ricevere attenzione e finanziamenti.
Ma, oltre alla subdola mimesi che fa scendere una penombra in cui tutte le vacche si fanno grigie, quando il fattore “novità” entra in scena, nel fondo di molti cuori lavora sempre anche una “grande speranza”; un sentimento forse irrazionale ma più che comprensibile; la speranza ci serve per procedere nell’ ignoto. Se per lei non c’ è spazio nella teoria delle scelte razionali, se la razionalità cartesiana non ci illumina circa il ruolo di questa inclinazione, lo farà la logica evolutiva. Sta di fatto che “novità” e “speranza” procedono appaiate, inutile voler separare queste due amiche che si danno appuntamento nell’ animo umano quando scruta il futuro e salpa alla conquista di nuovi pianeti.
Senonché, la verità viene presto a galla, le “bolle” scoppiano e la crisi riporta i valori alle giuste proporzioni. Le speranze eccessive si sgonfiano e restiamo con in mano quelle “novità” che un tempo credevamo miracolose e che ora, per quanto ridimensionate, sono comunque utili.
Esempio (facile). Le “novità” più recenti hanno riguardato la contrattualistica finanziaria. Ricordate la vicenda dei subprime e dei CDS? Se ne sono inventati di tutti i tipi, molti in buona fede hanno sperato che in questo modo fosse possibile dare una casa anche a chi prima non poteva permettersela, sta di fatto che le “bolle” relative si sono gonfiate per bene e hanno fatto un bel botto quando sono esplose, come da manuale. Ora, chissà mai che quella sofisticata strumentazione non torni utile all’ umanità grazie a un uso più oculato.
Tutto qui? No, questa di cui ho parlato è la “crisi da manuale”, la “crisi da bolla”, la “crisi da ciclo”, la “crisi da novità”. La solita crisi. Stavolta, forse, c’ è di più.
Per descrivere questo “di più” non saprei da dove partire. Forse l’ unica è partire da un dato: è dagli anni settanta che i paesi sviluppati non conoscono una vera crescita economica.
Sorpresi?
E adesso non precipitatevi sulle serie storiche dei vari pil OCSE. Sebbene anch’ esse segnalino un certo rallentamento, restano comunque ingannevoli. I motivi sono tecnici e per non appesantire li tralascio. Delusi? Fidatevi, sono motivi solidi, dimenticate i sofismi sulle misurazioni alternative al PIL, anche se mi rendo conto che amputare qui un discorso sostanziale ne sacrifica l’ eleganza.
Per impressionare meglio lasciatemi ancora ripetere che l’ economia Occidentale è praticamente ferma da quarant’ anni. Persino i “dinamici USA” non si sono mossi poi granché. Il nostro benessere sostanziale non cresce. Lo ripeto perché secondo me molti non l’ hanno ancora ben realizzato.
E’ un’ affermazione un po’ forte, nemmeno del tutto vera se presa alla lettera (diciamo che la crescita economica è rallentata parecchio rispetto a prima) ma mi sembra che colga un punto sostanziale.
Un sintomo dell’ imprevisto stop è il ruolo assunto dalla finanza: la finanza ha lentamente guadagnato il centro della scena; ma stressare la finanza è un modo per non perdere velocità anche quando l’ auto ormai viaggia a tre cilindri. Aumentando il ritmo delle frustate anche il ronzino viaggia alla pari con il purosangue. Solo che prima si spella e poi collassa. La pratica di operare a debito si è molto diffusa sia presso i privati che presso gli Stati. Notare che in sé la cosa non sarebbe deprecabile; se avete un buon lavoro e guadagnate bene è perfettamente logico indebitarsi anche parecchio per comprare una casa all’ altezza del vostro status. Non è sintomo di “avidità” agire in questo modo! Ebbene, cio’ che ho chiamato “stipendio” a livello globale chiamatelo pure “crescita”: sapendo che si crescerà ai sostenuti ritmi del passato è perfettamente logico indebitarsi.
Ma se il “mondo sviluppato”, chi più chi meno, non cresce praticamente più dagli anni ‘70, la logica dell’ indebitamento è destinata a incartarsi prima o poi. E’ come se vi avessero licenziato e voi continuate a caricarvi mutui sul groppone.
A quanto pare ci siamo.
Ecco allora che una normale crisi da bolla come quella dei subprime viene a coincidere con il fatto che il mondo comincia a subodorare una crisi epocale da eccesso di fiducia. L’ errata valutazione che ho descritto si chiama status quo bias: prendevamo decisioni pensando che le cose continuassero ad andare come prima. Per “prima” intendo il periodo che va dalla rivoluzione industriale a oggi, un lasso di tempo in grado di giustificare l’ abbaglio.
I metodi di misurazione del PIL non hanno certo favorito il disincanto, ma qui torniamo alla pedante parte tecnica, che non si addice certo alla retorica dello sfogo, il genere che ho scelto e che qui mi voglio concedere. Quindi… transeat.
