martedì 22 novembre 2011

Nazi Animal Protection

As soon as the Nazi Party came to power in 1933, they began to enact scores of animal protection laws, some of which are still operative in Germany. (See here for the 1933 legislation.) For example, in Nazi Germany, people who mistreated their pets could be sentenced to two years in jail. The Nazis banned the production of foie gras and docking the ears and tails of dogs without anesthesia, and they severely restricted invasive animal research. The Nazi Party established the first laws insuring that animal used in films were not mistreated and also mandated humane slaughter procedures for food animals and for the euthanasia of terminally ill pets…

In 1933, Hermann Göring announced he would "commit toconcentration camps those who still think they can treat animals as property." The feared Heinrich Himmler once asked his doctor, who was a hunter, "How can you find pleasure, Herr Kerstein, in shooting from behind at poor creatures browsing on the edge of a wood...It is really murder." Hitler…abhorred hunting and horse-racing and referred to them as "the last remnants of a dead feudal world." Sax chronicles many other examples in his fascinating book Animals In the Third Reich: Pets, Scapegoats, And The Holocaust… Perhaps the most chilling episode in the bizarre annals of Nazi animal protectionism was a 1942 law banning pet-keeping by Jews…

The Fuhrer is a convinced vegetarian, on principle. His arguments cannot be refuted on any series basis. They are totally unanswerable… The extent of Hitler's vegetarianism, however, is a matter of dispute… I suspect that… was an inconsistent vegetarian. But so are most modern American "vegetarians", 70% of whom sometimes eat meat… leggi tutto.

zoe williams boing allevamento

Morale:

human-animal interactions are fraught with paradox and inconsistency… the Nazi animal protectionists represent examples of fundamentally bad people doing good things for animals. I suspect this pattern of behavior is rare. However, the converse -- fundamentally good people who treat animals badly -- is common.

Perché Carlo Petrini e Steve Jobs “sì” mentre la pubblicità “no”?

These two views seem to go together often:

  1. People are consuming too much
  2. The advertising industry makes people want things they wouldn’t otherwise want, worsening the problem

The reasoning behind 1) is usually that consumption requires natural resources, and those resources will run out. It follows from this that less natural-resource intensive consumption is better* i.e. the environmentalist prefers you to spend your money attending a dance or a psychologist than buying new clothes or jet skis, assuming the psychologist and dance organisers don’t spend all their income on clothes and jet skis and such.

How does the advertising industry get people to buy things they wouldn’t otherwise buy? One practice they are commonly accused of is selling dreams, ideals, identities and attitudes along with products. They convince you (at some level) that if you had that champagne your whole life would be that much more classy. So you buy into the dream though you would have walked right past the yellow bubbly liquid.

But doesn’t this just mean they are selling you a less natural-resource-intensive product? The advertisers have packaged the natural-resource intensive drink with a very non-natural-resource intensive thing – classiness – and sold you the two together.

Yes, maybe you have bought a drink you wouldn’t otherwise have bought. But overall this deal seems likely to be a good thing from the environmentalist perspective…

My guess is that in general, buying intangible ideas along with more resource intensive products is better for the environment than the average alternative purchase a given person would make…

Another thing advertisers do is tell you about things you wouldn’t have thought of wanting otherwise, or remind you of things you had forgotten about. When innovators… do this we celebrate it. Is there any difference when advertisers do it?… leggi tutto.

Satoshi Itasaka’s Balloon Bench

sabato 19 novembre 2011

Ugole cablate

Sa essere un’ emaciata dama bianca, regina delle nevi dalla voce vetrificata in un ghiaccio ornato dalle sue stesse schegge. Nella primavera fatidica che smuove la nivea pietra sepolcrale, assisteremo al problematico scongelamento crionico di un’ anima. Il recupero della bellezza perduta impegna frese, presse, torchi e altri macchinari che alternano – sembra invano - precisione e potenza. Ci accorgiamo presto che “precisione & potenza” di quelle macchine sono l’ unico simulacro di bellezza che ci resta tra le mani.

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Sa essere una terrea dama nera - amazzone dell’ apocalisse – per parlarci dell’ attesa, dell’ allarme, dell’ annuncio, dell’ incombere e del soccombere. Ascolta bene perché quel giorno chi non riconoscerà i segnali potrebbe attardarsi fatalmente.

Genealogia: Diamanda Galas, Iannis Xenakis.

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Maja S. K. Ratkje – River mouth echoes

Identikit dell’ evasore

Ha redditi medio bassi, vive a sud ed è un lavoratore dipendente.

Fa un certo effetto leggere sul Corriere della Sera della Guardia di Finanza che ha pizzicato migliaia di statali che hanno truffato l'Inps con il doppio lavoro. Tremilatrecento casi di evasione fiscale perchè si arrotondava lo stipendio con un secondo lavoro in nero. La notizia è stata inquadrata subito come i soliti travet che mangiano a sbafo alle spalle dello Stato. E sarà anche così

E invece la Finanza così ha sollevato il velo inconfessabile su gran parte dell'evasione fiscale italiana. Perchè anche nel settore privato tanti arrotondano il magro stipendio con qualche lavoretto in nero. C'è per altro qualcuno che immagina di vedere nelle dichiarazioni dei redditi di migliaia di professori l'incasso delle ore di ripetizione pomeridiane a 25 euro l'ora? C'è qualche studente universitario che le fa e poi si autodenuncia al fisco? E ancora: quante aziende pagano superminimi attraverso note spese non reali (ad esempio rimborsi km)? Quanti straordinari o premi produzione sono pagati in nero?.

Se Mario Monti, Vittorio Grilli e Vieri Ceriani vorranno davvero affrontare seriamente il capitolo della lotta all'evasione, è meglio che guardino con attenzione quelle cifre. Come i numeri delle ricerche che confrontano incassi Iva e dichiarazioni Irpef, ponendo Calabria e Campania in vetta alle Regioni con più evasori fiscali (lì i cittadini acquistano ben più di quello che ricevono in busta paga, e qualcosa evidentemente non funziona). Questo significa che gran parte dell'evasione fiscale non sia quella dei ricchi (che ci sono ed evadono), ma quella del ceto medio e perfino quella dei poveri. Per campare hanno bisogno di uno stipendio extra da non dichiarare… leggi tutto.

venerdì 18 novembre 2011

Ho visto degli atei felici

Jonathan Haidt: Felicità. Un’ ipotesi.

Ieri dalla Cri ci siamo incontrati per tenere il “gruppetto” dei ciellini, eravamo una quindicina e quasi non entravamo in salotto. Ma in questi casi si sta bene anche stretti. Non cambierei mai una sede del genere, soprattutto perché è sul mio pianerottolo e 1. ci possiamo andare in pantofole 2. possiamo rimpiazzare la baby sitter con il baby call.

Si commentava l’ insegnamento di Julian Carron alla Scuola di Comunità di qualche giorno prima.

Carron aveva detto che “la realtà è sempre positiva”.

Affermazione perentoria e in qualche modo scandalosa perché fatta reagendo al caso di una mamma che aveva perso il figlio. La tragedia era stata riferita da un prete intervenuto per l’ occasione; in questo genere d’ incontri si privilegia la riflessione su fatti reali, chi si abbandona a congetture è malvisto, quasi volesse sviare il discorso.

Eravamo ora chiamati a discutere per comprendere il senso profondo di quella lezione contro-intuitiva.

