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...stasera la miri si esibisce.
venerdì 6 giugno 2008
Lo scienziato che non sopravvalutò la realtà
Gregory Clark è forse uno dei massimi malthusiani in circolazione. Una razza quasi estinta.
In quanto tale è in grado di parlare con semplicità e rigore del paradigma che professa. Lo fa ancorandolo a due minuscole ipotesi:
1) fertilità e mortalità in una società umana, rispettivamente, crescono e decrescono con il tenore di vita presente;
2) il tenore di vita di una società decresce al crescere della popolazione.
Ho parlato di "società umana". Non ne avevo bisogno: anche gli animali sono sottoposti all' assioma ferreo. Tanto è vero che le leggi economiche di Malthus valgono anche per l' economia animale. Anzi, per gli animali valgono ancora oggi.
L' uomo invece, dopo la "rivoluzione industriale", sembra essersi affrancato dalla "trappola malthusiana". Ma fino ad allora il paradigma della scienza triste calzava a pennello e spiegava più o meno tutto anche per il bipede eretto.
Il reverendo Malthus scrisse il suo saggio epocale per attacare il padre, un fervente seguace delle utopie di Godwin e Condorcet. I due eroi paterni ritenevano che miseria, infelicità e vizio, fossero l' amaro frutto dei cattivi governi. Un po' come lo riteniamo noi oggi dandolo per scontato.
Malthus - ricordo che scriveva e conduceva le sue battaglie intellettuali alla fine del XVIII secolo - voleva introdurre spiegazioni che aderissero meglio ai fatti della storia: la povertà non era causata dalle istituzioni e inane risultava quindi qualunque riforma delle stesse. Con il suo martello picchiava sempre su questo punto.
Le conseguenze erano vaste e strabilianti.
Le redistribuzione di ricchezza verso i poveri avrebbe avuto un' unica conseguenza: più poveri. Una proliferazione che avrebbe comportato salari decrescenti e maledizioni a non finire per le generazioni successive.
L' illuminismo del tempo sembrava convinto, la logica malthusiana era ferrea e confermata. Ricardo: "... le leggi della povertà sabotano le loro stesse benevole intenzioni, non alleviano le sofferenze dei poveri ma aggravano la condizione di poveri e ricchi... ".
Nella logica malthusiana tutto cio' che è cattivo per noi è buono per i nostri figli. Una guerra disastrosa oggi, fonderà la prosperità di domani. Sfoltire la popolazione è il mezzo più sicuro per accrescere il benessere dei superstiti. Prima dell' 800 era anche l' unico mezzo per farlo.
Gli esempi non si contano, ne faccio uno macroscopico: la peste nera del 1348 ridusse drasticamente la popolazione europea garantendo il relativamente elevato tenore di vita di cui cui godettero le generazioni del secolo successivo.
Il lusso, lo spreco, la stravaganza dei sovrani... sono tutti elementi che non incidono sul benessere del cittadino medio.
In quanto tale è in grado di parlare con semplicità e rigore del paradigma che professa. Lo fa ancorandolo a due minuscole ipotesi:
1) fertilità e mortalità in una società umana, rispettivamente, crescono e decrescono con il tenore di vita presente;
2) il tenore di vita di una società decresce al crescere della popolazione.
Ho parlato di "società umana". Non ne avevo bisogno: anche gli animali sono sottoposti all' assioma ferreo. Tanto è vero che le leggi economiche di Malthus valgono anche per l' economia animale. Anzi, per gli animali valgono ancora oggi.
L' uomo invece, dopo la "rivoluzione industriale", sembra essersi affrancato dalla "trappola malthusiana". Ma fino ad allora il paradigma della scienza triste calzava a pennello e spiegava più o meno tutto anche per il bipede eretto.
Il reverendo Malthus scrisse il suo saggio epocale per attacare il padre, un fervente seguace delle utopie di Godwin e Condorcet. I due eroi paterni ritenevano che miseria, infelicità e vizio, fossero l' amaro frutto dei cattivi governi. Un po' come lo riteniamo noi oggi dandolo per scontato.
Malthus - ricordo che scriveva e conduceva le sue battaglie intellettuali alla fine del XVIII secolo - voleva introdurre spiegazioni che aderissero meglio ai fatti della storia: la povertà non era causata dalle istituzioni e inane risultava quindi qualunque riforma delle stesse. Con il suo martello picchiava sempre su questo punto.
Le conseguenze erano vaste e strabilianti.
Le redistribuzione di ricchezza verso i poveri avrebbe avuto un' unica conseguenza: più poveri. Una proliferazione che avrebbe comportato salari decrescenti e maledizioni a non finire per le generazioni successive.
L' illuminismo del tempo sembrava convinto, la logica malthusiana era ferrea e confermata. Ricardo: "... le leggi della povertà sabotano le loro stesse benevole intenzioni, non alleviano le sofferenze dei poveri ma aggravano la condizione di poveri e ricchi... ".
Nella logica malthusiana tutto cio' che è cattivo per noi è buono per i nostri figli. Una guerra disastrosa oggi, fonderà la prosperità di domani. Sfoltire la popolazione è il mezzo più sicuro per accrescere il benessere dei superstiti. Prima dell' 800 era anche l' unico mezzo per farlo.
Gli esempi non si contano, ne faccio uno macroscopico: la peste nera del 1348 ridusse drasticamente la popolazione europea garantendo il relativamente elevato tenore di vita di cui cui godettero le generazioni del secolo successivo.
Il lusso, lo spreco, la stravaganza dei sovrani... sono tutti elementi che non incidono sul benessere del cittadino medio.
Una persona che viene al mondo è sia un cervello per pensare che una bocca da sfamare. Nell' uomo post-mathusiano il bene del cervello pesa mediamente di più rispetto al costo della bocca.
Ma questo è vero solo da un secolo e mezzo. E Gregory Clark s' interessa di almeno 4 millenni. Malthus poi quel secolo e mezzo non l' ha mai visto.
Per fortuna anche il tempo di Malthus era abitato da preveggenti ispirati che non stavano lì con il bilancino a verificare la propria visione.
Il grande Adam Smith invocava con passione un governo che abbassasse le tasse e liberasse i commerci. Era alla ricerca insomma di un buon governo.
Eppure questi suggerimenti che oggi ci appaiono saggi, erano del tutto svincolati dalla storia: politiche del genere erano già state attuate, ma l' economia malthusiano le aveva inchiodate: il governo non puo' influire sul benessere se non nel breve periodo, finchè natalità e mortalità della popolazione ripristinano gli equilibri.
Nonostante cio' Adam Smith si prodrigò nel sagomare la pietra angolare di tutto l' edificio dell' economia moderna. Lo fece in un ambiente che non concedeva credibilità alla sua crezione teorica, lo fece contro le evidenze. E trionfò.
Ma la storia delle scienze economiche non fa che ripetere quella di altre scienze: anche Galileo sostenne le sue teorie contro molte evidenze; si arrese ai fatti? No, insistette.
L' argomento centrale della sua perorazione (le maree) era clamorosamente falso, oggi lo sappiamo. Ma il genio non sopravvaluta i fatti. In lui agiscono prepotenti anche il pregiudizio, la passione e l' ideologia.
Nello studio del metodo scientifico Lakatos e Feyerabend passarono al setaccio l' azione di molti geni creativi.
Fu riscontrata la grande caparbietà con cui difendevano le loro intuizioni.
Altro che "esperimento cruciale"! L' esperimento tanto caro a Popper, nella realtà concreta non è quasi mai esistito. Anche dopo diversi "esperimenti cruciali" dall' esito negativo, molte future glorie tennero il punto con una testardaggine che in molti casi fu premiata.
D' altronde, se la realtà della storia economica dell' uomo è questa, tenere il punto contro i fatti diventa decisivo per fare previsioni sensate. Chissà che diagrammi del genere non siano idonei a descrivere anche altre realtà. D' altronde sappiamo che la logica induttiva, semmai esista, è sottoposta al paradosso del tacchino: il tacchino si reca sull' aia a ricevere il cibo per 364 giorni all' anno. Il 365esimo giorno è il giorno del ringraziamento. Il tacchino torna sul posto forte della sua esperienza statistica, ma quel giorno è lui il cibo per tutti. Lo scienziato geniale non vuole fare la fine del tacchino e sa che una realtà fattuale come quella descritta nel grafico incombe sempre su di noi.
Beati gli ultimi
Gregory Clark ha obiettivi elevati da colpire: tramite un diagramma sferra il suo attacco sotto la cintura ad Hobbes, dopodichè, molto più avanti nel libro, non si perita di aggredire Marx e Dickens. Il primo per il nocciolo del suo messaggio, il secondo per le atmosfere surrettizie sontuosamente ricostruite nei suoi libri e che di fatto svierebbero il giudizio dell' ingenuo lettore moderno su quell' epoca storica.
GC: la Rivoluzione industriale fu essenzialmente un' espansione della conoscenza. Tuttavia, a sorpresa, fu il basso proletariato a trarre i maggiori benefici materiali da queste novità. Nessun gruppo sociale guadagnò quanto il proletariato da questo terremoto, nemmeno i grandi "innovatori".
Sul destino della bassa manovalanza mai nessun falso profeta fu tanto falso quanto lo furono Marx ed Engels.
Dal 1815 i salari reali degli "ultimi" cominciarono a salire inesorabilmente creando ricchezza per tutti. Un' impennata che superava di molto quella della produttività.
Una crescita di cui non godettero di certo nè i capitalisti, nè i proprietari terrieri e nemmeno i lavoratori specializzati.
La diseguaglianza sociale in Inghilterra andò riducendosi, i benefici si concentrarono su chi nell' era pre-industriale era più svantaggiato. Cio' rinforzò l' armonia sociale del Paese. La cosa non si coglie immediatamente leggendo l' amabile Dickens, tantomeno ascoltando deferenti il terribile Marx. In questo senso nessun frutto sortirebbe nemmeno dall' approfondimento dell' analitico Ricardo.
Per far passare questo messaggio non occorrono a GM argomenti logici sofisticati. Basta ricostruire i fatti di un secolo (il diciannovesimo). Il noioso compito viene espletato al cap. 14.
Gli argomenti riguardano semmai il perchè di una simile piacevole sorpresa. GM è prodigo di congetture ma a questo punto è indispensabile la lettura.
I temi affrontati da GM ricorrono anche oggi, la prima globalizzazione non si differenzia poi così tanto dalla seconda, nemmeno per le preoccupazioni che desta.
Dopo alcuni anni in cui l' opinione pubblica si dimostrava apprensiva per gli "ultimi" e per la loro triste sorte all' epoca del mercato esteso, ora le cose si fanno più chiare e, se possibile, la preoccupazione ancora più acuta. Ma riguarda i primi, riguarda il mondo ricco, riguarda noi e la possibilità di essere scalzati da chi, compiacendoci, ci incuteva pietà e facevamo a gara per aiutare con elemosine.
GC: la Rivoluzione industriale fu essenzialmente un' espansione della conoscenza. Tuttavia, a sorpresa, fu il basso proletariato a trarre i maggiori benefici materiali da queste novità. Nessun gruppo sociale guadagnò quanto il proletariato da questo terremoto, nemmeno i grandi "innovatori".
Sul destino della bassa manovalanza mai nessun falso profeta fu tanto falso quanto lo furono Marx ed Engels.
Dal 1815 i salari reali degli "ultimi" cominciarono a salire inesorabilmente creando ricchezza per tutti. Un' impennata che superava di molto quella della produttività.
Una crescita di cui non godettero di certo nè i capitalisti, nè i proprietari terrieri e nemmeno i lavoratori specializzati.
La diseguaglianza sociale in Inghilterra andò riducendosi, i benefici si concentrarono su chi nell' era pre-industriale era più svantaggiato. Cio' rinforzò l' armonia sociale del Paese. La cosa non si coglie immediatamente leggendo l' amabile Dickens, tantomeno ascoltando deferenti il terribile Marx. In questo senso nessun frutto sortirebbe nemmeno dall' approfondimento dell' analitico Ricardo.
Per far passare questo messaggio non occorrono a GM argomenti logici sofisticati. Basta ricostruire i fatti di un secolo (il diciannovesimo). Il noioso compito viene espletato al cap. 14.
Gli argomenti riguardano semmai il perchè di una simile piacevole sorpresa. GM è prodigo di congetture ma a questo punto è indispensabile la lettura.
I temi affrontati da GM ricorrono anche oggi, la prima globalizzazione non si differenzia poi così tanto dalla seconda, nemmeno per le preoccupazioni che desta.
Dopo alcuni anni in cui l' opinione pubblica si dimostrava apprensiva per gli "ultimi" e per la loro triste sorte all' epoca del mercato esteso, ora le cose si fanno più chiare e, se possibile, la preoccupazione ancora più acuta. Ma riguarda i primi, riguarda il mondo ricco, riguarda noi e la possibilità di essere scalzati da chi, compiacendoci, ci incuteva pietà e facevamo a gara per aiutare con elemosine.
giovedì 5 giugno 2008
Strumentalizzare male la felicità
Recenti studi di cui ho parlato anch' io, confermano un solido legame tra possesso di beni materiali e felicità.
Chissà perchè una conclusione del genere mette di malumore chi vorrebbe porre un freno al turbo-capitalismo.
Ma se davvero una reazione del genere esistesse, sarebbe infiondata. A meno che il nemico fosse il fantasma del "consumismo" inteso come mera astrazione filosofica.
