venerdì 18 novembre 2011

Ho visto degli atei felici

Jonathan Haidt: Felicità. Un’ ipotesi.

Ieri dalla Cri ci siamo incontrati per tenere il “gruppetto” dei ciellini, eravamo una quindicina e quasi non entravamo in salotto. Ma in questi casi si sta bene anche stretti. Non cambierei mai una sede del genere, soprattutto perché è sul mio pianerottolo e 1. ci possiamo andare in pantofole 2. possiamo rimpiazzare la baby sitter con il baby call.

Si commentava l’ insegnamento di Julian Carron alla Scuola di Comunità di qualche giorno prima.

Carron aveva detto che “la realtà è sempre positiva”.

Affermazione perentoria e in qualche modo scandalosa perché fatta reagendo al caso di una mamma che aveva perso il figlio. La tragedia era stata riferita da un prete intervenuto per l’ occasione; in questo genere d’ incontri si privilegia la riflessione su fatti reali, chi si abbandona a congetture è malvisto, quasi volesse sviare il discorso.

Eravamo ora chiamati a discutere per comprendere il senso profondo di quella lezione contro-intuitiva.

Ebbene, dapprima qualcuno ha avanzato l’ ipotesi che da eventi negativi ne possano pur sempre generare di positivi con l’ effetto di ottenere un saldo generale in attivo. Spesso è proprio così: ci siamo scatenati in una ridda di esempi, a ciascuno veniva in mente qualcosa: un fatto, un episodio, un’ esperienza personale. E se il “positivo” non si produce contestualmente al “negativo”, in fondo basta spostarsi un po’ più in là nel tempo e prima o poi il giochetto riesce.

Ma è la stessa ipotesi, a guardar bene, a essere irrilevante visto che non si oppone al fatto che esistano pur sempre “realtà negative” e “realtà positive”. Noi dobbiamo invece indagare sul perché “la realtà è sempre positiva”.

Poi Emanuela ha fatto riferimento ai drammi vissuti in famiglia (sia suo padre che suo fratello sono mancati in circostanze tragiche).

Ebbene, nel racconto di questa esperienza ha voluto enfatizzare come quella triste realtà l’ abbia colpita duro ma al contempo abbia impreziosito legami stretti in precedenza con persone intorno a lei; tutto cio’ le ha consentito di uscire rafforzata e “risvegliata”. Il dato esperienziale è stato decisivo per ritonificare il suo spirito.

Qui ci avviciniamo al nocciolo della questione: l’ incontro con l’ asperità ci rende più forti. E’ un po’ come se ci mettesse o rimettesse in moto scuotendoci dal torpore che ci avvolge quando le cose filano lisce per troppo tempo. E’ come un tornare al mondo, in un mondo dove possiamo fare incontri che riattivano la nostra umanità.

L’ intervento dell’ Ema ha raccolto un certo consenso.

Ma anche qui non mancano i problemi: quel che ha detto l’ Ema, avrebbe potuto dirlo anche un ateo. Parola per parola. E perché no?

Calma, non mi sono dimenticato del libro, ci arrivo; ho solo fatto questo preambolo perché Jonathan Haidt, nello svelarci il “senso della vita”, ripete paro paro quello che, a quanto pare, per molti intervenuti al “gruppetto” sembra bastare.

Solo che Haidt è un ateo doc e parla unicamente quel linguaggio positivista che i ciellini reputano insufficiente a descrivere l’ umano.

Il libro di cui parliamo è appassionante perché oltre a costituire un resoconto scientifico, ci riferisce le vicissitudini esistenziali dell’ autore. Veniamo a sapere di come il giovane Haidt considerasse sterile la filosofia contemporanea inaugurata di Wittgenstein, disinteressata com’ era a una comprensione profonda della natura umana. Sono inconvenienti che capitano quando si trascura la psicologia in favore della logica.

Fortunatamente, da qualche tempo, le cose sono cambiate e l’ indagine sul “senso della vita” ha riguadagnato la scena.