Ebbene, dapprima qualcuno ha avanzato l’ ipotesi che da eventi negativi ne possano pur sempre generare di positivi con l’ effetto di ottenere un saldo generale in attivo. Spesso è proprio così: ci siamo scatenati in una ridda di esempi, a ciascuno veniva in mente qualcosa: un fatto, un episodio, un’ esperienza personale. E se il “positivo” non si produce contestualmente al “negativo”, in fondo basta spostarsi un po’ più in là nel tempo e prima o poi il giochetto riesce.

Ma è la stessa ipotesi, a guardar bene, a essere irrilevante visto che non si oppone al fatto che esistano pur sempre “realtà negative” e “realtà positive”. Noi dobbiamo invece indagare sul perché “la realtà è sempre positiva”.

Poi Emanuela ha fatto riferimento ai drammi vissuti in famiglia (sia suo padre che suo fratello sono mancati in circostanze tragiche).

Ebbene, nel racconto di questa esperienza ha voluto enfatizzare come quella triste realtà l’ abbia colpita duro ma al contempo abbia impreziosito legami stretti in precedenza con persone intorno a lei; tutto cio’ le ha consentito di uscire rafforzata e “risvegliata”. Il dato esperienziale è stato decisivo per ritonificare il suo spirito.

Qui ci avviciniamo al nocciolo della questione: l’ incontro con l’ asperità ci rende più forti. E’ un po’ come se ci mettesse o rimettesse in moto scuotendoci dal torpore che ci avvolge quando le cose filano lisce per troppo tempo. E’ come un tornare al mondo, in un mondo dove possiamo fare incontri che riattivano la nostra umanità.

L’ intervento dell’ Ema ha raccolto un certo consenso.

Ma anche qui non mancano i problemi: quel che ha detto l’ Ema, avrebbe potuto dirlo anche un ateo. Parola per parola. E perché no?

Calma, non mi sono dimenticato del libro, ci arrivo; ho solo fatto questo preambolo perché Jonathan Haidt, nello svelarci il “senso della vita”, ripete paro paro quello che, a quanto pare, per molti intervenuti al “gruppetto” sembra bastare.

Solo che Haidt è un ateo doc e parla unicamente quel linguaggio positivista che i ciellini reputano insufficiente a descrivere l’ umano.

Il libro di cui parliamo è appassionante perché oltre a costituire un resoconto scientifico, ci riferisce le vicissitudini esistenziali dell’ autore. Veniamo a sapere di come il giovane Haidt considerasse sterile la filosofia contemporanea inaugurata di Wittgenstein, disinteressata com’ era a una comprensione profonda della natura umana. Sono inconvenienti che capitano quando si trascura la psicologia in favore della logica.

Fortunatamente, da qualche tempo, le cose sono cambiate e l’ indagine sul “senso della vita” ha riguadagnato la scena.

La nostra vita, dice Haidt, è come un film che cominciamo a vedere da metà. Accadono molte cose che non riusciamo a spiegarci ma che sentiamo come dotate di senso. Perché lei ammiccava a lui? Perché il protagonista si trovava lì proprio in quel momento? Eccetera.

Esiste per caso uno spettatore che ha visto il film per intero e che possa illuminarci?

Per Haidt, attraverso il metodo scientifico, possiamo venire a sapere chi era in sala quando si sono spente le luci ed è iniziata la proiezione, dobbiamo rintracciarlo e chiedere a lui.

Purtroppo, per la scienza e per i testimoni che riesce a riesumare, la nostra vita non ha alcun senso. Ma forse si puo’ affrontare una sotto-questione non da poco: “come dobbiamo vivere?”. Come posso avere cioè una vita piena, appagante e… “significativa”?

Non è detto che la domanda di senso (questione principale) sia legata a doppio filo alla sotto-questione. In fondo la seconda ha natura empirica, ed essa, a volte, è risolta brillantemente anche da chi non dà alcun contributo per sbrogliare la prima.

Volendo sintetizzare la monumentale letteratura positivista in merito, direi che per essere felici occorre un “impegno vitale”, preferibilmente nel campo del lavoro o dell’ amore. Per approfondimenti faccio un solo nome: Mihalyi Csikszentmihalyi.

Un “impegno vitale” implica a sua volta relazioni umane forti e ideali alti. Richiede poi che vi sia armonia tra il corpo, la mente e l’ ambiente sociale in cui si vive.  Quando tutto cio’ è presente, le persone percepiscono un “senso” in quello che fanno.

Anche senza alzarsi troppo da terra si puo’ godere di una vista meravigliosa sul mondo.

eifeltower

In più ora sappiamo anche che il dono di sé ha un suo senso dal punto di vista biologico. Il nostro “corpo” non si oppone necessariamente a queste pratiche. Voglio dire, forse non siamo necessariamente dei gretti “egoisti naturali” temperati dall’ ipocrisia come ci dipinge qualcuno.

La ricetta di Haidt e la ricetta dell’ Ema convergono in modo preoccupante. Dico “preoccupante” perché l’ ateo e il ciellino non possono  permettersi abbracci tanto affettuosi.

Cosa c’ è allora che non va?

Forse bisogna concentrarsi sull’ espressione “alti ideali”, uno degli ingredienti imprescindibili nella ricetta scientifica della “felicità”.

L’ ateo li puo’ sentirli ma non puo’ permettersi di pensarli, altrimenti gli svaniscono tra le mani poiché li troverebbe insensati. In altri termini, non puo’ permettersi di “alzare la testa” e ampliare i suoi orizzonti: la scienza, ovvero il suo riferimento, in fondo non assegna nessuno scopo alla sua vita.

L’ Ema, invece, puo’ anche alzare la testa, farebbe male a concentrarsi unicamente sull’ elemento “esperienziale” visto che puo’ permettersi di pensare l’ esperienza per riempirla ulteriormente di senso senza fermarsi a una epidermica sensazione, per quanto appagante.

C’ è la “vita” e la “vita pensata”, ad alcuni basta la prima, altri devono averle entrambe. Le persone non sono tutte uguali, alcune si appagano col piacere che traggono dalle loro esperienze, altre non possono fare a meno di meditarle in modo ragionato. A questi ultimi è difficile impedire di “alzare la testa”. Ecco, Dio e la religione si offrono soprattutto a costoro.

La parabola esistenziale dell’ ateo Jonathan Haidt si conclude con un cambiamento interiore non da poco: oggi, pur rimanendo un incrollabile ateo, ha abbandonato il compiaciuto disprezzo per la religione che aveva a 20 anni. Lo studio della psicologia evolutiva gli ha fatto concludere che la mente umana, molto semplicemente, “percepisce” la divinità, al di là dell’ esistenza o meno di un Dio.

Detto in altri termini, la religione è tremendamente “fitting”, tanto è vero che è uno dei pochi universali accertati.

Come potremmo mancarle di rispetto? 

giovedì 17 novembre 2011

Un pop vincente

L’ opulenta orchestrazione “cubista” sfocia in una fantasmagoria caleidoscopica dai colori fin troppo carichi. Anche le spruzzatine di elettronica dosate ingenuamente finiscono per imbrattare anziché decorare.

Eppure… avercene di gente che osa.

Adorabile voglia di strafare.

