giovedì 20 dicembre 2007

La conversione dei Caraibi

Scrivo con la percezione dilatata che lascia l' incontro ancora fragrante con il verso di Walcott, vate antillano dalla scrittura ventilata che, senza fermarsi mai, ondeggia sulla pagina alla stregua di un palmizio caraibico. Il suo rigo sa farsi fungo allucinogeno dalle spore non omologate.


E ce ne sono tanti di righi salmastri in quel suo magistrale poemone dove con ricchezza immaginifica strabordante si mette in scena lo strazio di una conversione ai valori occidentali della sua gente. Uno strazio che ci fa leggere con la mandibola smollata.


Sono righi da cui non ci va di staccare gli occhi, li sorvegliamo anche allontanandoci da loro, anche quando sono diventati ormai niente più che un corteo di formichine nere in marcia verso una meta per cui abbiamo perso interesse.


Una ridda di righi rumorosi e itraprendenti, ognuno vuole proiettare il suo cinema, ognuno è disposto a tutto pur di dare sulla voce all' altro. Si affollano sgomitando davanti alla pupilla sconcertata del lettore.


Troppi forse per reggere la densità sonettistica a cui li sottopone il vate, per sopportare l' irruenza metaforica con cui carica ogni pagina al punto da renderci ponderosa la sfogliata. Pagine che ci spiace abbandonare alla loro sorte, meritevoli come sono di essere ulteriormente dissodate dal vomere di cento riletture.


Che rischio riversare tutte quelle calorie sul palato del degustatore bulimico! Si finisce prima per sorprenderlo, poi per deliziarlo, poi per inebriarlo, poi per stordirlo; infine per allucinarlo. Poi, per...per "dilatarlo". Scrivo dopo aver superato l' ultima soglia di quest' ultimo stadio. Ne tenga conto il perplesso che già scuote la testa.


Una poesia immersa nella piaga slabbrata e formicolante di cuori negri che stanno al mondo senza radici. Che hanno una loro economia nobilmente stagnante fatta di acque glauche arate dalle reti, di corde muschiose e barbute strattonate da muscoli guizzanti come delfini. Un economia dove il remo viene lasciato oziare a lungo. Un' economia accompagnata dal ritmo della bofonchiante abitudine figlia dell' esperianza.


Umanità ancora avvolta nel timore riverente verso un creato da ringraziare per le sorprese elargite ogni giorno che dio manda in terra.


Cuori negri sospesi tra la ritmica pace di onde benedicenti e l' anarchico frizzare della schiuma che si arriccia nella risacca.


Cuori babbuini tremanti come pioppi nell' aria in un timore della cui sacralità ci accorgiamo solo ora che barcolla, sbiadisce e cede a forze imperscrutabili che la estinguono.


In questa festa continua carica di infezioni contagiose, passa inosservato persino il trito stereotipo dell' umiliazione imposta dalla volgarità dei tempi.


Sia dannato chi lo risveglia menzionandolo quando pensa, così facendo, di agganciare un commento appropriato alla lunga teoria di versi ispirati che ci sfila di fronte prostandoci con la fatica che danno al palato i cibi resi squisiti dall' eccessivo sapore che li carica.


Le sete di fantastiche donne arroganti dalla bellezza ferina varcano un paesaggio talmente splendido che guardarlo ci affranca dalla macina della storia.


Una bellezza cresimata da Vescovi plenipotenziari, una sinuosità ciprigna fatta di bolle acquatiche, pronta a svanire come le meduse trasparenti.


Nello stesso momento in cui ringraziamo per tutto questo spettacolo, ecco che cominciamo a perderlo. Le mani, enormi come alberi, dei coralli ci congedano. La risacca è niente più che una bianca linea astratta. Perdiamo il legno rimpiazzato dai cementi, perdiamo la crudeltà delle razzie spinte via dalla tristezza della prostituzione, perdiamo il ballo della pupilla indagatrice sostituita dai torpori oculari indotti dalla soddisfazione materiale, perdiamo la freschezza dei fanghi a cui si preferisce il calore delle lamiere, perdiamo l' esaltazione di droghe misteriose per affogarci nell' alcol della grande distribuzione.