In realtà se il legame di cui sopra non esistesse per niente non avrebbero nemmeno senso politiche redistributive in favore dei meno abbienti. Inutile dire che proprio queste sono le politiche preferite da chi poi assiste turbato alla confutazione dell' Easterline paradox.
E' la stessa co-autrice dello studio che lo conferma a Rob Lever:
",,, although backers of the Easterlin theory say it argues against unbridled pro-growth capitalism, Stevenson said the new research could also be used to promote more distribution of wealth.
"A 10 percent increase in income for a poor person will give you the same gain (in happiness) as a 10 percent gain for a rich person but it would cost a lot less," she said.
Accordingly, she said redistributing income from the rich to the poor could increase a country's overall happiness quotient..."
Chissà perchè una conclusione del genere mette di malumore chi vorrebbe porre un freno al turbo-capitalismo.
Ma se davvero una reazione del genere esistesse, sarebbe infiondata. A meno che il nemico fosse il fantasma del "consumismo" inteso come mera astrazione filosofica.
In realtà se il legame di cui sopra non esistesse per niente non avrebbero nemmeno senso politiche redistributive in favore dei meno abbienti. Inutile dire che proprio queste sono le politiche preferite da chi poi assiste turbato alla confutazione dell' Easterline paradox.
E' la stessa co-autrice dello studio che lo conferma a Rob Lever:
",,, although backers of the Easterlin theory say it argues against unbridled pro-growth capitalism, Stevenson said the new research could also be used to promote more distribution of wealth.
"A 10 percent increase in income for a poor person will give you the same gain (in happiness) as a 10 percent gain for a rich person but it would cost a lot less," she said.
Accordingly, she said redistributing income from the rich to the poor could increase a country's overall happiness quotient..."
Trasformare il medico in un proletario
Come si abbassa il costo della sanità?
Abbastanza sempice: si trasformano i medici in proletari. Con tanto di compenso proletario.
Per farlo è sufficiente moltiplicarne il numero.
Magari importandoli dall' estero.
Magari formandoli all' estero e importandoli da lì.
Già con il fenomeno delle badanti si è avuta una compressione del costo infermieristico, un costo che, vista la nostra età media, sarebbe stato altrimenti intollerabile.
La stessa dinamica potrebbe mettersi in moto con i medici. Basta crederci.
Jagdish Bhagwati e Sandip Madan ci credono:
"...This is what the Great Society program did in the 1960s, with imports of doctors whose visas tied them, for specific periods, to serving remote, rural areas. U.S.-trained physicians practicing for a specified period in an "underserved" area were not required to return home.
"... It is time to expand such programs – for instance, by making physicians trained at accredited foreign institutions eligible for such entry into the U.S. But in order to do this, both Democratic candidates will first need to abandon their party's antipathy to foreign trade..."
Abbastanza sempice: si trasformano i medici in proletari. Con tanto di compenso proletario.
Per farlo è sufficiente moltiplicarne il numero.
Magari importandoli dall' estero.
Magari formandoli all' estero e importandoli da lì.
Già con il fenomeno delle badanti si è avuta una compressione del costo infermieristico, un costo che, vista la nostra età media, sarebbe stato altrimenti intollerabile.
La stessa dinamica potrebbe mettersi in moto con i medici. Basta crederci.
Jagdish Bhagwati e Sandip Madan ci credono:
"...This is what the Great Society program did in the 1960s, with imports of doctors whose visas tied them, for specific periods, to serving remote, rural areas. U.S.-trained physicians practicing for a specified period in an "underserved" area were not required to return home.
"... It is time to expand such programs – for instance, by making physicians trained at accredited foreign institutions eligible for such entry into the U.S. But in order to do this, both Democratic candidates will first need to abandon their party's antipathy to foreign trade..."
La scuola è scadente? Affittatela!
Se e come la scuola vada privatizzata è questione sempre contesa. Fiumi di inchoistro sono stati versati sull' argomento (ecco un sito per farsi un' idea).
Naturalmente nessuna soluzione radicale è praticabile.
E allora, avanti con le aristoteliche vie di mezzo. Una di queste è il tutoraggio privato come forma da affiancare alla scuola pubblica.
Sembra funzionare, specie nelle raltà più disastrate.
Estrapolo un passaggio da una recente ricerca della banca mondiale:
"... Tutoring lessons are found to increase test scores in India…mean matriculation rates in Israel…the quality of colleges in which students can enroll in Japan…and student academic performance in Vietnam..."
Qui, qui e qui, maggiori informazioni su aziende entrate in affari in questo campo.
Naturalmente nessuna soluzione radicale è praticabile.
E allora, avanti con le aristoteliche vie di mezzo. Una di queste è il tutoraggio privato come forma da affiancare alla scuola pubblica.
Sembra funzionare, specie nelle raltà più disastrate.
Estrapolo un passaggio da una recente ricerca della banca mondiale:
"... Tutoring lessons are found to increase test scores in India…mean matriculation rates in Israel…the quality of colleges in which students can enroll in Japan…and student academic performance in Vietnam..."
Qui, qui e qui, maggiori informazioni su aziende entrate in affari in questo campo.
mercoledì 4 giugno 2008
Ragioni esoteriche e ragioni essoteriche
Ci sono almeno un paio di ragioni per cui una società organizzata intorno ad istituzioni di mercato abbia buone possibilità di evolvere e raggiungere uno status invidiabile di prosperità
Solo della prima di queste ragioni è lecito parlare con un certo orgoglio, quindi sparo subito tutte le mie cartucce.
Una società informata ai principi borghesi fornisce i "giusti" incentivi affinchè si operi alacremente al servizio del prossimo.
Sebbene in essa la fortuna resti elemento ineliminabile, il merito e il talento vengono spesso premiati quando non esaltati.
Cio' fa sì che merito e talento fioriscano e diano slancio alla costruzione di un bene comune.
Quando parlo di "giusti incentivi" mi riferisco ad incentivi corretti per un soggetto dotato di una natura che non puo' escludere un certo egoismo. Siamo dunque distanti da deleterie farneticazioni utopistiche.
Ma veniamo alle note dolenti.
La seconada ragione è infatti piuttosto infamante e da almeno un secolo ad essa non si puo' più nemmeno accennare. Parlo del darwnismo sociale, un processo che si coniuga bene con le strutture del capitalismo.
Come avviene questo connubio? Semplice: le istituzioni capitalistiche e il successo economico creano disparità di dotazioni tra i componenti della società. Cio' fa sì che nella "lotta per la sopravvivenza" esistano individui più attrezzati di altri e destinati a prevalere.
Se così è, nel tempo, la selezione formerà gruppi sociali sempre più idonei al fine di perseguire ricchezza e sviluppo. Le generazioni successive saranno spurgate della parte più "difettosa" del corpo sociale, della parte più aliena dal successo economico, della parte meno adatta a produrre ricchezza.
Oggi questo non è più vero in quanto la nostra sensibilità non ci consente di accettare questi processi un tempo abituali ed esemplificabili in molte forme.
Esempio, tanto per capirsi: su cinque concepimenti il ricco aveva tre nascite e mezzo, il povero neanche due. Evidentemente cio' era implicato alla disparità nelle dotazioni sanitarie e nell' alimentazione. E' evidente che imponendo una "sanità universale" il processo darwiniano venga smorzato: tutti avranno 2 nascite e mezzo.
Solo della prima di queste ragioni è lecito parlare con un certo orgoglio, quindi sparo subito tutte le mie cartucce.
Una società informata ai principi borghesi fornisce i "giusti" incentivi affinchè si operi alacremente al servizio del prossimo.
Sebbene in essa la fortuna resti elemento ineliminabile, il merito e il talento vengono spesso premiati quando non esaltati.
Cio' fa sì che merito e talento fioriscano e diano slancio alla costruzione di un bene comune.
Quando parlo di "giusti incentivi" mi riferisco ad incentivi corretti per un soggetto dotato di una natura che non puo' escludere un certo egoismo. Siamo dunque distanti da deleterie farneticazioni utopistiche.
Ma veniamo alle note dolenti.
La seconada ragione è infatti piuttosto infamante e da almeno un secolo ad essa non si puo' più nemmeno accennare. Parlo del darwnismo sociale, un processo che si coniuga bene con le strutture del capitalismo.
Come avviene questo connubio? Semplice: le istituzioni capitalistiche e il successo economico creano disparità di dotazioni tra i componenti della società. Cio' fa sì che nella "lotta per la sopravvivenza" esistano individui più attrezzati di altri e destinati a prevalere.
Se così è, nel tempo, la selezione formerà gruppi sociali sempre più idonei al fine di perseguire ricchezza e sviluppo. Le generazioni successive saranno spurgate della parte più "difettosa" del corpo sociale, della parte più aliena dal successo economico, della parte meno adatta a produrre ricchezza.
Oggi questo non è più vero in quanto la nostra sensibilità non ci consente di accettare questi processi un tempo abituali ed esemplificabili in molte forme.
Esempio, tanto per capirsi: su cinque concepimenti il ricco aveva tre nascite e mezzo, il povero neanche due. Evidentemente cio' era implicato alla disparità nelle dotazioni sanitarie e nell' alimentazione. E' evidente che imponendo una "sanità universale" il processo darwiniano venga smorzato: tutti avranno 2 nascite e mezzo.
Il campione nonchè propalatore del darwinismo sociale fu Herbert Spencer. Con i suoi ululati fece di tutto per farsi notare in Europa ma il suo acre messaggio non riuscì a varcare le alpi: la barriera della nascente cultura idealistica si dimostrò invalicabile. Bobbio, nella sua storia della cultura italiana, vede nella neutralizzazione di queste spiacevolezze l' inizio dei rapporti difficile che da lì in poi il nostro paese instaurò con la cultura di stampo scientifico.
Il ruolo che il darwinismo sociale ha giocato nel creare le strabilianti condizioni dell' umanità contemporanea è sottaciuto per pudore ma secondo Gregory Clark è stato di gran lunga superiore rispetto al ruolo delle "giuste istituzioni". Queste ultime hanno cominciato a far sentire il loro influsso solo negli ultimi due secoli e hanno potuto farlo grazie al fatto di agire nei confronti di un' umanità "selezionata".
Il darwinismo sociale opera ovunque ma è particolarmente efficiente nelle società con un germe istituzionale capitalista.
Guardando alla storia dell' uomo questo germe è sviluppato più nelle società agricole rispetto a quelle dei cacciatori e raccoglitori. In particolare dalle società agricole europee e asiatiche. Contano poi anche una serie di fattori legati ai costumi e alle contingenze. Ma qui le cose si complicano e bisogna cedere la parola all' esperto. A GM, per esempio.
Il lavoro di GM, con la mole e la passione dirompente di chi scrive "il libro della vita", si prodiga per sostenere che il darwinismo sociale si è fatto sentire in Europa molto più che altrove. E proprio a cio' l' Europa deve le fortune che l' hanno condotta a conquistare il mondo fino all' imposizione ovunque del suo modello democratico e liberale.
Il ruolo che il darwinismo sociale ha giocato nel creare le strabilianti condizioni dell' umanità contemporanea è sottaciuto per pudore ma secondo Gregory Clark è stato di gran lunga superiore rispetto al ruolo delle "giuste istituzioni". Queste ultime hanno cominciato a far sentire il loro influsso solo negli ultimi due secoli e hanno potuto farlo grazie al fatto di agire nei confronti di un' umanità "selezionata".
Il darwinismo sociale opera ovunque ma è particolarmente efficiente nelle società con un germe istituzionale capitalista.
Guardando alla storia dell' uomo questo germe è sviluppato più nelle società agricole rispetto a quelle dei cacciatori e raccoglitori. In particolare dalle società agricole europee e asiatiche. Contano poi anche una serie di fattori legati ai costumi e alle contingenze. Ma qui le cose si complicano e bisogna cedere la parola all' esperto. A GM, per esempio.
Il lavoro di GM, con la mole e la passione dirompente di chi scrive "il libro della vita", si prodiga per sostenere che il darwinismo sociale si è fatto sentire in Europa molto più che altrove. E proprio a cio' l' Europa deve le fortune che l' hanno condotta a conquistare il mondo fino all' imposizione ovunque del suo modello democratico e liberale.
lunedì 2 giugno 2008
Per fortuna a maggio tutto torna...
Parola di Murolo. Perchè non credergli: se la bellezza è anche verità e se questa per molti è la più bella canzone italiana... Io intanto stongo càa, non mi muovo.
Realisti senza realtà. La vendetta dell' idealista libertario.
L' anatema più celebre contro i libertari fu lanciato dal grande filosofo Thomas Hobbes, l' autore del Leviatano.
Secondo lui l' istituzione statale, per quanto spiacevole, s' imponeva come necessaria.
Fuori dallo stato c' è solo cio' che definiva "società naturale", un ambiente in cui:
"... la vita dell' uomo si fa solitaria, povera, perfida, brutale e breve".
Sono parole immortali. Sono parole passate a prverbio e talmente vicine al buon senso - se solo si pensa ai primitivi - che ormai in pochi si peritano di soppesare.
Restano comunque i libertari e il loro idealismo un po' fanciullesco.
Ma forse il grande realista britannico non aveva visto bene la realtà. Forse non ne aveva nemmeno i mezzi.
Oggi li abbiamo e Gregory Clark è uno dei più abili nel maneggiarli.