Belle le voci: quei cori senza coristi, imperniati su voci soliste eteroclite, a cominciare da quella dell’ efebo Stevens in persona; ne esce una ricca sonorità, un po’ soul nero, un po’ narcosi bianca; ognuno andrà anche per conto suo ma una volta ritoccati con sapienza i livelli in studio ne escono pennellate spesse e spensierate quanto involontarie polifonie microtonali. L’ ideale per passeggiare nei campi di fragole. Belle anche le tarantelle partenopee incrociate con la ballata scozzese; una menzione al breve solo pastorale del sinth, riesce a essere caldo quanto suo nonno: l’ oboe. Qua e là si celebrano matrimoni davvero buffi.

robert crumb

Il pop sinfonico dimostra a ancora una volta la sua schiacciante superiorità intellettuale sul rock sinfonico. Se mai ce ne fosse bisogno.

Genealogia: XTC, Berlioz, Incredible String Band.

Sevens Sufjan – The Age of Adz

mercoledì 16 novembre 2011

Instaurare Omnia in Christo

Luigi Sturzo – appello ai liberi e forti

A Diana che è sempre alla (scettica) ricerca di pretini libertari, potrei proporre il nome di Antonio Rosmini. Ma, mi rendo conto, dobbiamo volare nell’ Ottocento; forse è impresa ardua per ali corte come le nostre.

Allora rilancio con il nome di don Luigi Sturzo.

Come vedi, per trovarne non c’ è bisogno di finire a Salt Lake City da Don Sirico, anche il Bel Paese ne sforna a raffica. Nascono come funghi dopo il temporale. Dai monti al mare, da Stresa a Caltagirone, neii paesini della provincia italica si producono spiriti di prim’ ordine.

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E non sto parlando di figure marginali nemmeno all’ atto pratico.

Sturzo fu colui che nel XX secolo forgiò le regole per un dibattito corretto tra fede e politica. Fu colui che s’ incaricò di traghettare i cattolici italiani nella “modernità” chiedendo loro di occuparsi del “vivere civile” dopo l’ emarginazione del “non expedit” di Pio IX e spronandoli a non chiudersi nel circolo dell’ autoreferenzialità offrendo invece al mondo un’ alternativa valida all’ influenza marxista e socialista.

Ironia della sorte si oppose ai “cattolici liberali” e alla loro pretesa di separare senza residui la sfera politica e quella religiosa:

… sarebbe illogico cadere nell’ errore del cattolicesimo liberale, che reputa la religione un semplice affare di coscienza, e cerca quindi nello Stato laico un principio etico informatore della morale pubblica… anzi, è questo che noi combattiamo quando cerchiamo nella religione lo spirito vivificatore di tutta la vita individuale e collettiva; ma non possiamo con questo trasformarci nei paladini della Chiesa e parlare a nome della stessa…

L’ ossimoro incarnato nel “partito cattolico” era comunque colto con estrema lucidità: il cattolicesimo è religione,  universalità; il partito è politica, divisione.

Che i cattolici si riuniscano allora in quanto spinti da una sensibilità affine e non in quanto congregazione religiosa, né come turba di fedeli.

Nel nome di Sturzo i cattolici si sono uniti in un partito, nel nome di Sturzo hanno intrapreso la loro diaspora nei vari partiti. La grandezza del suo messaggio autorizzava entrambe le soluzioni.

Si staccò da ogni forma di clericalismo e neoguelfismo per costituire il campione del credente che propugna la libertà come metodo.

Libertà religiosa, innanzitutto.

Libertà d’ insegnamento. Fondamentale per chi vede nelle idee e nella cultura il germe di tutti i cambiamenti sociali.

Libertà dalle burocrazie (l’ esilio in Inghilterra e i viaggi negli usa gli regalarono certezze adamantine in merito).

Libertà dal centralismo. Nulla fa maturare un popolo quanto l’ auto-governo.

Libertà dai partiti. Sentirlo denunciare la “partitocrazia” ce lo fa sembrare un uomo avanti di mezzo secolo.

Per molti cattolici la “centralità della famiglia” è un modo come un altro per chiedere sovvenzioni. Per Sturzo sembra quasi un concetto che faccia le veci dell’ “individualismo”: lasciate che la famiglia esprima tutte le sue potenzialità, non intralciatela, non imbrigliatela, non esautoratela.

La questione meridionale gli permise di denunciare la “cultura del piagnisteo” fatta di arroganti braccia tese e sonorizzata da un querulo quanto incessante “domandare”.

Rideva, poi, sulla tesi che riduceva queste emergenze a una questione di “lavori pubblici”. Sentiva piuttosto la mancanza di una classe borghese fattiva e autonoma, di un club intellettuale al passo con i tempi. Preoccupante e sintomatica, poi, la prevalenza in quelle terre degli studi a indirizzo giuridico, segno inequivocabile di decadenza per un popolo; almeno quanto la latitanza dello studio dell’ economia politica. Arrivò persino a indicare come fonte di guai la penuria di ebrei nella storia del nostro Mezzogiorno: la loro laboriosità amorale è proprio cio’ di cui si sente la mancanza.

L’ analisi del Mezzogiorno si salda con la denuncia del “parlamentarismo”, ovvero la degenerazione dei costumi elettorali che gravitano su masse mai emancipate dall’ influenza paternalistica del campanile. Un sentimentalismo mercanteggiante particolarmente pernicioso in politica.

Non poté mai sopportare l’ aria greve dello statalismo, la nuova religione laica che sostituisce il popolo a Dio.

Lo Stato soffre di elefantiasi, te lo ritrovi ovunque, persino nel cinema! Persino… nell’ Accademia di Santa Cecilia! Assurdo, tutto questo preme sulla carotide di don Luigi e lo soffoca.

Le colpe del fascismo sono grandi, ma quelle dell’ anti-fascismo non sono da meno: con loro lo statalismo, non solo non è stato rinnegato, ma ha fatto passi da gigante.

Secondo il prof. Rossi, don Luigi è un liberista manchesteriano di cento anni prima. E questo solo perché non smetteva mai di denunciare il noto vizietto:

… l’ economia italiana è solo apparentemente di mercato… l’ imprenditore gira le perdite appena puo’ avvalendosi dei metodi più fantasiosi… lo Stato, da par suo, sembra sobbarcarsi l’ onere più che volentieri visto che cio’ gli consentirà di espletare in modo meno goffo quella che sente come la sua missione dirigista…

Il guaio è psicologico: abbiamo perduto il “senso del rischio”. Perdita grave:

… al verificarsi di eventi spiacevoli, i licenziati inscenano subito manifestazioni, scioperi, occupazioni che costringono quasi sempre a un ritiro dei provvedimenti… e non certo per una benevolenza padronale… anzi, il padrone entra velocemente in questo ordine di idee e usa l’ arma dei sindacati operai, nonché le deputazioni politiche a cui ha accesso, per costringere ministeri e governo a intervenire…

Pensierini da “nemico del popolo” sulla Fiat:

… la Fiat non puo’ fallire?… fatta l’ ipotesi si crea di botto una psicologia per cui lo Stato è tenuto a intervenire e garantire tutte le intraprese che andranno male… presto non ne resterà una in piedi… Se la Fiat, nonostante tutti gli aiuti e protezioni, andasse male… e io fossi qualcosa nel Governo italiano… sequestrerei tutti i beni degli azionisti della Fiat per fare fronte al disastro… manderei in galera gli amministratori responsabili affidandomi a abili liquidatori… la nuova Fiat verrebbe su sana e senza debiti… Gli operai licenziati sarebbero messi alla pari degli altri disoccupati, per i quali lo Stato provvede nei limiti delle sue possibilità… curando che nessuno muoia di fame ma chiarendo che nessuno puo’ rivendicare particolari diritti… e che Dio disperda questa profezia…

Al disastro Nuovo Pignone di Firenze il santissimo sindaco La Pira reagì e invocò soluzioni ben diverse incorrendo negli strali infuocati del poco mistico don Luigi. Lo scambio epistolare tra i due edifica gli spiriti e fa comprendere come “ragione religiosa” e “ragione politica” abbiano un bem labile collegamento.