Se questo è vero, alcune osservazioni s’ impongono. Io mi limito a tre, proprio perché anche i lunghi elenchi sono pedanti.
Innanzitutto considero illusorio cercare di capire la madre di tutte le crisi focalizzandosi sul “caso Grecia” o sul “caso Italia”. Certo, alcuni sono messi peggio di altri e per loro il countdown è più vicino, i secondi sono nelle condizioni di salvare temporaneamente i primi (magari con gli eurobond) ma la dinamica di fondo riguarda tutti perché più o meno tutti si sono incamminati su quel sentiero.
Secondo, non possiamo definire la crisi in corso semplicemente come una “crisi da debito” ma piuttosto come una “crisi di crescita”. I guai non derivano tanto dai mutui stipulati, quanto dal fatto che ci hanno licenziato. Ci hanno licenziato e nemmeno ce ne siamo accorti! Ma il bello (o il brutto) è che anche il nostro creditore è sembrato all’ oscuro del particolare continuando a farci credito.
Terzo, cio’ che ci minaccia non è qualche perverso meccanismo della Finanza o qualche oscuro gnomo della Speculazione, quanto il pervasivo status quo bias che ci induce a non vedere che siamo più poveri di quanto crediamo, che ci induce all’ indebitamento perché ci fa credere che possiamo permettercelo, che ci fa credere che torneremo a crescere quando di fatto siamo fermi da quarant’ anni.
Adesso sarebbe il momento delle “soluzioni”, e capite bene il mio imbarazzo.
Ricorrendo all’ espansione monetaria, bene o male abbiamo imparato a fronteggiare le “crisi da bolla”, tanto è vero che la Grande Depressione rimane negli annali della storia mentre le crisi di fine anni ottanta, di entità analoga, non ce le ricordiamo neanche. Ma “la madre di tutte le crisi”, quella generata da “illusione di ricchezza”, come diavolo si affronta?
Boh.
O ci si rassegna alla stagnazione ridimensionando il nostro tenore di vita o ci si cerca di capire quali sono le cause della prolungata stagnazione.
Quando si parla troppo di economia è sempre meglio ricordare un concetto fondamentale: la ricchezza, quella vera, arriva con l’ innovazione. Quando un tale scopre un seme che, a parità di cure richieste, dà una spiga con venti chicchi di grano anziché dieci, la ricchezza raddoppia.
Ma bisogna scoprirlo.
La Rivoluzione Industriale ci ha regalato una raffica di innovazioni che ci ha lasciato senza fiato per secoli. Le abbiamo sfruttate a dovere e ora stiamo raschiando il barile. Come mantenere quel ritmo?
A voi la risposta, io mi limito ad alcune suggestioni.
Forse internet cesserà di essere solo un ansiolitico e inciderà realmente fugando le delusioni che per ora sta dando, almeno sul piano del potenziale sviluppo economico che avrebbe dovuto supportare.
Forse è un fatto culturale, forse dobbiamo dare maggiore dignità sociale alla figura dell’ innovatore. D’ altronde la rivoluzione industriale si produsse anche perché l’ imprenditore borghese era un individuo dal prestigio sociale notevole.
Forse, molto più prosaicamente, dobbiamo trovare un sistema per pagarli un po’ meglio, questi “innovatori”. Il sistema dei brevetti non funziona, d’ accordo, ma chiunque faccia quattro conti vede che un vero innovatore non riceve che una minima frazione della ricchezza che contribuisce a produrre.
Forse l’ innovazione che rompe sul serio è un evento casuale nella storia e dobbiamo solo sperare prendendo tempo, in questo caso tornerebbero utili euro bond (e anche mondial bond) che dilazionino la resa dei conti spostando in là la frontiera.
Fin qui mi sembra di aver parlato libero da ogni condizionamento ideologico, concedete infine a un fazioso liberista di accennare al ruolo dello Stato nelle economie moderne. Sento già il monito di chi ci ricorda che viviamo nell’ era del “turbocapitalismo”. Faccio solo notare che il timone della barca italiana è affidato a un tale che ha scritto “La paura e la speranza”. Ma lo avete letto? E a chi si ritiene immerso nella centrifuga del “turbocapitalismo” chiedo se, secondo lui, il ruolo fattivo dello Stato, al netto della retorica, è aumentato o diminuito nell’ ultimo mezzo secolo. I saldi del suo bilancio, che misurano la ricchezza intermediata nel paese, sono saliti o sono scesi? Magari questo sempre più ingombrante protagonista non è del tutto innocente. Magari facendo quattro conti scopriamo a sorpresa che Interferenza Statale e Grande Rallentamento sono vecchi amici e si sentono regolarmente al telefono. E chissà che prima o poi non saltino fuori imbarazzanti intercettazioni.
E adesso, in uno scrupolo di coscienza finale elenco alcuni dei nomi più evidenti da cui mi sono lasciato influenzare nel corso di questa riflessione.
Scott Sumner
Tyler Cowen
Michele Boldrin
Robin Hanson
Oscar Giannino
Eric Falkenstein