Basterebbe osservare "la storia dell' uomo in un diagramma" per notare subito come il tenore di vita dei nostri simili non sia mai significativamente cambiato dalla preistoria al 1800.
Infatti GC lo nota. Ripetutamente. Anche perchè vorrebbe spiegare la singolare vicenda.
Forse è meglio ripeterlo: nell' Inghilterra del 1651 - anno in cui il grande filosofo proferiva il suo motto eterno - non si disponeva di mezzi materiali (case, cibo, vestiti...) granchè superiori rispetto a quelli di cui disponeva l' uomo del medioevo o il babilonese.
Neanche l' introduzione dell' agricoltura, che in molte zone soppiantò la caccia e la raccolta, fu in grado di alzare significativamente il tenore di vita. Il motivo è abbastanza semplice e mi permetto di non soffermarmi su di esso.
Semmai l' agricoltura introdusse alcuni istituti "capitalistici" da cui derivò una forte differenziazione all' interno dei componenti della società. Cominciarono a distinguersi proprietari e lavoratori.
Questa differenziazione distorce la prospettiva con cui guardiamo al nostro passato.
Dai romanzi, dai quadri spesso veniamo a contatto con lussuose tolette, con stoffe di pregio, con vestiti eleganti e quant' altro.
Ma non sappiamo di avere a che fare con un ceto elevato composto da una sparuta minoranza isolatasi grazie ai meccanismi sopra accennati parlado della rivoluzione agricola del neolitico.
In una tribù primitiva niente del genere è riscontrabile, cio' non toglie valore all' equivalenza fatta circa i living standard delle due società.
Secondo lui l' istituzione statale, per quanto spiacevole, s' imponeva come necessaria.
Fuori dallo stato c' è solo cio' che definiva "società naturale", un ambiente in cui:
"... la vita dell' uomo si fa solitaria, povera, perfida, brutale e breve".
Sono parole immortali. Sono parole passate a prverbio e talmente vicine al buon senso - se solo si pensa ai primitivi - che ormai in pochi si peritano di soppesare.
Restano comunque i libertari e il loro idealismo un po' fanciullesco.
Ma forse il grande realista britannico non aveva visto bene la realtà. Forse non ne aveva nemmeno i mezzi.
Oggi li abbiamo e Gregory Clark è uno dei più abili nel maneggiarli.
Basterebbe osservare "la storia dell' uomo in un diagramma" per notare subito come il tenore di vita dei nostri simili non sia mai significativamente cambiato dalla preistoria al 1800.
Infatti GC lo nota. Ripetutamente. Anche perchè vorrebbe spiegare la singolare vicenda.
Forse è meglio ripeterlo: nell' Inghilterra del 1651 - anno in cui il grande filosofo proferiva il suo motto eterno - non si disponeva di mezzi materiali (case, cibo, vestiti...) granchè superiori rispetto a quelli di cui disponeva l' uomo del medioevo o il babilonese.
Neanche l' introduzione dell' agricoltura, che in molte zone soppiantò la caccia e la raccolta, fu in grado di alzare significativamente il tenore di vita. Il motivo è abbastanza semplice e mi permetto di non soffermarmi su di esso.
Semmai l' agricoltura introdusse alcuni istituti "capitalistici" da cui derivò una forte differenziazione all' interno dei componenti della società. Cominciarono a distinguersi proprietari e lavoratori.
Questa differenziazione distorce la prospettiva con cui guardiamo al nostro passato.
Dai romanzi, dai quadri spesso veniamo a contatto con lussuose tolette, con stoffe di pregio, con vestiti eleganti e quant' altro.
Ma non sappiamo di avere a che fare con un ceto elevato composto da una sparuta minoranza isolatasi grazie ai meccanismi sopra accennati parlado della rivoluzione agricola del neolitico.
In una tribù primitiva niente del genere è riscontrabile, cio' non toglie valore all' equivalenza fatta circa i living standard delle due società.
sabato 31 maggio 2008
Che questo mondo rimanga: lo visiteremo insieme alle api
Yves Bonnefoy: le assi curve
Il Poeta sputa sulla terra di Cerere e spalma quel fango sulla tua palpebra basculante. Puoi di nuovo dischiuderla e scorgere cose rinnovate in quella campagna francese dove sei invitato a guardare e a bagnarti nella pioggia.
Passa un bimbo e ridiamo
"...ci piaceva il suo modo d' essere in ritardo
ma come è permesso
quando il tempo cessa..."
Lo pediniamo stregati
"... andava dove non è più nulla che si sappia...
accompagnato da un' ape..."
Sprofondati nella verzura ci aggrappiamo al filamento magnetico di certe prossimità
"...così vicino era quel seno al bisogno delle labbra..."
le preziose sorprese non lasciano vuoti, deambuliamo ubriachi col cuore stracolmo
"...ramo scostato per l' oro del fico maturo..."
la scelta dell' arredamento, uno scoglio dove si sono infrante inaffondabili transatlantici, inossidabili coppie: doppiato
"...i nostri mobili erano semplici come pietre... ci piaceva la crepa nel muro... una spiga da cui sciamavano mondi..."
Un silenzio tutto speciale in quella campagna d' oltralpe da cui emergono voci mai parlate
"... sentivamo la voce che vuole che si ami... come la sentono i delfini giocando nella loro acqua senza riva..."
Se il riposo è costruito con quelle assenze, non c' è fatica che osi ancora esistere
"... dormivamo non sapendoci... e come cercava il sogno nei nostri sonni!..."
Finalmente una bocca che parla, un orecchio che ascolta...
"... le nostre fronti si chinavano una verso l' altra avide di parole che volevamo dirci..."
Il Consiglio dei poeti si scioglie, ha deliberato, la seduta è tolta...
"... o terra,
segno disarmonico, sentieri sparsi...
...che questo mondo rimanga,
malgrado la morte,
stretta contro un ramo ascoltava imperturbabile l' oliva grigia...
la foglia perfetta orlava l' imminenza del frutto...
e tutto restò immobile ancora per un' ora...
l' assenza e la parola restarono unite per sempre nella cosa semplice..."
Fu una notte in cui si moriva con diletto...
"...dileguarsi... come lucentezza e acqua lasciano la mano su cui fonde la neve..."
Timorosi di aver troppo osato recitiamo una filastrocca apotropaica...
"... che le parole non siano
un giorno questi ossami
grigi, che avranno beccato,
gridando, litigando,
disperandosi,
gli uccelli, nostra notte nella luce..."
Poi un urlo che arresta la gravitazione dei pianeti...
"... come cessa il tempo quando si lava la piaga al bimbo che piange..."
Professiamo ancora l' ardente follia della fiducia...
"... con le nostre voci che s' impigliano nel nulla a chiamare un bambino che dovrà venire dal nulla... che attraverserà il fiume del nulla passando di barca in barca... ignario delle rive... annodando lo ieri, nostra illusione, al domani, nostra ombra..."
Istruiti a dovere godremo della bella perdita...
"...tutto cio' che fu così nostro... ma non è che questo cavo delle mani, dove acqua non resta... e possa essere il cielo il nostro modo d' essere... con ombra e colori che si lacerano... con nubi frettolose che hanno viso di bimbo appena nato... lineamenti distesi... prima di subire l' aggressione del linguaggio..."
Dalla penombra a misura d' uomo della campagna, scorgiamo meglio la sorte degli degli spacciati...
"... sposto con il piede, tra altre pietre, quella larga...
che copre Vite, forse... Ed è vero: numerose ne brulicano qui...
che corrono da ogni parte,
cieche per improvvisa troppa luce..."
Passeggiamo senza fretta "... al ritmo lento con cui la pioggia evapora dall' erba..."
si è fatto tardi, è tempo di pregare...
"Alba! Accettaci una volta ancora..."
Piove sulla nostra indifferenza concentrata ad analizzare la ricchezza della folgore che si diffonde nel primo mattino.
Dal fiume quancuno ci osserva ad occhi chiusi...
"... pietre... a cui la corrente ha chiuso gli occhi nella stratta della sabbia..."
Noi retori, arrivati a questo punto della notte...
"... seguiamo la nuda parola con il disarmo e la fiducia dell' agnello a cui si reciderà l' arteria..."
Fermi a decifrare il messaggio dell' uggiosa pioggierella gelata dell' alba...
"... sillaba breve, sillaba lunga, esitazione del giambo...
mentre si prepara il respiro che vorrebbe accedere a cio' che significa..."
Tacere riposati nelle parole di una volta, quelle parlate assolvendo ad un dovere che oggi ci appare improbo... parole...
"... meravigliose e sorprendenti come la neve, quella che cade leggera e non dura..."
Ecco il mattino, alziamo grati gli occhi con un sincronismo senza premeditazione: "lancia il suo brillio finale una stella senza significati da porgerci".
Montiamo la guardia decisi a
"...non abbandonare le parole a chi cancella..."
a bruciarci le labbra non resta che quella parola... e pensare che...
"... avevamo creduto conducesse lontano il sentiero che invece si perde nelle evidenze..."
Poi Yves Bonnefoy mi guarda e con calma espressiva mi espone la sua teologia; si parla di un Dio che passa il suo tempo a stupirsi dell' uomo, a pregarlo in silenzio, a scrutarlo di soppiatto, ad invidiarlo...
"... lì dove il seno si gonfia nel marmo
si meravigliò dello scultore...
... guardando un artigiano accanirsi su un pezzo di legno per scavarne l' immagine del suo dio, dalla quale si attendeva che prosciugasse l' angoscia d' essere...
provò per questa goffaggine un sentimento nuovo... ebbe desiderio di andare presso di lui... nella materia in cui vacilla la speranza... e si appesantì in quel legno abbandonandosi in balia al sogno dell' artista maldestro... da quella nuova immagine attende la sua liberazione... greve è su di lui l' umile pensiero dell' uomo e greve è su di lui lo sguardo appassionato della sua creatura..."
Resi ipersensibili ai significati non osiamo tentare un congedo parlato...
"... ormai è come se le parole fossero un lebbroso...
di cui sentiamo da lontano tintinnare la campanella..."
Passa un bimbo e ridiamo
"...ci piaceva il suo modo d' essere in ritardo
ma come è permesso
quando il tempo cessa..."
Lo pediniamo stregati
"... andava dove non è più nulla che si sappia...
accompagnato da un' ape..."
Sprofondati nella verzura ci aggrappiamo al filamento magnetico di certe prossimità
"...così vicino era quel seno al bisogno delle labbra..."
le preziose sorprese non lasciano vuoti, deambuliamo ubriachi col cuore stracolmo
"...ramo scostato per l' oro del fico maturo..."
la scelta dell' arredamento, uno scoglio dove si sono infrante inaffondabili transatlantici, inossidabili coppie: doppiato
"...i nostri mobili erano semplici come pietre... ci piaceva la crepa nel muro... una spiga da cui sciamavano mondi..."
Un silenzio tutto speciale in quella campagna d' oltralpe da cui emergono voci mai parlate
"... sentivamo la voce che vuole che si ami... come la sentono i delfini giocando nella loro acqua senza riva..."
Se il riposo è costruito con quelle assenze, non c' è fatica che osi ancora esistere
"... dormivamo non sapendoci... e come cercava il sogno nei nostri sonni!..."
Finalmente una bocca che parla, un orecchio che ascolta...
"... le nostre fronti si chinavano una verso l' altra avide di parole che volevamo dirci..."
Il Consiglio dei poeti si scioglie, ha deliberato, la seduta è tolta...
"... o terra,
segno disarmonico, sentieri sparsi...
...che questo mondo rimanga,
malgrado la morte,
stretta contro un ramo ascoltava imperturbabile l' oliva grigia...
la foglia perfetta orlava l' imminenza del frutto...
e tutto restò immobile ancora per un' ora...
l' assenza e la parola restarono unite per sempre nella cosa semplice..."
Fu una notte in cui si moriva con diletto...
"...dileguarsi... come lucentezza e acqua lasciano la mano su cui fonde la neve..."
Timorosi di aver troppo osato recitiamo una filastrocca apotropaica...
"... che le parole non siano
un giorno questi ossami
grigi, che avranno beccato,
gridando, litigando,
disperandosi,
gli uccelli, nostra notte nella luce..."
Poi un urlo che arresta la gravitazione dei pianeti...
"... come cessa il tempo quando si lava la piaga al bimbo che piange..."
Professiamo ancora l' ardente follia della fiducia...
"... con le nostre voci che s' impigliano nel nulla a chiamare un bambino che dovrà venire dal nulla... che attraverserà il fiume del nulla passando di barca in barca... ignario delle rive... annodando lo ieri, nostra illusione, al domani, nostra ombra..."
Istruiti a dovere godremo della bella perdita...
"...tutto cio' che fu così nostro... ma non è che questo cavo delle mani, dove acqua non resta... e possa essere il cielo il nostro modo d' essere... con ombra e colori che si lacerano... con nubi frettolose che hanno viso di bimbo appena nato... lineamenti distesi... prima di subire l' aggressione del linguaggio..."
Dalla penombra a misura d' uomo della campagna, scorgiamo meglio la sorte degli degli spacciati...
"... sposto con il piede, tra altre pietre, quella larga...
che copre Vite, forse... Ed è vero: numerose ne brulicano qui...
che corrono da ogni parte,
cieche per improvvisa troppa luce..."
Passeggiamo senza fretta "... al ritmo lento con cui la pioggia evapora dall' erba..."
si è fatto tardi, è tempo di pregare...
"Alba! Accettaci una volta ancora..."