Con questo non si puo’ nemmeno dire che don Luigi fosse un “liberista manchesteriano” di cento anni prima, era solo un pretino a cui piaceva alternare “sogni” e “piedi in terra” e che in politica, negli affari e nelle pratiche comuni della vita di tutti i giorni si atteneva a quello che, specie dopo i suoi esili anglosassoni, considerava il principio più adatto a governare quei casi: un sano relativismo. 

 

 

 

martedì 15 novembre 2011

Giardiniere o Architetto?

Come cambia il mestiere del compositore:

My topic is the shift from 'architect' to 'gardener', where 'architect' stands for 'someone who carries a full picture of the work before it is made', to 'gardener' standing for 'someone who plants seeds and waits to see exactly what will come up'. I will argue that today's composer are more frequently 'gardeners' than 'architects' and, further, that the 'composer as architect' metaphor was a transitory historical blip. Leggi tutto.

Si passa dal Disegno Intelligente a una sorta di evoluzionismo dove la ragione procede un po’ a tentoni producendo il poco che si propone ma soprattutto il molto che non si propone.

Chi non riscontra affinità con l’ epistemologia moderna? L’ aspetto “vegetale” spunta ovunque.

Kim Sun Hyuk

Le versioni più radicali dell’ approccio sono le “composizioni istantanee”.

Penso subito alle conductions di Butch Morris.

lunedì 14 novembre 2011

Pensar narrando

Da Paolini a Lucarelli, raccontare la realtà avvalendosi della “fabula” è pratica invalsa. Vanno di moda le inchieste con suspence, la Gabanelli miete ascolti.
Ma attenzione, questo metodo espunge a viva forza dalla realtà il suo tratto più tipico: il “casino”!
La realtà non si rispecchia nella melodia filante del racconto, assomiglia piuttosto a un contrappunto.
Il “casino” è un sabotaggio al racconto, un affronto alla teatralizzazione. Il casino non è compatibile con le “storie”, eppure è essenziale per capire:
…we should be suspicious of stories. We’re biologically programmed to respond to them. They contain a lot of information. They have social power. They connect us to other people. So they’re like a kind of candy that we’re fed when we consume political information, when we read novels. When we read nonfiction books, we’re really being fed stories.
…So what are the problems of relying too heavily on stories? You view your life like “this” instead of the mess that it is or it ought to be.
…narratives tend to be too simple. The point of a narrative is to strip it way, not just into 18 minutes, but most narratives you could present in a sentence or two. So when you strip away detail, you tend to tell stories in terms of good vs. evil, whether it’s a story about your own life or a story about politics.
…As a simple rule of thumb, just imagine every time you’re telling a good vs. evil story, you’re basically lowering your IQ by ten points or more. If you just adopt that as a kind of inner mental habit, it’s, in my view, one way to get a lot smarter pretty quickly…
Another set of stories that are popular - if you know Oliver Stone movies or Michael Moore movies [… o un’ inchiesta della Gabanelli?…]. You can't make a movie and say, "It was all a big accident." No, it has to be a conspiracy, people plotting together, because a story is about intention. A story is not about spontaneous order or complex human institutions which are the product of human action but not of human design. No, a story is about evil people plotting together. So you hear stories about plots, or even stories about good people plotting things together, just like when you're watching movies. This, again, is reason to be suspicious…… leggi tutto.



Silviu Szekely

L’ altruista al gabinetto

Samuel Bowels Herbert Gintis – A cooperative species. Human recoprocity and its evolution

A quanto pare c’ è gente che mantiene una condotta moralmente ineccepibile anche al gabinetto, quando nessuno vede.

Tutto cio’ è a dir poco imbarazzante, specie per un darwiniano duro e puro. Come spiegarlo?

Il darwiniano ci prova, beninteso. Punta sui “segnali” e sulle “assicurazioni”.

Dice per esempio che l’ altruista è al suo fondo un ipocrita con secondi fini intento a emettere “segnali” seducenti al fine di procurarsi una rete sociale e una reputazione che consentirà a lui o ai suoi familiari di sfangarla meglio in futuro.

Daje e ridaje, in un ambiente di interazioni ripetute, la strategia dell’ “ipocrita” fa emergere comportamenti altruistici anche in società composte da egoisti.

Molto istruttivo, ma il moralista one shot chiuso in bagno? Verso chi emette i suoi segnali? Con chi sta intessendo la sua rete assicurativa? Eppure è dotato di un’ intelligenza tale che gli consente di capire l’ inanità del suo “moralismo da cesso”.

Le persone possono cooperare perché ne ricavano un reciproco vantaggio (mutualismo), e fin qui la cosa è semplice da spiegare; ma, a quanto pare, cooperano anche con perfetti sconosciuti solo per il piacere di farlo (altruismo). E qui il darwinista si gratta la testa. Come puo’ un tipo del genere sopravvivere al filtro della selezione naturale.

Eppure “un tipo del genere” esiste. E chi non ci crede puo’ verificarne sperimentalmente l’ esistenza: basta digitare su google le paroline “ultimate game”.

Meglio rassegnarsi; e tra i rassegnati annoveriamo oggi personalità di prestigio come i matematici Bowels e Gintis: nel libro hanno smesso di chiedersi se esistono altruisti autentici per chiedersi come mai esistono e si riproducono.

Il loro modello esce dall’ angusto mondo dell’ utilitarismo darwiniano senza per questo rinunciare a baloccarsi con i meccanismi dell’ evoluzione.

Se volete capire come funziona la società umana e per mancanza di tempo siete alla ricerca di un resoconto parsimonioso, mandate a memoria due soli concetti chiave: “mano invisibile” e “dilemma del prigioniero”.

Sociologi, filosofi morali, economisti, sociologi, antropologi, quando arrivano al dunque, non fanno che prendere una posizione sui due punti citati.

La “mano invisibile” di Adam Smith ci spiega come l’ “egoismo” sia “costruttivo” e crei ricchezza. Il “dilemma” di Mancur Olson mostra come l’ assenza di “altruismo” alla lunga sia fatale.

L’ altruista dunque “serve” per superare brillantemente i “dilemmi”, ma come puo’ sopravvivere in un mondo di lupi?

Non ci vuole poi molto per capirlo, giusto tre concetti:

1. competizione tra gruppi;

2. vergogna, ostracismo, boicottaggio;

3. indottrinamento.

I gruppi competono tra loro esattamente come competono i soggetti. Far parte di un gruppo vincente è importante ma un gruppo senza “altruisti” sarà sempre perdente visto che s’ incarta sui “dilemmi”. Ci vuole un mix bene assortito per fare strada.

Gli economisti dimostrano che un sistema di libere interazioni tra egoisti ha un equilibrio ottimale, ma non dimostrano come e se puo’ essere raggiunto. Una cosa è certa: la presenza di altruisti facilità l’ impresa e contribuisce a stabilizzare un sistema siffatto.