La nostra vita, dice Haidt, è come un film che cominciamo a vedere da metà. Accadono molte cose che non riusciamo a spiegarci ma che sentiamo come dotate di senso. Perché lei ammiccava a lui? Perché il protagonista si trovava lì proprio in quel momento? Eccetera.

Esiste per caso uno spettatore che ha visto il film per intero e che possa illuminarci?

Per Haidt, attraverso il metodo scientifico, possiamo venire a sapere chi era in sala quando si sono spente le luci ed è iniziata la proiezione, dobbiamo rintracciarlo e chiedere a lui.

Purtroppo, per la scienza e per i testimoni che riesce a riesumare, la nostra vita non ha alcun senso. Ma forse si puo’ affrontare una sotto-questione non da poco: “come dobbiamo vivere?”. Come posso avere cioè una vita piena, appagante e… “significativa”?

Non è detto che la domanda di senso (questione principale) sia legata a doppio filo alla sotto-questione. In fondo la seconda ha natura empirica, ed essa, a volte, è risolta brillantemente anche da chi non dà alcun contributo per sbrogliare la prima.

Volendo sintetizzare la monumentale letteratura positivista in merito, direi che per essere felici occorre un “impegno vitale”, preferibilmente nel campo del lavoro o dell’ amore. Per approfondimenti faccio un solo nome: Mihalyi Csikszentmihalyi.

Un “impegno vitale” implica a sua volta relazioni umane forti e ideali alti. Richiede poi che vi sia armonia tra il corpo, la mente e l’ ambiente sociale in cui si vive.  Quando tutto cio’ è presente, le persone percepiscono un “senso” in quello che fanno.

Anche senza alzarsi troppo da terra si puo’ godere di una vista meravigliosa sul mondo.

eifeltower

In più ora sappiamo anche che il dono di sé ha un suo senso dal punto di vista biologico. Il nostro “corpo” non si oppone necessariamente a queste pratiche. Voglio dire, forse non siamo necessariamente dei gretti “egoisti naturali” temperati dall’ ipocrisia come ci dipinge qualcuno.

La ricetta di Haidt e la ricetta dell’ Ema convergono in modo preoccupante. Dico “preoccupante” perché l’ ateo e il ciellino non possono  permettersi abbracci tanto affettuosi.

Cosa c’ è allora che non va?

Forse bisogna concentrarsi sull’ espressione “alti ideali”, uno degli ingredienti imprescindibili nella ricetta scientifica della “felicità”.

L’ ateo li puo’ sentirli ma non puo’ permettersi di pensarli, altrimenti gli svaniscono tra le mani poiché li troverebbe insensati. In altri termini, non puo’ permettersi di “alzare la testa” e ampliare i suoi orizzonti: la scienza, ovvero il suo riferimento, in fondo non assegna nessuno scopo alla sua vita.

L’ Ema, invece, puo’ anche alzare la testa, farebbe male a concentrarsi unicamente sull’ elemento “esperienziale” visto che puo’ permettersi di pensare l’ esperienza per riempirla ulteriormente di senso senza fermarsi a una epidermica sensazione, per quanto appagante.

C’ è la “vita” e la “vita pensata”, ad alcuni basta la prima, altri devono averle entrambe. Le persone non sono tutte uguali, alcune si appagano col piacere che traggono dalle loro esperienze, altre non possono fare a meno di meditarle in modo ragionato. A questi ultimi è difficile impedire di “alzare la testa”. Ecco, Dio e la religione si offrono soprattutto a costoro.

La parabola esistenziale dell’ ateo Jonathan Haidt si conclude con un cambiamento interiore non da poco: oggi, pur rimanendo un incrollabile ateo, ha abbandonato il compiaciuto disprezzo per la religione che aveva a 20 anni. Lo studio della psicologia evolutiva gli ha fatto concludere che la mente umana, molto semplicemente, “percepisce” la divinità, al di là dell’ esistenza o meno di un Dio.

Detto in altri termini, la religione è tremendamente “fitting”, tanto è vero che è uno dei pochi universali accertati.

Come potremmo mancarle di rispetto?