Piove sulla nostra indifferenza concentrata ad analizzare la ricchezza della folgore che si diffonde nel primo mattino.
Dal fiume quancuno ci osserva ad occhi chiusi...
"... pietre... a cui la corrente ha chiuso gli occhi nella stratta della sabbia..."
Noi retori, arrivati a questo punto della notte...
"... seguiamo la nuda parola con il disarmo e la fiducia dell' agnello a cui si reciderà l' arteria..."
Fermi a decifrare il messaggio dell' uggiosa pioggierella gelata dell' alba...
"... sillaba breve, sillaba lunga, esitazione del giambo...
mentre si prepara il respiro che vorrebbe accedere a cio' che significa..."
Tacere riposati nelle parole di una volta, quelle parlate assolvendo ad un dovere che oggi ci appare improbo... parole...
"... meravigliose e sorprendenti come la neve, quella che cade leggera e non dura..."
Ecco il mattino, alziamo grati gli occhi con un sincronismo senza premeditazione: "lancia il suo brillio finale una stella senza significati da porgerci".
Montiamo la guardia decisi a
"...non abbandonare le parole a chi cancella..."
a bruciarci le labbra non resta che quella parola... e pensare che...
"... avevamo creduto conducesse lontano il sentiero che invece si perde nelle evidenze..."
Poi Yves Bonnefoy mi guarda e con calma espressiva mi espone la sua teologia; si parla di un Dio che passa il suo tempo a stupirsi dell' uomo, a pregarlo in silenzio, a scrutarlo di soppiatto, ad invidiarlo...
"... lì dove il seno si gonfia nel marmo
si meravigliò dello scultore...
... guardando un artigiano accanirsi su un pezzo di legno per scavarne l' immagine del suo dio, dalla quale si attendeva che prosciugasse l' angoscia d' essere...
provò per questa goffaggine un sentimento nuovo... ebbe desiderio di andare presso di lui... nella materia in cui vacilla la speranza... e si appesantì in quel legno abbandonandosi in balia al sogno dell' artista maldestro... da quella nuova immagine attende la sua liberazione... greve è su di lui l' umile pensiero dell' uomo e greve è su di lui lo sguardo appassionato della sua creatura..."
Resi ipersensibili ai significati non osiamo tentare un congedo parlato...
"... ormai è come se le parole fossero un lebbroso...
di cui sentiamo da lontano tintinnare la campanella..."
venerdì 30 maggio 2008
Il bello e il brutto del pensarci su
Non pensare puo' essere bellissimo, per alcuni anzi è l' unica "salvezza".
Ma per noi mi sa che è tardi per ricorrere a quell' alternativa taoista, ormai la secrezione cerebrale la espelliamo d' istinto di fronte al minimo intoppo.
Allora meglio ogni tanto ricordare a se stessi le delizie di un pensiero ben costruito. SL dà parecchie indicazioni spassose.
In genere si parte osservando un fatto.
Non un fatto qualsiasi, un fatto "rilevante". Questo è un punto problematico su cui popper si scorna con Bacone, per noi è meglio procedere lasciando che i due se la vedano tra loro.
Amalia Miller, per esempio, ha osservato che se una donna (USA, ma anche Europa) posticipa di un anno la nascita del primo figlio, guadagnerà nell' arco della sua vita lavorativa il 10% in più.
Questo è un semplice fatto. Poi comincia la parte creativa, la parte in cui si formula una teoria. Ecco quella della Miller: la maternità costa (un casino).
A questo punto, a qualsiasi latitudine vi troviate, salta sempre su un tale che finirà con il pronunciare l' obiezione stantia: "ma la correlazione non equivale ad un rapporto di causalità!!".
L' obiezione non è molto costruttiva visto che il "pensatore" (economista?) di mestiere fa proprio quello che distingue la cause dalle correlazioni.
L' obiezione standard, oltre ad essere stantia, ci fa perdere il bello del pensare, ovvero la parte creativa. Gli stessi dubbi possono e debbono essere sollevati ma in modo creativo, ovvero con una teoria alternativa.
Di solito la teoria alternativa è una teoria in cui una terza variabile influenza entrambe le variabili sotto osservazione. Per esempio: una madre 24enne sceglie di fare un figlio subito e non a 25 anni perchè ha già capito che la sua carriera non sarà brillante.
Questa sì che è un' "obiezione" come dio comanda. In quanto tale ad essa si puo' rispondere. E Amalia lo fa, infatti non confronta madri 24enni con madri 25enni prese a caso, confronta le prime con madri 25enni che hanno abortito naturalmente (capriccio del destino) a 24 anni. Il differenziale del 10% è confermato.
Amalia non è soddisfatta, ora mette a confronto madri 25enni con madri 24enni che all' epoca usavano mezzi anti-concezionali. Il 10% è confermato. Caspità, ma questa è causalità!
Per fortuna l' obiettore non demorde: chi rimane incinta nonostante l' uso di anticoncezionali è probabilmente una persona trascurata e cio' si riflette sul suo stipendio. Anche questa è un' obiezione creativa, ovvero un' obiezione che: 1) dà piacere ideare (è creativa) e 2) è onesta, ovvero comporta oneri: deve essere confermata dai dati o confutata. Ma da quali dati? Bisogna "inventarsi" un esperimento in merito, non è facile.
Infatti Amalia accetta la sfida e si getta alla ricerca di un gruppo di donne che ha cominciato a cercare la maternità a 23 anni: alcune ci sono riuscite a 24, altre ci sono riusicte a 25. Il 10% è confermato.
La garanzia di aver trovato un nesso causale non esistono, ma questo è il modo corretto di procedere. E' anche il modo più "bello" poichè implica un momento creativo sia nella teorizzazione, sia nella confutazione, sia nell' ideazione degli esperimenti significativi. Landsburg dice che "ricordare ad un economista che la correlazione non è una causalità è come ricordare ad un chimico di lavare le provette". Io aggiungo che dimenticarsene priverebbe il pensatore della parte più divertente e fantasiosa della sua impresa.
Ecco un altro fatto: chi ha una figlia femmina ha anche maggiori probabilità di divoziare.
Questo accade praticamente ovunque nel mondo. Si va da un differenziale del 5% (USA) ad uno del 25% (Vietnam).
Teoria 1: avere delle figlie è causa di divorzio. le figlie sono meno desiderate dei maschi. E' la teoria degli economisti Dahl/Moretti.
Ma per formularla hanno sudato sette camicie dovendo respingere tutta una serie di alternative al fine di dimostrare un nesso di causalità.
OBIEZIONE 1: le persone di successo di solito non hanno figlie femmine e, visti i mezzi ingenti di cui dispongono, riescono spesso ad ammorbidire i conflitti di coppia.
RISPOSTA: la prima parte della considerazione puo' essere giudicata un fatto (le ricerche sono state condotte in modo abbastanza vasto: dai Presidenti degli Stati Uniti alla lista del Who's who... rinvio al biologo Robin Barker e al suo Sperm Wars), ma la seconda fa acqua da tutte le parti.
OBIEZIONE 2: quando la mamma è stressata aumentano le probabilità che partorirà una femmina. Ma la presenza di stress prelude anche al divorzio.
RISPOSTA: la prima parte dell' affermazione è un fatto. Ma con quattro conti che mettano assieme le probabilità ricavate dai numeri delle statistiche, si vede come questa teoria non è in grado di spiegare i differenziali osservati.
Per Dahl e Moretti è ora di passare al contrattacco. Basta limitarsi a respingere le obiezioni! Che abbelliscano la loro teoria con spiegazioni ragionevoli e creative tali da poter essere anche sostanziate dai fatti prodotti dal noiosissimo lavoro statistico. E allora:
PROVA1: le divorziate con figlie femmine difficilmente si risposano. Questo ci dice qualcosa a proposito delle preferenze del potenziale patrigno. E giù numeri.
OBIEZIONE MIA: forse le madri temono la presenza di un adulto vicino alle loro bambine, magari già un po' cresciutelle.
PROVA2: i genitori di una figlia hanno più probabilità di avere un secondo figlio. Questo fa luce su alcuni desideri della coppia. E giù numeri.
PROVA 3: il mercato delle adozioni parla chiaro. E giù numeri.
Qualcuno ha avanzato altre prove di tipo evolutivo: il divorzio colpisce l' autostima dei figli; i ragazzi con poca autostima diventano introversi, le ragazze diventano "facili". Bella questa! visto che è divertente oltre che responsabilizzante?
Altri puntano sulla parte economica: i maschi hanno più bisogno delle femmine di ereditare grandi patrimoni, questo perchè le femminucce ammirano la ricchezza del futuro partner più di quanto non facciano i maschietti e poi un maschio ha più probabilità di intraprendere.
Non ci sono prove inconfutabili, ma cosa c' importa? Il bello è "pensare" e aggiungere. E' talmente bello che ci compensa della noia necessaria relativa al lavoro che deve seguire: sostanziare con i fatti delle statistiche, della soria e dell' esperienza personale, perchè no?
Ma alcuni sono restii ad accettare una simile spericolatezza inventiva, temono ripercussioni problematiche sui valori e sulla società: non tutte le conclusioni sono innocenti.
Mi chiedo io, ma che c' entrano i valori con i fatti? I valori e i fatti viaggiano distiniti.
I miei valori son là, son parcheggiati altrove ed in luogo sicuro, mai nessuna teoria sui fatti potrà mai modificarli, sono in cassaforte.
Io non sarò razzista per quanto i fatti potranno un giorno dire che talune etnie soffrono di tare genetiche, cosa possibile.
Non sono sessista per quanto un giorno alcune teorie faranno risalire a fatti genetici la superiorità di un sesso su un altro in un certo campo, cosa probabile.
Così corazzato, posso buttarmi a capofitto e fare anche le ipotesi più azzardate, i miei valori stanno al sicuro in un' altra dimensione.
Ma è proprio questo che imbarazza molti scienziati (ideologizzati): per loro non esiste un' "altra dimensione", per il loro monismo questi fatti sono tutto. E' un piacere vedeli tirare il freno invidiando chi non è tenuto a farlo grazie al fatto di possedere un' anima.
Ma per noi mi sa che è tardi per ricorrere a quell' alternativa taoista, ormai la secrezione cerebrale la espelliamo d' istinto di fronte al minimo intoppo.
Allora meglio ogni tanto ricordare a se stessi le delizie di un pensiero ben costruito. SL dà parecchie indicazioni spassose.
In genere si parte osservando un fatto.
Non un fatto qualsiasi, un fatto "rilevante". Questo è un punto problematico su cui popper si scorna con Bacone, per noi è meglio procedere lasciando che i due se la vedano tra loro.
Amalia Miller, per esempio, ha osservato che se una donna (USA, ma anche Europa) posticipa di un anno la nascita del primo figlio, guadagnerà nell' arco della sua vita lavorativa il 10% in più.
Questo è un semplice fatto. Poi comincia la parte creativa, la parte in cui si formula una teoria. Ecco quella della Miller: la maternità costa (un casino).
A questo punto, a qualsiasi latitudine vi troviate, salta sempre su un tale che finirà con il pronunciare l' obiezione stantia: "ma la correlazione non equivale ad un rapporto di causalità!!".
L' obiezione non è molto costruttiva visto che il "pensatore" (economista?) di mestiere fa proprio quello che distingue la cause dalle correlazioni.
L' obiezione standard, oltre ad essere stantia, ci fa perdere il bello del pensare, ovvero la parte creativa. Gli stessi dubbi possono e debbono essere sollevati ma in modo creativo, ovvero con una teoria alternativa.
Di solito la teoria alternativa è una teoria in cui una terza variabile influenza entrambe le variabili sotto osservazione. Per esempio: una madre 24enne sceglie di fare un figlio subito e non a 25 anni perchè ha già capito che la sua carriera non sarà brillante.
Questa sì che è un' "obiezione" come dio comanda. In quanto tale ad essa si puo' rispondere. E Amalia lo fa, infatti non confronta madri 24enni con madri 25enni prese a caso, confronta le prime con madri 25enni che hanno abortito naturalmente (capriccio del destino) a 24 anni. Il differenziale del 10% è confermato.
Amalia non è soddisfatta, ora mette a confronto madri 25enni con madri 24enni che all' epoca usavano mezzi anti-concezionali. Il 10% è confermato. Caspità, ma questa è causalità!
Per fortuna l' obiettore non demorde: chi rimane incinta nonostante l' uso di anticoncezionali è probabilmente una persona trascurata e cio' si riflette sul suo stipendio. Anche questa è un' obiezione creativa, ovvero un' obiezione che: 1) dà piacere ideare (è creativa) e 2) è onesta, ovvero comporta oneri: deve essere confermata dai dati o confutata. Ma da quali dati? Bisogna "inventarsi" un esperimento in merito, non è facile.
Infatti Amalia accetta la sfida e si getta alla ricerca di un gruppo di donne che ha cominciato a cercare la maternità a 23 anni: alcune ci sono riuscite a 24, altre ci sono riusicte a 25. Il 10% è confermato.
La garanzia di aver trovato un nesso causale non esistono, ma questo è il modo corretto di procedere. E' anche il modo più "bello" poichè implica un momento creativo sia nella teorizzazione, sia nella confutazione, sia nell' ideazione degli esperimenti significativi. Landsburg dice che "ricordare ad un economista che la correlazione non è una causalità è come ricordare ad un chimico di lavare le provette". Io aggiungo che dimenticarsene priverebbe il pensatore della parte più divertente e fantasiosa della sua impresa.