Tutto questo gli “egoisti” lo sanno bene e si tengono cari i loro compari altruisti poiché non esiste propellente migliore per sospingere la locomotiva del treno su cui viaggiano.

Ma come li compensano in modo di farli campare (e riprodurre) dignitosamente?

Semplice: svergognando, emarginando e boicottando chi li offende; rendendo poi loro onore attraverso forme di indottrinamento sociale che esaltano i valori incarnati da questa preziosa élite. Dopodiché, non esitano a sacrificarli alla bisogna.

Più che di “altruismo”, allora, abbiamo bisogno di allevare “altruisti” da dare in pasto al Minotauro.

L’ “altruista” sarà anche un aborto dell’ evoluzione, ma il fatto è che viene rianimato, tenuto in vita e fatto riprodurre poiché si scopre quanto sia prezioso il suo apporto nella competizione tra tribù.

Tante tribù, tante guerre, tanti altruisti.

Perché il meccanismo funzioni è necessario che l’ altruista non si accorga di essere “usato” come un veicolo. Ancora meglio se nemmeno l’ egoista è cosciente di “usare” il suo prossimo.

Oltretutto, colpo di scena, la sottile linea che separa altruisti da egoisti non passa tra le persone ma attraverso le persone. Tutti noi siamo divisi più o meno a metà.

Una società prospera solo se incosciente, al punto che delucidazioni in merito devono essere fornite con il silenziatore per non suonare “scandalose”.

L’ ignoranza su questo punto diventa in qualche modo benefica.

Tutto cio’ è leggermente imbarazzante: gli altruisti esistono ma non sono al timone, bensì nel serbatoio, a fungere da carburante; non arriveranno alla meta ma saranno bruciati lungo il percorso; oltretutto, la cosa non puo’ essere detta senza penalizzare gravemente il gruppo in cui siamo imbarcati.

E’ la classica teoria autorimuovente: T1 è vera ma dobbiamo fare come se a essere vera fosse T2.

In questi casi trovo più semplice credere direttamente a T2 abiurando T1. In altri termini, compio la mia scelta epistemologica privilegiando la “semplicità”.

Finale. Se l’ altruismo esiste in natura e la natura puo’ “produrlo”, cio’ ha almeno un paio di conseguenze notevoli.

La prima è politica: l’ anarchia diventa compatibile con la prosperità. Che bisogno avremmo mai di un governo se esiste un senso del dovere che si forma in modo spontaneo grazie ai meccanismi evolutivi? Dai pascoli sulle Ande, alle regole tra balenieri, dalla pulizia dei fiumi alle leggi della filibusta, i casi concreti di produzione spontanea di beni pubblici è molto studiata dagli economisti. Due nomi per eventuali ricerche in rete? Robert Ellikson e (il recente Nobel) Elinor Ostrom.

L’ altra forse è ancor più sorprendente. Secondo la ricostruzione evoluzionistica, l’ “altruismo” si è sviluppato e gli “altruisti” sono stati “allevati” in seno al gruppo grazie all’ ambiente conflittuale in cui il gruppo viveva. Prendiamo un esempio di altruismo estremo, il kamikaze. Che ce ne facciamo se non ci sono guerre da combattere? E se il mondo diventa più pacifico? E se addirittura regnerà una pace universale? Bè, semplice, l’ altruismo e l’ altruista servirà molto meno. Un insulto come “moralista” avrà molto più senso. Un trauma per i molti bigotti ma anche un pericoloso via libera per molti ingenui libertini darwiniani.

Di sicuro un finale triste per i super-eroi che hanno accompagnato l' infanzia di una specie.

Lora Zombie

super sad superheroes

venerdì 11 novembre 2011

L’ inglese come lingua franca della conoscenza

Viene prima il pensiero o l’ enunciato? A volte ho come l’ impressione che la mentalità conti più della lingua:

abstract berry

Dedicato a chi si è perso dentro libri labirintici (in genero italiani o francesi) senza capir bene dove cazzo stessero e quali fossero le tesi sostenute.

giovedì 10 novembre 2011

Lezioni dalla Scandinavia

Vista la vulgata, a molti suoneranno quantomeno inattese:

The scandinavian economies have performed strongly over the past 15 years, leading many to believe that the nordic model defies economic theory – which suggests that bigger government means lower growth and/or a lower level of income.

This report shows that one of the primary reasons for the recent strong performance of the scandinavian economies has been a retreat of government – in terms of public spending, taxation and product market regulation.

Over the 15 years prior to the 2008 great recession public spending fell by more than 20 percentage points of gDP in sweden.The smallest fall in the share of public spending in gDP was in Denmark, where it still managed to fall by 10 percentage points. These are stunning figures.

The reductions in public spending suggest the private sector was being crowded-in, thereby raising productivity and output growth. The scandinavian economies still record the highest tax burdens in the oECD, as a proportion of gDP. However, the introduction of lower actual tax rates – the marginal rate – over recent decades has surely boosted the supply-side of these economies.

Lisa Evansgg

Dicendo che certo “liberismo selvaggio” alla svedese spaventa persino gli inglesi ho detto tutto:

British voters have no stomach for the savage inequalities of Swedish-style laissez-faire.  They won’t tolerate public money going to for-profit schools or health care.  Instead, Cameron has signed on to increasing the top rate of income taxes from 40% to 50%.  Eliminate inheritance taxes?  I don’t think so.  Follow Denmark in privatizing firefighting?  Don’t make me laugh.  The British public likes big government, and they are going to get it.

Ci immaginiamo gli scandinavi come iper-tassatori, ma, almeno per i carichi fiscali aziendali guardate (p.31) dove stanno in classifica Danimarca (29%), Svezia (54%). E poi guardate l’ Italia buona ultima (68%). Risultato:

italygdp

Ricordiamoci sempre che la Svezia primi novanta era un paese fallito.

La lezione che traggo è questa: deregolamentare e tagliare sia tasse che spesa, ecco la via; ma occorre anche una cultura adeguata. In altri termini: occorre tagliare molto e in modo convinto dando l’ idea di inaugurare un trend. Il “trend” conta anche più del “livello”.

mercoledì 9 novembre 2011

La sordità del pugno

David Fincher – Fight club

Lo yuppie protagonista della storia è una specie di Faust alla ricerca di un demonietto, lo troverà infine nel bel mezzo di se stesso, annidato in un anfratto periferico del suo cervello.

L’ esistenza del nostro uomo si trascina veloce e stantia al contempo: è inquieto, non sta bene, è rimbambito dai jet lag, non dorme e l’ insonnia gli fa apparire la realtà come una copia di una copia di una copia… di qualcosa di estraneo.

La vita gli scorre accanto senza regalargli né una vera risata né una vera lacrima. E in più sta finendo un minuto alla volta. Che pena per lui morire senza neanche una cicatrice sul corpo. Persino il male che lo consuma è invisibile e asettico come la morte interiore verso cui viaggia a spron battuto.

E’ proprio stufo delle porzioni singole acquistate al supermercato ma soprattutto è stufo di vivere in un mondo che misura la sua civiltà dal consumo di sapone.

E’ continuamente afflitto da vertigini che sono il sintomo di un malessere profondo, ha come l’ impressione di lucidare maniglie sul Titanic.