Poi, in un soprassalto, allo scoccare di una scintilla, ci precitiamo verso l' incorruttibile che sentiamo abitare ancora la negra periferia. "Dov' è la nostra casa?". Via, via, il cuore sfinito dai libri reclama una nuova impraticabile libertà. Qesta nostra utopia - che è il nostro pio errore - saprà consolarci con l' allucinazione del verso che segue.Scrivo con la percezione dilatata che lascia l' incontro ancora fragrante con il verso di Walcott, vate antillano dalla scrittura ventilata che, senza fermarsi mai, ondeggia sulla pagina alla stregua di un palmizio caraibico. Il suo rigo sa farsi fungo dalle spore non omologate.


E ce ne sono tanti di righi salmastri in quel suo magistrale poemone dove con ricchezza immaginifica strabordante si mette in scena lo strazio di una conversione ai valori occidentali della sua gente. Uno strazio che ci fa leggere con la mandibola afflosciata.


Sono righi da cui non ci va di staccare gli occhi, li sorvegliamo anche allontanandoci da loro, anche quando sono diventati ormai niente più che un corteo di formichine nere in marcia verso una meta a cui possiamo disinteressarci.


Una ridda di righi rumorosi e itraprendenti, ognuno vuole proiettare il suo cinema, ognuno è disposto a tutto pur di dare sulla voce dell' altro. Ce ne sono proprio tanti.
Troppi forse per reggere la densità sonettistica a cui li sottopone il vate, per sopportare l' irruenza metaforica con cui carica ogni pagina al punto da renderci ponderosa la sfogliata. Pagine che ci spiace abbandonare alla loro sorte, meritevoli come sono di essere ulteriormente dissodate dal vomere di cento riletture.


Che rischio riversare tutte quelle calorie sul palato del degustatore bulimico! Si finisce prima per sorprenderlo, poi per deliziarlo, poi per inebriarlo, poi per stordirlo; infine per allucinarlo. Poi, per...per "dilatarlo". Scrivo dopo aver superato l' ultima soglia di quest' ultimo stadio. Ne tenga conto il perplesso che già scuote la testa.


Una poesia immersa nella piaga slabbrata e formicolante di cuori negri che stanno al mondo senza radici. Che hanno una loro economia nobilmente stagnante fatta di acque glauche arate dalle reti, di corde muschiose e barbute strattonate da muscoli guizzanti come delfini. Un economia dove il remo viene lasciato oziare a lungo. Un' economia accompagnata dal ritmo della bofonchiante abitudine figlia dell' esperianza.


Umanità ancora avvolta nel timore riverente verso un creato da ringraziare per le sorprese elargite ogni giorno che dio manda in terra.


Cuori negri sospesi tra la ritmica pace di onde benedicenti e l' anarchico frizzare della schiuma che si arriccia nella risacca.


Cuori babbuini tremanti come pioppi nell' aria in un timore della cui sacralità ci accorgiamo solo ora che barcolla, sbiadisce e cede a forze imperscrutabili che la estinguono.


In questa festa continua carica di infezioni contagiose, passa inosservato persino il trito stereotipo dell' umiliazione imposta dalla volgarità dei tempi.


Sia dannato chi lo risveglia menzionandolo quando pensa, così facendo, di agganciare un commento appropriato alla lunga teoria di versi ispirati che ci sfila di fronte prostandoci con la fatica che danno al palato i cibi resi squisiti dall' eccessivo sapore che li carica.


Le sete di fantastiche donne arroganti dalla bellezza ferina varcano un paesaggio talmente splendido che guardarlo ci affranca dalla macina della storia.


Una bellezza cresimata da Vescovi plenipotenziari, una sinuosità ciprigna fatta di bolle acquatiche, pronta a svanire come le meduse trasparenti.


Nello stesso momento in cui ringraziamo per tutto questo spettacolo, ecco che cominciamo a perderlo. Le mani, enormi come alberi, dei coralli ci congedano. La risacca è niente più che una bianca linea astratta. Perdiamo il legno rimpiazzato dai cementi, perdiamo la crudeltà delle razzie spinte via dalla tristezza della prostituzione, perdiamo il ballo della pupilla indagatrice sostituita dai torpori oculari indotti dalla soddisfazione materiale, perdiamo la freschezza dei fanghi a cui si preferisce il calore delle lamiere, perdiamo l' esaltazione di droghe misteriose per affogarci nell' alcol della grande distribuzione.


Poi, in un soprassalto allo scoccare di una scintilla, ci precitiamo verso l' incorruttibile che sentiamo abitare ancora la negra periferia. "Dov' è la nostra casa?". Via, via, il cuore sfinito dai libri reclama una nuova impraticabile libertà. Qesta nostra utopia - che è il nostro pio errore - saprà consolarci con l' allucinazione del verso che segue.