Ecco un altro fatto: chi ha una figlia femmina ha anche maggiori probabilità di divoziare.
Questo accade praticamente ovunque nel mondo. Si va da un differenziale del 5% (USA) ad uno del 25% (Vietnam).
Teoria 1: avere delle figlie è causa di divorzio. le figlie sono meno desiderate dei maschi. E' la teoria degli economisti Dahl/Moretti.
Ma per formularla hanno sudato sette camicie dovendo respingere tutta una serie di alternative al fine di dimostrare un nesso di causalità.
OBIEZIONE 1: le persone di successo di solito non hanno figlie femmine e, visti i mezzi ingenti di cui dispongono, riescono spesso ad ammorbidire i conflitti di coppia.
RISPOSTA: la prima parte della considerazione puo' essere giudicata un fatto (le ricerche sono state condotte in modo abbastanza vasto: dai Presidenti degli Stati Uniti alla lista del Who's who... rinvio al biologo Robin Barker e al suo Sperm Wars), ma la seconda fa acqua da tutte le parti.
OBIEZIONE 2: quando la mamma è stressata aumentano le probabilità che partorirà una femmina. Ma la presenza di stress prelude anche al divorzio.
RISPOSTA: la prima parte dell' affermazione è un fatto. Ma con quattro conti che mettano assieme le probabilità ricavate dai numeri delle statistiche, si vede come questa teoria non è in grado di spiegare i differenziali osservati.
Per Dahl e Moretti è ora di passare al contrattacco. Basta limitarsi a respingere le obiezioni! Che abbelliscano la loro teoria con spiegazioni ragionevoli e creative tali da poter essere anche sostanziate dai fatti prodotti dal noiosissimo lavoro statistico. E allora:
PROVA1: le divorziate con figlie femmine difficilmente si risposano. Questo ci dice qualcosa a proposito delle preferenze del potenziale patrigno. E giù numeri.
OBIEZIONE MIA: forse le madri temono la presenza di un adulto vicino alle loro bambine, magari già un po' cresciutelle.
PROVA2: i genitori di una figlia hanno più probabilità di avere un secondo figlio. Questo fa luce su alcuni desideri della coppia. E giù numeri.
PROVA 3: il mercato delle adozioni parla chiaro. E giù numeri.
Qualcuno ha avanzato altre prove di tipo evolutivo: il divorzio colpisce l' autostima dei figli; i ragazzi con poca autostima diventano introversi, le ragazze diventano "facili". Bella questa! visto che è divertente oltre che responsabilizzante?
Altri puntano sulla parte economica: i maschi hanno più bisogno delle femmine di ereditare grandi patrimoni, questo perchè le femminucce ammirano la ricchezza del futuro partner più di quanto non facciano i maschietti e poi un maschio ha più probabilità di intraprendere.
Non ci sono prove inconfutabili, ma cosa c' importa? Il bello è "pensare" e aggiungere. E' talmente bello che ci compensa della noia necessaria relativa al lavoro che deve seguire: sostanziare con i fatti delle statistiche, della soria e dell' esperienza personale, perchè no?
Ma alcuni sono restii ad accettare una simile spericolatezza inventiva, temono ripercussioni problematiche sui valori e sulla società: non tutte le conclusioni sono innocenti.
Mi chiedo io, ma che c' entrano i valori con i fatti? I valori e i fatti viaggiano distiniti.
I miei valori son là, son parcheggiati altrove ed in luogo sicuro, mai nessuna teoria sui fatti potrà mai modificarli, sono in cassaforte.
Io non sarò razzista per quanto i fatti potranno un giorno dire che talune etnie soffrono di tare genetiche, cosa possibile.
Non sono sessista per quanto un giorno alcune teorie faranno risalire a fatti genetici la superiorità di un sesso su un altro in un certo campo, cosa probabile.
Così corazzato, posso buttarmi a capofitto e fare anche le ipotesi più azzardate, i miei valori stanno al sicuro in un' altra dimensione.
Ma è proprio questo che imbarazza molti scienziati (ideologizzati): per loro non esiste un' "altra dimensione", per il loro monismo questi fatti sono tutto. E' un piacere vedeli tirare il freno invidiando chi non è tenuto a farlo grazie al fatto di possedere un' anima.
La storia dell' uomo in un diagramma
Se proprio vogliamo scegliere, questo mi sembra buono. Misura la ricchezza pro capite nella storia ed è il trampolino da cui Gregory Clark prende l' abbrivio per la sua analisi.
Non è proprio tutta la "storia dell' uomo" ma andiamo dall' anno 1000 prima di cristo ad oggi. Mi sembra possa bastare come capacità di sintesi.
Concentrarsi sulle condizioni materiali dell' uomo fa storcere il naso a molti.
Hanno torto gli scettici: c' è ampia evidenza di come la ricchezza influenzi lo stile di vita delle persone.
Se so che il reddito del Btswana raddoppierà sotto deboli vincoli distributivi nel prossimo decennio, sono in grado di presumere i comportamenti sociali che andranno affermandosi (detto in soldoni, la società del Botswana si avvicinerà alla nostra).
Le previsioni economiche a lunghissimo termine, tutto sommato, non sono poi così difficili. Basta vedere come vive l' elite dei più ricchi oggi e pensare che presto quelle abitudini si allargheranno ai molti. E' stato così per secoli e molto probabilmente lo sarà ancora. Faccio solo un esempio e passo ad altro: il turismo.
Certo che se questo diagramma illustra veramente la "storia dell' umanità", allora si tratta di una storia molto semplice: basta capire cosa è successo negli anni dell' impennata.
Da notare che c' è una descrizione da associare all' impennata: Rivoluzione Industriale. Cio' significa che il grande salto è concentrato nel tempo ma anche nello spazio: Inghilterra fine 700.
Anche i libri di idee sono un po' gialli. Allora dirò solo che... GC non crede in uno schock, per lui qualcosa covava da secoli...
giovedì 29 maggio 2008
Pugili sentimentali
Eugenio Finardi questa volta ha fatto centro. Ma era difficile sbagliare mira attingendo alle atmosfere villoniane di Vladimir Vysotskji e alla tavolozza dell' Orchestra milanese Sentieri Selvaggi.
E alla fine c' è anche il colpo del ko.
E alla fine c' è anche il colpo del ko.
mercoledì 28 maggio 2008
Razzisti in crisi d' identità. Ma la Prestigiacomo batte Borghezio?
Avendo gridato troppe volte a squarciagola: "fascista!!", mi sono accorto di perdere progressivamente il senso di quell' accusa.
Lentamente l' urlo si trasformava in un vacuo sbraitare e alla fine era persino controproducente avanzare quella contestazione; formulata in tal modo era la prova provata della mia superficialità.
Alla fine mi rassegnai: una parola dapprima tanto preziosa, era divenuta ormai inservibile.
Che peccato rottamare le parole, potremmo averne bisogno proprio nel momento in cui non le abbiamo più in magazzino.
Urgono contromisure.
Anche perchè la medesima sottrazione di senso si verifica per altri vocalizzi di solito emessi con un accompagnamento ragguardevole di decibel. Esempio: "razzista!!!".
E' imbarazzante il mutismo degli urlatori professionali che si esercitano con queste liriche. Spesso si tratta di gente che ha fatto dell' indignazione uno stile di vita.
Ma chi è un razzista? Forse è il caso di averlo chiaro almeno a se stessi.
Ipotesi 1 - Il razzista probabilista.
Razzista è colui che nella vita quotidiana, per adempiere al meglio i suoi doveri, discrimina le persone sulla base di intuizioni statistiche.
Per esempio: in USA la polizia compie i suoi controlli antidroga fermando molte più auto guidate da neri rispetto a quelle condotte da bianchi.
Non ravvedo razzismo: è risaputo che i neri spacciano più dei bianchi.
Volendone una conferma basterebbe constatare che gli spacciatori neri arrestati durante questi controlli pareggiano come numero quelli bianchi. Cio' indica assenza di pregiudizi (il gruppo meno controllato è incentivato a delinquere, quando si raggiunge un equilibro tra i gruppi significa che tutti i gruppi hanno il medesimo incentivo, in questo caso l' equilibrio è ottenuto esercitando una maggiore pressione sui neri).
A recriminare dovrebbero essere gli ispanici: la percentuale di controlli che subiscono è sproporzionata rispetto agli arresti.
Se l' Italiano diffida dell' albanse o del nigeriano è razzista? Dipende. Se l' albanese ha più probabilità di delinquere, no. Per dismettere il tono ipotetico e avere una risposta più concreta, basta basta farsi un giro nelle carceri italiane.
Difficilmente è razzista colui che manifesta un disagio per la vicinanza della sua residenza ad un campo ROM. La statistica lo salva dall' infamante accusa: costui ha più probabilità di subire un furto e le sue apprensioni sono giustificate.
Sarebbe meglio evitare l' accusa di razzismo a chi si limita a "ragionare bene". La polizia americana organizza razionalmente i suoi posti di blocco, perchè gettare fango su di lei?
Ipotesi 2 - Il razzista scientifico.
E' colui che nota differenze innate tra gruppi di etnie diverse.
Il razzista statistico non è un razzista, anche perchè spesso recrimina sulla sfortuna e sull' ingiustizia che deve subire chi comunque non rinuncia a considerare un "diverso", anzi un "peggiore".
Se la causa di certi comportamenti è ambientale, nessuno potrà mai accusarlo di razzismo.
Che dire allora del razzista scientifico? Secondo lui un nero ha delle tare proprio perchè è nero.
Penso che nemmeno lui sia un razzista.
Se uno scienziato rintraccia una caratteristica nel patrimonio genetico dei neri ed è in grado di dimostrare come quella caratteristica pregiudichi certe performances, cosa dovrebbe fare? Tacere? e' razzista solo perchè parla? Sarebbe assurdo.
No, nemmeno lo scienziato puo' essere considerato un razzista.
nella nostra ipotesi, l' unico modo per non essere razzisti è rinnegare il metodo scientifico. Troppo oneroso.
Ipotesi 3 - Il razzista giuridico.
E' colui che pretende di attribuire diritti differenziati a persone con caratteristiche diverse.
Mi sa che questa volta ci siamo.
Qui, secondo me, abbiamo a che fare con il vero razzista.
Poichè i neri hanno tare innate (o culturali) a loro deve essere prudenzialmente precluso a priori il diritto al porto d' armi. A tutti, in quanto neri. E per il loro bene.
Accogliendo questa definizione incappiamo in un evento spiacevole: molte politiche comunemente accettate possono definirsi "razziste".
Esempio: poichè i neri hanno certe caratteristiche loro proprie, è giusto privilegiarli con un vantaggio nell' accesso universitario. Un privilegio che spetta a tutti i neri. Per il loro bene.
Poichè le ragazze... è giusto che godano di diritti a priori più vantaggiosi rispetto ai ragazzi. Una garanzia che spetta a tutte. A priori. Per il loro bene.
Per quanto nitide, non so fino a che punto queste conclusioni siano accettabili.
Basta pensare ai casi concreti: la Prestigiacomo avrebbe una forma mentis di gran lunga più incline al razzismo rispetto a Borghezio.
Lentamente l' urlo si trasformava in un vacuo sbraitare e alla fine era persino controproducente avanzare quella contestazione; formulata in tal modo era la prova provata della mia superficialità.
Alla fine mi rassegnai: una parola dapprima tanto preziosa, era divenuta ormai inservibile.
Che peccato rottamare le parole, potremmo averne bisogno proprio nel momento in cui non le abbiamo più in magazzino.
Urgono contromisure.
Anche perchè la medesima sottrazione di senso si verifica per altri vocalizzi di solito emessi con un accompagnamento ragguardevole di decibel. Esempio: "razzista!!!".
E' imbarazzante il mutismo degli urlatori professionali che si esercitano con queste liriche. Spesso si tratta di gente che ha fatto dell' indignazione uno stile di vita.
Ma chi è un razzista? Forse è il caso di averlo chiaro almeno a se stessi.
Ipotesi 1 - Il razzista probabilista.
Razzista è colui che nella vita quotidiana, per adempiere al meglio i suoi doveri, discrimina le persone sulla base di intuizioni statistiche.
Per esempio: in USA la polizia compie i suoi controlli antidroga fermando molte più auto guidate da neri rispetto a quelle condotte da bianchi.
Non ravvedo razzismo: è risaputo che i neri spacciano più dei bianchi.
Volendone una conferma basterebbe constatare che gli spacciatori neri arrestati durante questi controlli pareggiano come numero quelli bianchi. Cio' indica assenza di pregiudizi (il gruppo meno controllato è incentivato a delinquere, quando si raggiunge un equilibro tra i gruppi significa che tutti i gruppi hanno il medesimo incentivo, in questo caso l' equilibrio è ottenuto esercitando una maggiore pressione sui neri).
A recriminare dovrebbero essere gli ispanici: la percentuale di controlli che subiscono è sproporzionata rispetto agli arresti.
Se l' Italiano diffida dell' albanse o del nigeriano è razzista? Dipende. Se l' albanese ha più probabilità di delinquere, no. Per dismettere il tono ipotetico e avere una risposta più concreta, basta basta farsi un giro nelle carceri italiane.
Difficilmente è razzista colui che manifesta un disagio per la vicinanza della sua residenza ad un campo ROM. La statistica lo salva dall' infamante accusa: costui ha più probabilità di subire un furto e le sue apprensioni sono giustificate.