In questi casi che si fa?

Prima soluzione, ci si dà anima e corpo al consumismo compulsivo: arredamento, camicie, gadget elettronici, scarpe, viaggi. Ikea, Nike, Ferragamo, Brunello, Apple, una bella casa con questo e quello… Le soddisfazioni non mancano, ma non tutti riescono a farsele bastare.

In alternativa ci si dà al volontariato. Quando stai male senza ripercussioni sull’ analisi del sangue, quando stai male senza che nessuno te lo riconosca, di solito ti viene consigliato – con un sorrisino - di dare un’ occhiata a “chi sta male davvero”. E tu alla fin fine ci vai a vedere “chi sta male davvero”.

Ma il demonio ha in serbo per il nostro uomo una soluzione più drastica rispetto ai palliativi del consumismo e del volontariato: la sordità dei pugni.

La scossa delle botte, ecco la medicina: dare ma soprattutto prendere una manica di pugni. Pugni veri, dati a mani nude per far male al prossimo. Dati senza motivo se non quello di nuocere.

Il pugno è un anestetico eccellente, la sua sordità ti isola, ti fa toccare il fondo in questa dimensione per risvegliarti in un’ altra. Toccare il fondo non è un ritiro spirituale, non è un seminario a cui presentarsi col libro di testo; è un’ esperienza incandescente che ti chiede solo di lasciarti andare e vivere: quando un pugno ti investe è la vita stessa a investirti.

Dopo che hai incassato un pugno niente è risolto ma niente più importa. Chi l’ ha capito si fiuta e si mette in branco; si formano delle bande che è un’ unica grande banda: il Fight club.

Il cameratismo degli iniziati al mistero eleusino della violenza conduce dapprima la banda di cavernicoli a rituali seriosissimi con grida isteriche da chiesa pentecostale, poi a veri e propri sabba dove risse e orge sono indistinguibili; infine a un teppismo da samurai nichilisti, a un’ arancia meccanica con gli orologi perennemente sincronizzati che prima o poi la combinerà grossa, allo sprofondamento di ogni membro verso un rassicurante anonimato: tu sei solo i pugni che dai e che prendi.

Senza contare che se sai dare e incassare pugni, riesci a incassare anche altro, per esempio originali finanziamenti per il “progetto”, roba che il timido impiegato soggiogato dai capi quale eri nella vita precedente mai si sarebbe sognato:

La stoica combriccola del Fight club ama avvolgersi in un fascio coeso. Si pensa al tradimento della “razza scelta” con obbrobrio. Chi esce dal solco demoniaco è un infame da castigare. Mmmm… che rabbia, si sparerebbe una palla negli occhi di ogni panda che si rifiuta di fottere per diffondere la specie.

Finalmente anche il protagonista prova quell’ emozione vitalistica di sentirsi materia organica in decomposizione. Proprio cio’ di cui era in cerca. Ora anche lui ha un prezioso Golgota da salire, un fiotto di sangue da spruzzare, un sacrificio da compiere, qualcosa di bello da imbrattare.

Sono i suoi dieci minuti da dio.

Poi la retromarcia, ma forse è tardi.

Finirà tutto con una pistolettata chirurgica dalla bocca al lobo, ma parlo del lobo giusto sito nell’ emisfero corretto; una specie di semi-suicidio. Roba che se non te la spiega Oliver Sacks in persona non la capisci.

The Departure of the Witches boing

(sabba)

Tre le questioni sul tappeto messe dall’ intellettuale che guarda i film col cervello sempre sintonizzato su filosofia, sociologia e altri accademismi:

1. Identità. La stessa persona interpretata contemporaneamente da due attori diversi ha fatto storcere il naso. Personalmente trovo invece che la soluzione faccia scena, non per niente sono sempre di più i film che vi ricorrono. Inoltre è credibile: dentro siamo sempre almeno in due, inutile illudersi (e come si tratta per andare d’ accordo con se stessi!). Ci vuole poco per accorgersene, basta cercare di smetterla col caffé o la panna sulle fragole.

2. Consumismo. Il film voleva essere un atto d’ accusa; ne esce invece un’ apologia conforme, per esempio, alle tesi espresse anche qui, ovvero: visto quante forze malvage libera la rottura di quel prezioso vaso di Pandora che è il consumismo?

3. Violenza. A volte sembra adombrata una funzione catartica della violenza. Non scherziamo, la psicologia ormai nega simili ipotesi: violenza genera violenza, altro che sfogo salutare e catarsi.

martedì 8 novembre 2011

Il dilemma del ridistibuzionista etico

Chi ha, dia a chi non ha. A orecchio suona bene.

Ma… ma.

Una domanda che faccio in tutta sincerità soprattutto a chi considera la famiglia il fulcro della società:

- ritenete voi auspicabile un decreto che costringa il fratello benestante a versare parte della sua ricchezza in favore del fratello meno abbiente?

Stabilire le “soglie” è presto fatto,  non è quello il problema.

Ma al di là delle “soglie”, io prevedo che una legge del genere venga considerata “ripugnante” dalla maggioranza delle persone. Tanto è vero che non esiste e che nessuno si sogna di chiederla, neanche anche tra chi esalta la famiglia.

I motivi possono variare.

La domanda sorge spontanea: perché cio’ che non si ritiene debba valere tra fratelli poi si pretende debba valere tra sconosciuti?

Eppure noi tutti riteniamo che il vincolo familiare sia di gran lunga più impegnativo, tanto è vero che ogni giorno consideriamo accettabile lasciar morire molti sconosciuti che potremmo facilmente salvare, mentre saremmo orripilati se lo stesso atteggiamento ci fosse tra familiari.

Frogner Park

Il mistero s’ infittisce.

Ma questo non è l’ unico paradosso del “ridistribuzionismo etico”.

Il “ridistribuzionista etico” predica il suo vangelo urbi et orbi, sembra che tenga tremendamente alla cosa, salvo poi scoprire che non si ritiene particolarmente impegnato a “ridistribuire” la sua ricchezza personale quanto quella altrui. Tanto è vero che mediamente è meno generoso del non-ridistribuzionista (link1 link2).

Come mai?

La matassa è ingarbugliata, provo a sbrogliarla con un esperimentino.

Pensiamo a una popolazione composta da quattro anime; le nomino in ordine di ricchezza: 1. Giovanni 2. Mauro 3. Luigi 4. Sandro.

Dovendo pescare tra costoro un soggetto con propensioni “ridistribuzioniste”, su chi cadrà la scelta dello scommettitore razionale che conosce la letteratura sull’ argomento?

Risposta ingenua: Sandro.

Risposta corretta: Mauro.

E dovendo invece pescare un acerrimo non-ridistribuzionista?

Risposta ingenua: Giovanni.

Risposta corretta: Luigi.

Già, su quattro elementi il più voglioso di trasferire ricchezza è il secondo e il più riluttante è il penultimo.

Poiché la ridistribuzione è un flusso di ricchezza che va innanzitutto da chi sta più in alto a chi sta più in basso, l’ invidia, molto più che la generosità, spiega l’ esito dell’ esperimento: il “secondo” di solito è animato da intenti punitivi nei confronti del “primo” mentre il “penultimo” teme di essere avvicinato dall’ “ultimo”.

Misteri e stranezze cominciano a dissolversi e i conti ora quadrano un po’ di più.

lunedì 7 novembre 2011

Best statistic question ever

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In realtà ce n’ è una ancora più bella: quella con c=0

p.s. per ora non metto il link per non rovinare il divertimento.