Sarebbe meglio evitare l' accusa di razzismo a chi si limita a "ragionare bene". La polizia americana organizza razionalmente i suoi posti di blocco, perchè gettare fango su di lei?
Ipotesi 2 - Il razzista scientifico.
E' colui che nota differenze innate tra gruppi di etnie diverse.
Il razzista statistico non è un razzista, anche perchè spesso recrimina sulla sfortuna e sull' ingiustizia che deve subire chi comunque non rinuncia a considerare un "diverso", anzi un "peggiore".
Se la causa di certi comportamenti è ambientale, nessuno potrà mai accusarlo di razzismo.
Che dire allora del razzista scientifico? Secondo lui un nero ha delle tare proprio perchè è nero.
Penso che nemmeno lui sia un razzista.
Se uno scienziato rintraccia una caratteristica nel patrimonio genetico dei neri ed è in grado di dimostrare come quella caratteristica pregiudichi certe performances, cosa dovrebbe fare? Tacere? e' razzista solo perchè parla? Sarebbe assurdo.
No, nemmeno lo scienziato puo' essere considerato un razzista.
nella nostra ipotesi, l' unico modo per non essere razzisti è rinnegare il metodo scientifico. Troppo oneroso.
Ipotesi 3 - Il razzista giuridico.
E' colui che pretende di attribuire diritti differenziati a persone con caratteristiche diverse.
Mi sa che questa volta ci siamo.
Qui, secondo me, abbiamo a che fare con il vero razzista.
Poichè i neri hanno tare innate (o culturali) a loro deve essere prudenzialmente precluso a priori il diritto al porto d' armi. A tutti, in quanto neri. E per il loro bene.
Accogliendo questa definizione incappiamo in un evento spiacevole: molte politiche comunemente accettate possono definirsi "razziste".
Esempio: poichè i neri hanno certe caratteristiche loro proprie, è giusto privilegiarli con un vantaggio nell' accesso universitario. Un privilegio che spetta a tutti i neri. Per il loro bene.
Poichè le ragazze... è giusto che godano di diritti a priori più vantaggiosi rispetto ai ragazzi. Una garanzia che spetta a tutte. A priori. Per il loro bene.
Per quanto nitide, non so fino a che punto queste conclusioni siano accettabili.
Basta pensare ai casi concreti: la Prestigiacomo avrebbe una forma mentis di gran lunga più incline al razzismo rispetto a Borghezio.
Miri, Scrooge, Landsburg vs ric
La Miri non tollera gli "sprechi", è la sua filosofia di vita ed è anche la filosofia di vita che intende insegnare a chi le sta vicino. Siccome a starle vicino sono io, mi fa sempre una capa tanta.
Non tollerando gli sprechi ha anche poca stima degli spreconi e di chi li giustifica o li giudica senza la dovuta severità. Lo sprecone è un castigo di dio e la sua presenza va scongiurata.
Non c' è niente di peggio che chi tiene aperta l' acqua mentre va a zonzo per la casa con lo spazzolino da denti in bocca tentando di comunicare qualcosa farfugliando, oppure chi ha i suoi nirvana installandosi immoto nella doccia per venti minuti immobile sotto l' acqua bollente.
Richiesto di un parere a sorpresa circa l' eventuale educazione dei figli, rispondo istintivamente: "... sì... bè... lo sprecone... in fondo la cosa importante è che paghi quel che consuma per quel che vale... ehm...".
Risposta sbagliata!!: per la miri lo sprecone è deleterio per quanto paghi cari i suoi vizietti. E aggiunge con dedica: chi spreca acqua alza il prezzo dell' acqua e ad andarci di mezzo siamo anche noi poveretti.
Ho l' impressione che la miri odi gli spreconi e si disinteressi del tutto delle conseguenze economiche ma per tapparmi la petulante bocca una volta per tutte abbia tirato fuori la storia dei prezzi alti e di "noi poveretti vessati".
Scopro ora che la miri ha un alleato insidioso in questa sua crociata, trattasi dell' economista di Rochester Steven Landsburg.
Naturalmente, trattandosi di SL, l' alleanza si rinsalda "al contrario": SL, nel cap. 3 della sua ultima fatica è impegnatissimo nell' esaltare le mille splendide virtù dell' avaro, un vero eroe sociale.
Il mito di SL è l' Ebenezer Scrooge (prima maniera): la sua casa è misera e buia (la luce costa), il riscaldamento è al minimo (il carbone non lo regalano) e la sbobba se la prepara da solo con pochissima materia prima.
Dickens non simpatizza con lui e non se ne capisce il motivo: come si potrebbe accusare uno che tiene le lampade spente e salta praticamente i pasti, lasciando agli altri più combustibile da bruciare e più cibo da mangiare.
"... nessuno è più generoso dell' avaro, un uomo che pur avendo la possibilità di attingere alle risorse comuni sceglie di non farlo... la generosità del filantropo si riversa su pochi mentre la generosità dell' avaro si spande in lungo e in largo... Scrooge non è egoista, è avaro, ma l' avaro è un benefattore...".
Non c' è che dire, l' argomento di Landsburg è lo stesso della miri (rovesciato).
D' altronde bisognava aspettarselo: se la presenza di spreconi è una iattura per la società, quella di avari ne è la salvezza.
Ho l' impressione che sia la miri che SL abbiano preso una cantonata.
Partiamo da un punto: lo sprecone immette la sua ricchezza nel circuito del mercato facendo aumentare i prezzi, Scrooge la ritira facendoli diminuire.
Ma il livello dei prezzi influenza i nostri redditi reali che, per restare costanti, necessiteranno di essere ritoccati a livello nominale.
Detto in soldoni: la presenza di "spreconi" è la base su cui verranno accordati senza resistenza alla miri i suoi aumenti di stipendio, se prima aveva strappato certe condizioni riuscirà a ribadirle ritoccando il compenso nominale; al contrario, Scrooge tiene bassi i prezzi ma, così facendo, tiene bassi anche i redditi nominali.
Avevo già ascoltato una difesa di Scrooge. Ma in quel caso l' accettavo, non si trattava di una vera esaltazione bensì di una difesa da accuse sommamante ingiuste. Infatti è vero che Scrooge (statisticamente) non fa male a nessuno. Non per niente in quel libro, oltre a Scrooge, veniva difesa ad oltranza anche la figura dello "sprecarisorse". SL non potrebbe mai permetterselo. Quanto alla Miri, lei non ci pensa nemmeno.
Non tollerando gli sprechi ha anche poca stima degli spreconi e di chi li giustifica o li giudica senza la dovuta severità. Lo sprecone è un castigo di dio e la sua presenza va scongiurata.
Non c' è niente di peggio che chi tiene aperta l' acqua mentre va a zonzo per la casa con lo spazzolino da denti in bocca tentando di comunicare qualcosa farfugliando, oppure chi ha i suoi nirvana installandosi immoto nella doccia per venti minuti immobile sotto l' acqua bollente.
Richiesto di un parere a sorpresa circa l' eventuale educazione dei figli, rispondo istintivamente: "... sì... bè... lo sprecone... in fondo la cosa importante è che paghi quel che consuma per quel che vale... ehm...".
Risposta sbagliata!!: per la miri lo sprecone è deleterio per quanto paghi cari i suoi vizietti. E aggiunge con dedica: chi spreca acqua alza il prezzo dell' acqua e ad andarci di mezzo siamo anche noi poveretti.
Ho l' impressione che la miri odi gli spreconi e si disinteressi del tutto delle conseguenze economiche ma per tapparmi la petulante bocca una volta per tutte abbia tirato fuori la storia dei prezzi alti e di "noi poveretti vessati".
Scopro ora che la miri ha un alleato insidioso in questa sua crociata, trattasi dell' economista di Rochester Steven Landsburg.
Naturalmente, trattandosi di SL, l' alleanza si rinsalda "al contrario": SL, nel cap. 3 della sua ultima fatica è impegnatissimo nell' esaltare le mille splendide virtù dell' avaro, un vero eroe sociale.
Il mito di SL è l' Ebenezer Scrooge (prima maniera): la sua casa è misera e buia (la luce costa), il riscaldamento è al minimo (il carbone non lo regalano) e la sbobba se la prepara da solo con pochissima materia prima.
Dickens non simpatizza con lui e non se ne capisce il motivo: come si potrebbe accusare uno che tiene le lampade spente e salta praticamente i pasti, lasciando agli altri più combustibile da bruciare e più cibo da mangiare.
"... nessuno è più generoso dell' avaro, un uomo che pur avendo la possibilità di attingere alle risorse comuni sceglie di non farlo... la generosità del filantropo si riversa su pochi mentre la generosità dell' avaro si spande in lungo e in largo... Scrooge non è egoista, è avaro, ma l' avaro è un benefattore...".
Non c' è che dire, l' argomento di Landsburg è lo stesso della miri (rovesciato).
D' altronde bisognava aspettarselo: se la presenza di spreconi è una iattura per la società, quella di avari ne è la salvezza.
Ho l' impressione che sia la miri che SL abbiano preso una cantonata.
Partiamo da un punto: lo sprecone immette la sua ricchezza nel circuito del mercato facendo aumentare i prezzi, Scrooge la ritira facendoli diminuire.
Ma il livello dei prezzi influenza i nostri redditi reali che, per restare costanti, necessiteranno di essere ritoccati a livello nominale.
Detto in soldoni: la presenza di "spreconi" è la base su cui verranno accordati senza resistenza alla miri i suoi aumenti di stipendio, se prima aveva strappato certe condizioni riuscirà a ribadirle ritoccando il compenso nominale; al contrario, Scrooge tiene bassi i prezzi ma, così facendo, tiene bassi anche i redditi nominali.
Avevo già ascoltato una difesa di Scrooge. Ma in quel caso l' accettavo, non si trattava di una vera esaltazione bensì di una difesa da accuse sommamante ingiuste. Infatti è vero che Scrooge (statisticamente) non fa male a nessuno. Non per niente in quel libro, oltre a Scrooge, veniva difesa ad oltranza anche la figura dello "sprecarisorse". SL non potrebbe mai permetterselo. Quanto alla Miri, lei non ci pensa nemmeno.
martedì 27 maggio 2008
Un secolo in una settimana
In un secolo di duro lavoro, le nostre migliori intelligenze hanno partorito l' analisi della "domanda" e dell' "offerta". Mica male.
I frutti di un simile sforzo sono insegnati come routine nella prima settimana di un corso qualunque di economia.
Al termine di quella settimana si procede oltre con sempre nuovi argomenti.
Se le proporzioni sono queste, come pretendere che un novizio "riscopra", giusto con l' aiuto di un "facilitatore", cio' che è costato tanto sforzo ai "migliori" esperti della materia? Se vogliamo che languisca sull' ABC per un paio d' anni, forse abbiamo imboccato la via giusta.
Ma forse è meglio mettere sotto la cattedra una pedana bella alta e fare in modo che l' insegnante spieghi e l' allievo ascolti dal suo banchetto. Almeno nella fase iniziale.
Una volta che "sa", lo studente avrà anche modo, qualora sia realmente interessato alla materia, di "assimilare", di "penetrare a fondo", di trarne le implicazioni.
Non parlo da esperto, eppure l' intuito mi fa aderire alla posizione che Thomas Sowell descrive nei capitoli dedicati all' educazione del suo EWW.
Sarà perchè all' autoscuola non mi hanno messo sulla strada facendomi scoprire "per tentativi" come si porta una macchina nel traffico. E nonstante cio', sono un discreto pilota.
Per quanto l' empatia con TS possa traviarmi, rimarrei volentieri aperto anche alle pedagogie "discover by doing". E' così bello e onesto non giudicare a priori.
Rinuncio al giudizio a priori ma mi piacerebbe tanto poter perlomeno giudicare a posteriori, ovvero in base ai risultati.
Purtroppo il "giudizio in base ai risultati" sulla scorta di prove standard elaborate da soggetti indipendenti, è l' ultima cosa a cui ambiscono i sostenitori del DD. Va da sè che spesso l' esame finale è visto di cattivo occhio, come qualcosa di falsante e perturbante. Non parliamo poi dei test, vero demonio ingannatore.
Devo ammettere che questa renitenza è già un mezzo verdetto ai miei occhi.
La conoscenza non si giudica! Chissà se è vero.
Di sicuro, se non si giudica la conoscenza acquisita dagli allievi, non potranno mai essere giudicati nemmeno i professori. Ai maligni potrebbe cominciare a chiarirsi il fervore con cui una certa classe docente abbraccia i principi dell' insegnamento creativo.
Astenersi dal giudicare il docente in base ai risultati, non conviene a tutti. Qualcuno dovrebbe farsi sentire. I migliori potrebbero recalcitrare.
Conviene però alla parte sindacalizzata del corpo docente. Il motivo è cristallino: ogni differenzizione introdotta minerebbe la possibilità di avere sindacati coesi ed influenti.
Inoltre l' elite che più pesa nella classe degli insegnanti è anche quella più esperta, di lungo corso e saldamente inserita nel sistema. Perchè a quel punto della loro carriera dovrebbero spingere un sistema che premi i migliori anzichè gli anziani? Molto meglio procedere in modo che i fallimenti educativi non abbiano conseguenze su carriere già tanto avanzate.
TS parla della pedagogia creativa come di qualcosa che gli USA conoscono molto bene, forse è nata proprio lì. La sua levatrice probabilmente è stato l' influente filosofo John Dewey: bando al "teaching to the test" e via libera all' aspetto "socializzante" dell' insegnamento; la scuola doveva diventare una società in miniatura.
Già l' Unione Sovietica negli anni 20 e 30 si è dimostrata ricettiva rispetto al verbo, e il suo messia benediva il tutto con queste parole: "... quali meravigliosi sviluppi grazie ai metodi progressisti che il governo sovietico sostiene nell' ambito dell' educazione...".
La "partecipazione" dello studente "socializzato" mandava in brodo di giuggiole gli educatori progressisti.
Solo che spesso si traduceva in un insegnamento che dal "come pensare" svoltava pericolosamente verso il "cosa pensare".
Allora ecco lo studente sempre alle prese con una petizione, con una esaltazione di enfatici ideali, con una condanna per le brutture della guerra ecc. Il "cosa pensare", inevitabilmente, finiva per avvicinarsi molto all' ideologia del corpo docente, la quale tendeva stranamente a coincidere con quelle di lassù.
Purtroppo i risultati educativi non furono all' altezza e il regime si liberò in quattro e quattr' otto di quell' impostazione.
Lo stesso avvenne nella Cina maoista tra i 50 e i 60: via gli esami, esiti fallimentari e pronta restaurazione.
Ma Cina e URSS non avevano mica i sindacati indipendenti degli insegnanti! Potevano permettersi una provvidenziale marcia indietro.
Purtroppo le barriere tra scuola e società che Dewey voleva abbattere avevano una una ragione per esistere: la scuola non è una società ma un posto "specializzato" nel preparare chi deve entrare in società. Proprio come il simulatore all' autoscuola mi prepara a scendere in pista. Se non si tiene conto della differenza tra un videogioco e la realtà si finisce sempre fuori strada.
Per meglio considerare se sia possibile una valutazione significativa e standardizzata dello studente a posteriori, mi sembra la questione cruciale, sono di recente usciti due volumi che ho intenzione di leggere: questo e quest' altro. Sono forse destinato a ritirare il mio appoggio alla visione di TS? Ai posteri.
I frutti di un simile sforzo sono insegnati come routine nella prima settimana di un corso qualunque di economia.
Al termine di quella settimana si procede oltre con sempre nuovi argomenti.
Se le proporzioni sono queste, come pretendere che un novizio "riscopra", giusto con l' aiuto di un "facilitatore", cio' che è costato tanto sforzo ai "migliori" esperti della materia? Se vogliamo che languisca sull' ABC per un paio d' anni, forse abbiamo imboccato la via giusta.
Ma forse è meglio mettere sotto la cattedra una pedana bella alta e fare in modo che l' insegnante spieghi e l' allievo ascolti dal suo banchetto. Almeno nella fase iniziale.
Una volta che "sa", lo studente avrà anche modo, qualora sia realmente interessato alla materia, di "assimilare", di "penetrare a fondo", di trarne le implicazioni.
Non parlo da esperto, eppure l' intuito mi fa aderire alla posizione che Thomas Sowell descrive nei capitoli dedicati all' educazione del suo EWW.
Sarà perchè all' autoscuola non mi hanno messo sulla strada facendomi scoprire "per tentativi" come si porta una macchina nel traffico. E nonstante cio', sono un discreto pilota.
Per quanto l' empatia con TS possa traviarmi, rimarrei volentieri aperto anche alle pedagogie "discover by doing". E' così bello e onesto non giudicare a priori.
Rinuncio al giudizio a priori ma mi piacerebbe tanto poter perlomeno giudicare a posteriori, ovvero in base ai risultati.
Purtroppo il "giudizio in base ai risultati" sulla scorta di prove standard elaborate da soggetti indipendenti, è l' ultima cosa a cui ambiscono i sostenitori del DD. Va da sè che spesso l' esame finale è visto di cattivo occhio, come qualcosa di falsante e perturbante. Non parliamo poi dei test, vero demonio ingannatore.
Devo ammettere che questa renitenza è già un mezzo verdetto ai miei occhi.
La conoscenza non si giudica! Chissà se è vero.
Di sicuro, se non si giudica la conoscenza acquisita dagli allievi, non potranno mai essere giudicati nemmeno i professori. Ai maligni potrebbe cominciare a chiarirsi il fervore con cui una certa classe docente abbraccia i principi dell' insegnamento creativo.
Astenersi dal giudicare il docente in base ai risultati, non conviene a tutti. Qualcuno dovrebbe farsi sentire. I migliori potrebbero recalcitrare.
Conviene però alla parte sindacalizzata del corpo docente. Il motivo è cristallino: ogni differenzizione introdotta minerebbe la possibilità di avere sindacati coesi ed influenti.
Inoltre l' elite che più pesa nella classe degli insegnanti è anche quella più esperta, di lungo corso e saldamente inserita nel sistema. Perchè a quel punto della loro carriera dovrebbero spingere un sistema che premi i migliori anzichè gli anziani? Molto meglio procedere in modo che i fallimenti educativi non abbiano conseguenze su carriere già tanto avanzate.
TS parla della pedagogia creativa come di qualcosa che gli USA conoscono molto bene, forse è nata proprio lì. La sua levatrice probabilmente è stato l' influente filosofo John Dewey: bando al "teaching to the test" e via libera all' aspetto "socializzante" dell' insegnamento; la scuola doveva diventare una società in miniatura.
Già l' Unione Sovietica negli anni 20 e 30 si è dimostrata ricettiva rispetto al verbo, e il suo messia benediva il tutto con queste parole: "... quali meravigliosi sviluppi grazie ai metodi progressisti che il governo sovietico sostiene nell' ambito dell' educazione...".
La "partecipazione" dello studente "socializzato" mandava in brodo di giuggiole gli educatori progressisti.
Solo che spesso si traduceva in un insegnamento che dal "come pensare" svoltava pericolosamente verso il "cosa pensare".
Allora ecco lo studente sempre alle prese con una petizione, con una esaltazione di enfatici ideali, con una condanna per le brutture della guerra ecc. Il "cosa pensare", inevitabilmente, finiva per avvicinarsi molto all' ideologia del corpo docente, la quale tendeva stranamente a coincidere con quelle di lassù.
Purtroppo i risultati educativi non furono all' altezza e il regime si liberò in quattro e quattr' otto di quell' impostazione.
Lo stesso avvenne nella Cina maoista tra i 50 e i 60: via gli esami, esiti fallimentari e pronta restaurazione.
Ma Cina e URSS non avevano mica i sindacati indipendenti degli insegnanti! Potevano permettersi una provvidenziale marcia indietro.
Purtroppo le barriere tra scuola e società che Dewey voleva abbattere avevano una una ragione per esistere: la scuola non è una società ma un posto "specializzato" nel preparare chi deve entrare in società. Proprio come il simulatore all' autoscuola mi prepara a scendere in pista. Se non si tiene conto della differenza tra un videogioco e la realtà si finisce sempre fuori strada.
Per meglio considerare se sia possibile una valutazione significativa e standardizzata dello studente a posteriori, mi sembra la questione cruciale, sono di recente usciti due volumi che ho intenzione di leggere: questo e quest' altro. Sono forse destinato a ritirare il mio appoggio alla visione di TS? Ai posteri.
Colpi di stato linguistici
Nel leggere i saggi di Thomas Sowell, salta subito all' occhio quella che puo' essere considerata la sua missione: sventare i colpi di stato linguistici.
Le esperienze di vita pesano parecchio nelle riflessioni di TS. Ma quando si è accorto che il "suo avvocato" lo difendeva ricorrendo a distorsioni lessicali, gli ha revocato l' incarico sdegnosamente.
In quanto nero del ghetto, il "suo avvocato" era l' equivalente di cio' che alle nostre latitudini chiamiamo "Intellettuale Progressista". Evidentemente il Nostro pensava che la sua causa fosse talmente facile da poter essere difesa con schiettezza, senza impelagarsi nell' illusionismo parolaio.
Ma facciamo qualche caso in grado di parlare a tutti.
Quando IP bombardava TS dicendogli che "non doveva arrendersi alla dittatura del mercato", siamo già al cuore della questione linguistica.
Perchè mai dovremmo chiamare "dittatura" l' accordo consensuale tra due persone libere?
Non si capisce il motivo ma la presenza di un Terzo che imponga con la forza ai primi due un certo comportamento, tranquillizza l' Intellettuale Progressista. Con soluzioni del genere, contro ogni logica linguistica, costui sente scongiurati i rischi di dittatura.
Ma la tradizione che IP ha scelto di seguire lo rinforza in un atteggiamento del genere. Per un saggio storico di questo talento linguistico arretro ad una vecchia loro passione: I totalitarismi del socialismo reale. Questi regimi amavano definisri "Democrazie Popolari".
Naturalmente l' ultima cosa di cui si occupavano era il Popolo.
La sparizione del senso immediato è utilissima: impedisce di discutere nella sostanza, il che è assai temibile per chi vuole evitare il fastidio dei "fatti".
Se un barbone diventa un homeless, eccolo trasformato da ozioso scansafatiche in qualcuno che dobbiamo proteggere.
Se ci riferiamo ad una palude con l' espressione "territorio ad alta biodiversità", significa che, qualora quel terreno fosse di tua proprietà, rassegnati: ora non lo è più. Te lo abbiamo sequestrato con un "colpo di stato" linguistico.
Se non hai le carte in regola per fare qualcosa (sul lavoro, nello studio, nell' accesso al credito), non preoccuparti. L' IP saprà trasformarti. Diverrai qualcuno a cui l' "accesso è negato"! Delle opportunità ti sono state sottratte e tu nemmeno te n' eri accorto. Per fortuna che ci sono i tuoi amici "democratici".
I media progressisti, esempio classico la BBC, nel corso della guerra in Iraq, raccomandavano agli inviati di non riferirsi a Saddam Hussein con l' appellativo di ex-dittatore. In caso contrario ne avrebbe sofferto la "neutralità" della TV. Chi se ne importa se Saddam fosse un dittatore e si doveva ricorrere ad una truffa linguistica, ci sono cose che vengono ben prima rispetto all' ascoltatore.
E in questa strategia truffaldina la BBC non operava sola: i principali media americani, ma basterebbero la Bottero o la Gruber, sostituivano alla parola "terroristi" quella di "insorgenti" mentre i "facinorosi" e i "teppisti" diventavano "dimostranti".
Se parlo di truffe e non di ambiguità è perchè le distinzioni sono palmari: la resistenza non si pone come obbiettivo i civili, non fa scoppiare le bombe al mercato nell' ora di punta, non filma lo sgozzamento di un giornalista non schierato. Una distinzione che non puo' certo scalfire chi è solidamente catechizzato alla neutralità gruberiana.
Il fatto che la "neutralità" strida con l' "oggettività" è secondario. Al giornalista gruberiano è stata data la parola e con quella deve costruire il mondo buono dove noi potremo abitare in futuro.
E tu che credevi di aver di fronte un umile cronista solerte nel riportare la notizia. Macchè "umile cronista"! Avevi di fronte un intellettuale a tutto tondo impegnato in prima persona nel forgiare il Mondo Nuovo.
Le esperienze di vita pesano parecchio nelle riflessioni di TS. Ma quando si è accorto che il "suo avvocato" lo difendeva ricorrendo a distorsioni lessicali, gli ha revocato l' incarico sdegnosamente.
In quanto nero del ghetto, il "suo avvocato" era l' equivalente di cio' che alle nostre latitudini chiamiamo "Intellettuale Progressista". Evidentemente il Nostro pensava che la sua causa fosse talmente facile da poter essere difesa con schiettezza, senza impelagarsi nell' illusionismo parolaio.
Ma facciamo qualche caso in grado di parlare a tutti.
Quando IP bombardava TS dicendogli che "non doveva arrendersi alla dittatura del mercato", siamo già al cuore della questione linguistica.
Perchè mai dovremmo chiamare "dittatura" l' accordo consensuale tra due persone libere?
Non si capisce il motivo ma la presenza di un Terzo che imponga con la forza ai primi due un certo comportamento, tranquillizza l' Intellettuale Progressista. Con soluzioni del genere, contro ogni logica linguistica, costui sente scongiurati i rischi di dittatura.
Ma la tradizione che IP ha scelto di seguire lo rinforza in un atteggiamento del genere. Per un saggio storico di questo talento linguistico arretro ad una vecchia loro passione: I totalitarismi del socialismo reale. Questi regimi amavano definisri "Democrazie Popolari".
Naturalmente l' ultima cosa di cui si occupavano era il Popolo.
La sparizione del senso immediato è utilissima: impedisce di discutere nella sostanza, il che è assai temibile per chi vuole evitare il fastidio dei "fatti".
Se un barbone diventa un homeless, eccolo trasformato da ozioso scansafatiche in qualcuno che dobbiamo proteggere.
Se ci riferiamo ad una palude con l' espressione "territorio ad alta biodiversità", significa che, qualora quel terreno fosse di tua proprietà, rassegnati: ora non lo è più. Te lo abbiamo sequestrato con un "colpo di stato" linguistico.
Se non hai le carte in regola per fare qualcosa (sul lavoro, nello studio, nell' accesso al credito), non preoccuparti. L' IP saprà trasformarti. Diverrai qualcuno a cui l' "accesso è negato"! Delle opportunità ti sono state sottratte e tu nemmeno te n' eri accorto. Per fortuna che ci sono i tuoi amici "democratici".