“Mettere le mani in tasca agli italiani”

Quando un grezzo politico italico, di quelli che circolano in questa epoca storica, se ne esce con questa grezza espressione, c’ è sempre un grezzo intellettuale italico, di quelli che circolano da sempre, che si frega le mani fiutando l’ ottima occasione per “indignarsi” e reclamare la scena avocando a sé la telecamera per un bel primo piano stretto che consenta di diffondere al meglio l’ invito a un lavacro purificatorio.

Paul Cadden

Dopodiché, con parole altisonanti si dà la stura a un fervorino con il quale magari non si osa intonare il celeberrimo slogan “le tasse sono bellissime”, tuttavia si indulge volentieri alla retorica dell’ “evasore ladro”, altrove nota come “It is your money, stupid”.

Roberta De Monticelli – filosofa in quota rosa, e quindi “microfonata” dai media anche quando va in bagno – non si fa certo pregare allorché le si presenta su un vassoio d’ argento l’ occasione di passare in un lampo da Kant, Locke, Guicciardini (che noia!) ai più eccitanti Lele Mora e Silvio Berlusconi. Ciò le consente si “sentirsi viva” e di immergersi nell’ ombelico del mondo! In realtà, nel parlare del suo libro, non sembra aspettare che questo momento. E nemmeno si puo’ dire che la facciano attendere molto visto che la “svolta” dell’ intervista di solito prende corpo appena superata la soglia dei primi quindici secondi:

Sarà la verve concitata, sarà lo scatenamento dell’ affamato davanti a tavole imbandite, saranno le luci della ribalta, saranno – che ipotesi cafona! - le idee un po’ confuse; sta di fatto che non si capisce più niente su “chi prende dalle tasche di chi” in materia di tasse.

Alle “indignate” interiezioni dell’ Amazzone, forse la migliore replica viene da Jerry Gaus – filosofo fuori da ogni “quota”, e quindi nemmeno tradotto, figuriamoci se intervistato – che dal monumentale The Order of Public Reason ci fa sapere a proposito di tasse e di “chi prende nelle tasche di chi”:

If the state is in the business of determining the shape of property, it may seem that everything it does – including taxing as it sees fit – is part of this job of specifying property rights. If so, it might appear that nobody could be in a position to argue that the state is taking away his property since until the state specifies it, there really is no effective right to property. There is, in this way of thinking, no Archimedean point outside of the state’s determinations of your property rights (or any other rights?) from which to criticize the state’s legislation, in particular its revenue legislation, as taking away what is yours, for its decisions determine what is yours.

This conclusion does not follow from recognizing that effective property rights are conventional and depend on the state. All laws are to be justified. This justification occurs against a background of one’s already justified rights, what I have called the order of justification. Now property rights, if not the most basic rights in the liberal order of justification, are certainly prior to many state laws and policies such as, say, funding museums. Hobbes, Locke, Rousseau, and Kant all recognized that distinguishing “mine” and “thine” is one of the first requisites of an effective social order. In seeking to fund museums, representatives of the state cannot simply say that citizens have no entitlement to their incomes because they, the representatives, determine property rights, and so they may tax for these purposes without justification. “Without us, there would be no property, so you have no property claims against us!” Once property rights have been justified, they form the background for further justifications; they can be justifiably overridden in order to tax, but this must be justified.

Chi avrà ragione?

Per ora accontentiamoci di avere le idee un po’ più chiare.

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sabato 5 novembre 2011

Cedette colei che era già da molto vinta

Christopher Marlowe – Ero e Leandro

La poesia narrativa elisabettiana ferma sulla pagina una delle eroine più espressive di Ovidio per farla soffrire e godere ben oltre i pudici limiti consueti.

Dalla torre in cui vive in compagnia della laida nana che le fa da nutrice, la bella teme che, oltre la bufera, sia qualche sgualdrina a trattenere l’ amato supposto infedele.

Ma ostacolo invalicabile all’ unione è soprattutto il voto di castità che vincola la sacerdotessa di Venere. La passione sarà tale che le angustie e le prudenze sociali verranno ben presto smantellate.

Seguendo le intime transizioni dal desiderio al timore, impariamo che le dolci tenerezze d’ amore sono inseparabili dalla percezione umiliante della violenza.

La musa spossata di questa voce proto-decadente è prodiga di altri insegnamenti, esempio: il destino è più potente dell’ amore e ben presto ammorbidisce i rigori inflessibili dell’ allucinata gioventù.

Marlowe non esita un attimo ad aggirare la pedante conclusione tragica della leggenda per sprofondare il tutto nella vertigine di un gorgo singolare dove tragedia, desiderio, amore, gloria, bellezza si mescolano confondendosi in modo che i protagonisti superino i limiti umani per finire chissà dove.

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Psicologia e trascendenza amorosa traboccano da ogni pagina:

Come ci s’ innamora?

… fissandola smarrì la vista nel suo volto…

Potere dello sguardo:

… la sua vista disacerbava il bifolco più rozzo… il barbaro guerriero tracio, mai intenerito, s’ inteneriva…

Pendere dalle labbra dell’ amata:

… rapiti, le sentenze attendevano dai suoi occhi sdegnosi…

Come si cura il mal d’ amore?:

… c’ è chi sospira, chi s’ infuria… e chi compila satire mordaci… ma ahimè, troppo tardi… poiché mai in odio si muta amore…

Arredamento di alcova e vestiti:

… ovunque sula maiolica e la batista Dèi travolti in orge inebrianti e satiri estasiati da incesti e stupri…

Riconoscere il vero amore:

… quando la ragione domina, l’ amore è scarso… chi mai ha amato se non al primo sguardo?…

Dialogo tra innamorati:

… si parlano gli amanti esprimendosi col tocco delle mani: muto è il vero amore… i segni silenti impigliano i vinti cuori… a ogni parola ella il volto distoglie e sempre lo contrasta quando non desiste…

Contro la castità:

… come le auree corde stonate, inasprite vibrano le donne a lungo rimaste intatte… se usati i vasi d’ ottone brillano vivaci… e dove la differenza tra la ricca miniera e il vile terriccio?… le donne sole periscono come case abbandonate… l’ “uno” non fa numero… solo Pallade dai seni di selce fu fatta per la vita solitaria… se troppo difesa la beltà trascolora nel grigio… castità… insensati uomini la considerano virtù, ma quale virtù è nativa? Ancor meno le si puo’ attribuire onore: l’ onore lo si conquista con atti…

Appena prima del sì:

… rifiutò in modo da non toglierli ogni speranza offrendosi con sguardi dal diniego cedevole… il che d’ improvviso accese in lui il vigore dell’ eloquio e della supplica…

Appena dopo il sì:

… la di lui scimmiesca esultanza…

Amore corrisposto:

… soavi sono i baci, gli abbracci soavi, quando s’ incontrano impulsi e aneliti somiglianti… laddove la bilancia segna equivalenti inclinazioni…

Strategia del tira-e-molla:

… mentre parve abbandonarglisi, lo eluse, e quando egli pensò più imminente il successo, simile all’ albero di Tantalo, si ritrasse e pur sembrando prodiga, la verginità serbò… tribolò [Leandro] come Sisifo invano, finché a negoziati teneri non succedette tenero armistizio… sono guerre in cui le donne usano soltanto la metà delle forze… alfine sui frementi seni di lei qualcosa lui disse… e sospirò il resto… mai sovrano custodì un diadema con tanta determinazione quanta ne mise lei per preservare la sua gemma…

Ognuno a casa sua:

… la bellezza dell’ altro che da vicino ravviva, separata e lontana, là dove amava, trucida e rende simili a eredi in esilio…

Bando alla saggezza:

… l’ amore, se avversato, cresce in passione… nulla l’ amante più dei consigli aborre… è un ardente cavallo che sdegna superbo chi gli diriga la cervice… spezza le redini… sputa il morso e scalciando segna il terreno… quanto più lo si frena tanto più lo si sfrena…

Compensazioni:

… Ero si ritrasse e nel tepido suo posto si distese Leandro… per saggiar quel calore intenso che risveglia le anime in declino come se attingessero a nettare nell’ oro incoppato…

Pre-alba:

… mentre i piedi nudi sgusciano dalle coperte, lui l’ avvince all’ improvviso e come sirena scivola sull’ impiantito; una metà di lei appare, l’ altra rimane celata… la chioma come nube d’ oriente fugace… fece balenare nell’ orrida notte una falsa alba… monito di quella che a breve avrebbe rischiarato l’ onta…

venerdì 4 novembre 2011

Mr. 7 miliardi

L’ altro giorno è nato il settemiliardesimo abitante della terra.

E’ un bambino fortunato poiché è nato in un posto, il nostro pianeta, che non è mai stato ricco come lo è ora.

Mr. 6 miliardi nacque in una casa al confronto molto più povera. E ancora peggio andò per Mr 5 miliardi. Poverissimo, poi, il mondo che accolse Mr. 4 miliardi. Se volete vado avanti.

Speriamo che nasca al più presto Mr 8 miliardi: a quanto pare i bambini portano fortuna e più ne nascono meglio stiamo tutti.

Forse perché è la gente che risolve i problemi e più gente c’ è più problemi si risolvono.

L’ economista di Harvard Michael Kremer è arrivato alla conclusione che la crescita demografica stimola il progresso tecnologico, il progresso tecnologico stimola la crescita economica e – tanto per chiudere il circolo virtuoso- la crescita economica stimola quella demografica.

Fateci caso: se la popolazione mondiale raddoppiasse raddoppierebbero gli individui geniali.

E gli individui geniali non sono una manna solo per i vicini, sono dei tipi che risolvono d’ amblé problemi che toccano un po’ tutti.

I geni, poi, si ispirano reciprocamente e raddoppiarne la presenza quadruplica il loro rendimento. Forse il genio è perfino un po’ “contagioso”. Pensiamo solo alla concentrazione di genio artistico nell’ Italia rinascimentale (leggere Charles Murray, subito!).

La voglia di risolvere certi problemi, aggiungo giusto per Erode/Sartori, viene solo se siamo in tanti: le importanti innovazioni della rivoluzione industriale non sono state implementate finché il bacino di utenza potenziale non è cresciuto a sufficienza. Non me lo invento io, due studiosi della Federal Reserve di Richmond hanno pubblicato il loro studio su una rivista non patinata (leggere l’ AER, subito!).

L’ unica notizia triste è che se tutto quanto ho detto è vero, allora i bambini sono il contrario dell’ inquinamento; cio’ significherebbe che mancano gli incentivi giusti per farne nascere a sufficienza: chi inquina riversa i costi sugli altri, e quindi ci dà dentro più che puo’; ma chi fa bambini riversa benefici sugli altri, e quindi non ci darà mai dentro abbastanza.

Canovaccio

Poiché discussioni sullo specifico delle arti si ripetono sempre, forse puo’ essere prezioso stenderne un canovaccio, magari per evitarlo la prossima volta:

1. Tu proponi una teoria dell’ arte (es. quella del 50 genio 50 tecnica).

2. Io cerco di confutarla facendo presente che la presenza di artisti come X e Y è incompatibile con quella teoria.

3. Tu ribatti che X e Y non sono artisti, o comunque non sono artisti degni di considerazione.

4. Io faccio presente che la critica li ha consacrati come tali.

5. Tu dici che gli “esperti” da cui emergono i “verdetti della storia” non sono competenti poiché solo gli artisti stessi hanno diritto di parola quando si entra nel merito.

6. A questo punto io ritengo confermata la mia tesi visto che l’attacco al buon senso di cui al punto 5 gioca a mio favore. Con questo nessuno esclude che tu possa aver ragione.

Mi sembra tutto chiaro, forse vale la pena chiudere con l’ ennesimo esempio. Prendiamo Ernst Gombrich, è ritenuto il più grande critico d’ arte che il Novecento ci ha regalato, ma poiché non sa tenere in mano un pennello e non sa schizzare un’ anatomia credibile, secondo te non ha diritto di parola e le opinioni che coagula cono prive di fondamenta quanto il consenso che fa emergere grazie alla sua analisi.

Cosa aggiungere? Nulla, mi ritengo soddisfatto e penso di aver così dimostrato la mia tesi nel modo più trasparente. Cio’ non toglie, ripeto, che tu possa sempre essere dalla parte della ragione quando dici che Gombrich o chi per lui  non capisce niente d’ arte.

In conclusione mi sembra necessario avvertire di un doppio rischio.


Il primo consiste nel confondere i propri gusti personali con i fatti. A uno puo’ anche non piacere l’ arte contemporanea (Dubuffet, Queneu o Braxton che sia) ma non puo’ dire che non esiste o sia di serie B solo per eludere i problemi che incontrano le sue formule quanto tenta una definizione dell’ arte stessa.

In secondo luogo non bisogna confondere l’ arte con la sua produzione. Certe “ricette” riguardano la produzione più che l’ estetica. Occorre separare i due domini per operare con ordine. La comprensione di un suono o di un segno è cosa ben diversa dalla sua produzione materiale.

giovedì 3 novembre 2011

Invidiosi e riduzione del danno

Robert Frank condivide l’ idea che la competizione per lo status si è spostata sui consumi.

Una volta ci facevamo belli ostentando i muscoli, oggi ci facciamo belli ostentando i nostri consumi. Per questo abbiamo bisogno di renderli particolari.

Da ciò consegue il fatto che l’ overconsuption implichi uno spreco di risorse recuperabili via tassazione. Ha scritto anche un libro sull’ argomento.

Stornare la competizione dai consumi alla produzione puo’ anche essere una buona idea, ma attenzione a non esagerare:

Competition for status is inevitable.

If people can not compete with wristwatches and cars, they will compete in other ways. Think about schools or prisons. Both of these places contain a lot of status competition, and there is a lot of anxiety as the strong ridicule and bully the weak, often using physical violence. Yet, these are also materially egalitarian societies, where differences in wealth are slight relative to 'real life'.


Reducing consumption inequality would not diminish status competition but rather channel it to less benign spheres. When a wealthy jerk buys a new Porsche or adds on to his summer cottage, this is much less annoying to me than the annoying jerks I knew in school (or conceive of in prison). Socialist countries where workers were not so material different had as much stress and anxiety than any Western country, which probably is why there is so much alcoholism in Cuba and Russia.

Bohemians and scribes like to think that if there was no material wealth there would be no stress, but really they are thinking: if we competed purely on intellectual grounds, I would be on top!… leggi tutto

yuki-matsueda-sculpture