I media progressisti, esempio classico la BBC, nel corso della guerra in Iraq, raccomandavano agli inviati di non riferirsi a Saddam Hussein con l' appellativo di ex-dittatore. In caso contrario ne avrebbe sofferto la "neutralità" della TV. Chi se ne importa se Saddam fosse un dittatore e si doveva ricorrere ad una truffa linguistica, ci sono cose che vengono ben prima rispetto all' ascoltatore.
E in questa strategia truffaldina la BBC non operava sola: i principali media americani, ma basterebbero la Bottero o la Gruber, sostituivano alla parola "terroristi" quella di "insorgenti" mentre i "facinorosi" e i "teppisti" diventavano "dimostranti".
Se parlo di truffe e non di ambiguità è perchè le distinzioni sono palmari: la resistenza non si pone come obbiettivo i civili, non fa scoppiare le bombe al mercato nell' ora di punta, non filma lo sgozzamento di un giornalista non schierato. Una distinzione che non puo' certo scalfire chi è solidamente catechizzato alla neutralità gruberiana.
Il fatto che la "neutralità" strida con l' "oggettività" è secondario. Al giornalista gruberiano è stata data la parola e con quella deve costruire il mondo buono dove noi potremo abitare in futuro.
E tu che credevi di aver di fronte un umile cronista solerte nel riportare la notizia. Macchè "umile cronista"! Avevi di fronte un intellettuale a tutto tondo impegnato in prima persona nel forgiare il Mondo Nuovo.
L' oggettività non richiede neutralità così come l' onestà cronistica non richiede di assumere linguaggi ideologici. Al contrario, neutralità e truffa non possono fare a meno l' una dell' altra.
Il giornalista alla Rai Tre eredita una tradizione ben radicata di questi imbrogli, basta risalire alla guerra fredda e rispolverare un taboo giornalistico ricorrente: riferirsi all' occidente come al "mondo libero". Non sia mai.
Peccato che i giochi linguistici non siano semplicemente giochi. Rappresentano un assalto al potere. Mediante la vuota retorica è possibile acquisire potere eludendo fastidiose questioni di sostanza.
Il giornalista alla Rai Tre eredita una tradizione ben radicata di questi imbrogli, basta risalire alla guerra fredda e rispolverare un taboo giornalistico ricorrente: riferirsi all' occidente come al "mondo libero". Non sia mai.
Peccato che i giochi linguistici non siano semplicemente giochi. Rappresentano un assalto al potere. Mediante la vuota retorica è possibile acquisire potere eludendo fastidiose questioni di sostanza.
lunedì 26 maggio 2008
Razzisti in affari
Chi ha paura di Rosa Parks? Ma soprattutto, chi era costei?
RP sfidò le leggi di Jim Crow in Alabama rifiutando di alzarsi dal sedile del bus per fare posto ad un bianco. Dai tumulti seguiti a quel gesto impreveduto prese avvio negli USA la grande stagione dei diritti civili che infiammò il Paese negli anni 50 e 60.
Bisogna sapere che sui mezzi pubblici i bianchi avevano una serie di privilegi. Qualcuno potrebbe pensare che cio' fosse una forma con cui si manifestava il "razzismo" sudista. Ma sarebbe sbagliato fermarsi qui, dietro, come spesso capita, c' è una storia molto più interessante.
Per fortuna che c' è anche TS a raccontarcela a p.386 di EWW.
Si consideri allora che: 1) sentimenti razzisti erano da sempre diffusi al sud e 2) il provvedimento dei posti riservati ai bianchi risaliva solo ai primi del '900. Si resta un po' basiti. Come mai interi secoli di KKK senza "posti riservati"?
Sembra chiaro: non esiste un legame solido tra "razzismo" e "posti riservati".
Chi vede nel governo la soluzione di molti problemi sarà sorpreso di apprendere che, in questo caso, il governo sta alla radice del problema. Chi legge gli editoriali di TS, sarà invece molto meno spiazzato.
Nell' Ottocento il trasporto pubblico era in mano a compagnie private e in un sistema del genere esistevano forti disincentivi economici a praticare la discriminazione razziale dei passeggeri. I bianchi erano razzisti come e più che nel Novecento ma erano anche gente "in affari", desiderosi di massimizzare i loro profitti.
Jim Crow invece non era "in affari", non aveva nessun profitto economico da massimizzare. Cio' gli consentì, sfidando la dura opposizione della lobby dei trasporti (aiutato dal fatto che le compagnie private andavano assottigliandosi per far posto alla mano pubblica), di emanare le sue leggi in Alabama.
Ormai si sarà capito che chi dice "i soldi non puzzano", spesso non si rende ben conto di cosa dice.
Se il telegiornale dell' ammiraglia berlusconiana non ci fa il lavaggio del cervello ogni sera, forse lo dobbiamo un po' anche al fatto che "i soldi non puzzano".
La resistenza delle compagnie a Jim Crow non fu certo motivata dall' idealismo tipico del Movimento dei diritti civili. Eppure, finchè il sistema non fu tolto ai privati, garantì libertà assoluta al "consumatore" di colore.
Certo, Jim Crow doveva vedersela con il 14esimo emendamento nel quale si stabilisce il pari trattamento dei cittadini. Bastò un manipolo di scaltri giuristi per aggirarlo.
La morale di questa storiella potrebbe essere la seguente: le minoranze facciano scarso affidamento sui polici e sulla giustizia per la protezione dovuta, puntando questi obiettivi la loro causa durerebbe decenni; puntino invece su un mercato in grado di responsabilizzare chi vi agisce dentro, quello stesso mercato che ai razzisti faceva pagar care le pratiche discriminatorie, quello stesso mercato che raggiungeva esiti antitetici rispetto alla politica di Jim Crow e della Corte Suprema.
RP sfidò le leggi di Jim Crow in Alabama rifiutando di alzarsi dal sedile del bus per fare posto ad un bianco. Dai tumulti seguiti a quel gesto impreveduto prese avvio negli USA la grande stagione dei diritti civili che infiammò il Paese negli anni 50 e 60.
Bisogna sapere che sui mezzi pubblici i bianchi avevano una serie di privilegi. Qualcuno potrebbe pensare che cio' fosse una forma con cui si manifestava il "razzismo" sudista. Ma sarebbe sbagliato fermarsi qui, dietro, come spesso capita, c' è una storia molto più interessante.
Per fortuna che c' è anche TS a raccontarcela a p.386 di EWW.
Si consideri allora che: 1) sentimenti razzisti erano da sempre diffusi al sud e 2) il provvedimento dei posti riservati ai bianchi risaliva solo ai primi del '900. Si resta un po' basiti. Come mai interi secoli di KKK senza "posti riservati"?
Sembra chiaro: non esiste un legame solido tra "razzismo" e "posti riservati".
Chi vede nel governo la soluzione di molti problemi sarà sorpreso di apprendere che, in questo caso, il governo sta alla radice del problema. Chi legge gli editoriali di TS, sarà invece molto meno spiazzato.
Nell' Ottocento il trasporto pubblico era in mano a compagnie private e in un sistema del genere esistevano forti disincentivi economici a praticare la discriminazione razziale dei passeggeri. I bianchi erano razzisti come e più che nel Novecento ma erano anche gente "in affari", desiderosi di massimizzare i loro profitti.
Jim Crow invece non era "in affari", non aveva nessun profitto economico da massimizzare. Cio' gli consentì, sfidando la dura opposizione della lobby dei trasporti (aiutato dal fatto che le compagnie private andavano assottigliandosi per far posto alla mano pubblica), di emanare le sue leggi in Alabama.
Ormai si sarà capito che chi dice "i soldi non puzzano", spesso non si rende ben conto di cosa dice.
Se il telegiornale dell' ammiraglia berlusconiana non ci fa il lavaggio del cervello ogni sera, forse lo dobbiamo un po' anche al fatto che "i soldi non puzzano".
La resistenza delle compagnie a Jim Crow non fu certo motivata dall' idealismo tipico del Movimento dei diritti civili. Eppure, finchè il sistema non fu tolto ai privati, garantì libertà assoluta al "consumatore" di colore.
Certo, Jim Crow doveva vedersela con il 14esimo emendamento nel quale si stabilisce il pari trattamento dei cittadini. Bastò un manipolo di scaltri giuristi per aggirarlo.
La morale di questa storiella potrebbe essere la seguente: le minoranze facciano scarso affidamento sui polici e sulla giustizia per la protezione dovuta, puntando questi obiettivi la loro causa durerebbe decenni; puntino invece su un mercato in grado di responsabilizzare chi vi agisce dentro, quello stesso mercato che ai razzisti faceva pagar care le pratiche discriminatorie, quello stesso mercato che raggiungeva esiti antitetici rispetto alla politica di Jim Crow e della Corte Suprema.
sabato 24 maggio 2008
Silvio... macchine usate e frigidità.
Silvio Pellico: Le mie prigioni.
Non capisco perchè insista ad imbarcarmi nella lettura di classici italiani dell' Ottocento, visto che ormai ho compreso quanto mi riesca insopportabile la gonfia retorica con cui vengono zavorrati.
Ora è la volta di Silvio Pellico. Uno dalla scrittura asciutta ed essenziale. Almeno stando alle varie "Introduzioni".
Invece l' effetto insiste. Evidentemente la retorica non è oggettiva ma solo "percepita". Strano, neanche questa scoperta mi sprona nella lettura.
Silvio è personaggio dall' insipida perfezione: si sente mancare come una dama senza ventaglio quando resta esposto ad un' ingiustizia perpetrata contro terzi.
Ma sa andare ben oltre: come un Cristo in croce cerca di considerare ogni giustificazione che sollevi i suoi aguzzini.
Quando pensa alla Libertà e alla Patria, non dico che pianga sempre. Ma come minimo...geme. Sì, geme. Geme di continuo. E' un pianto interiore e silenzioso, tossicchiato fuori, tradito appena da qualche nuova corrugazione nella geografia del volto, da sommovimenti sussultori delle spalle robuste.
Ricopre i suoi cari di tenerezze e li preserva da ogni dispiacere, a costo di sopportare sulla sua persona le aspre conseguenze di tanta magnanimità. Gli piace "pagare" di persona e correre a scriverlo nel diario.
Figuriamoci se c' è speranza che uno così tradisca. Hanno capito tutti la pasta d' uomo e rinunciano da subito alla tortura privandomi di pagine che, nel mio sadismo, lo confesso, pregustavo.
Io, da Silvio, una macchina usata la comprerei di corsa se l' avessero già inventata. Se fossimo circondato da Silvii, i notai farebbero la fame.
Dietro le sbarre s' immonachisce e, anzichè graffitare le pareti con disegnini e motti osceni, trascorre il suo tempo in una mestizia dolce, piena di pace e pensieri religiosi. Il secondino lo rispetta d' istinto, la sua persona emana un carisma inconfondibile.
Solo ogni tanto sopraggiunge qualche malattia. Niente di grave, dice. E intanto atteggia una smorfia con cui comunica al mondo intero l' esatto contrario. Con parole scelte dissimula ogni effetto per non impensierire chi lo circonda e attirare su di sè cure che sarebbero preziose altrove. Con la smorfia attira da ogni dove cure che sarebbero state più preziose altrove.
Silvio sembra avere un unico messaggio interessante da comunicarci: come alleviare il soggiorno carcerario.
E' l' unico momento in cui i toni altisonanti si smorzano. I grandi ideali ci danno tregua, ora si parlerà di "trucchetti", di bassi espedienti con cui ingannare il proprio spirito nelle lunghe domeniche carcerarie. Lo ascolto con l' attenzione che dedicherei a Silvan qualora il permanentato si decidesse una volta per tutte a tradire la deontologia.
Scopro che per stare bene bisogna affliggersi.
Spiegazione. Poichè il demone più insidioso che visita il detenuto è l' inquietudine, al fine di coprirne gli effetti ed annullarne il maligno lavorio, la cosa migliore consiste nel soffrire, ma, si badi bene, per la sorte altrui.
Nel consegnarsi ostaggio di una compassione universale sempre pronta a scattare, il proprio spirito sega le sbarre e si libera. Dopo aver preso una boccata d' aria, rientra in noi rigenerandoci.
Spirito... devo sempre concentrarmi in modo innaturale per farmi un' idea di cosa intendano con questa parolina questi uomini ottocenteschi che ce l' hanno sempre in bocca e nel calamaio. Dopo un tot di riflessioni a libro ed occhi chiusi mi sembra quasi di averlo capito. Ma mai del tutto. Fa niente, dopo quel tot prevale comunque l' esigenza di procedere ( ho voglia di sbolognare l' affare e sono solo al capitolo quadragesimoquarto).
Altro consiglione: evitare la rabbia e l' ira. Qui le dritte di Silvio convergono con quelle dell' SS di Buchenwald. Io e il quindicenne di "Essere senza destino" troviamo tutto ciò di grande buon senso.
Non un rigo dell' intera memoria puo' dirsi toccato da rinfrescante spirito umoristico. Questo è grave per un lettore del ventesimo secolo. Deprimente per uno del ventunesimo.
Ideale dedicatario di Piazze e Vie, i libri del Silvio sembrano privi di quell' asfalto che ci consenta di scivolarci attraverso altrettanto celermente.
M' impaludo, m' impastoio. Mi preoccupo di essere solo al "capitolo vigesimoottavo".
Sento che devo far uso della mia arma segreta: rinunciare a concludere e andare dove mi porta l' appetito. Prima tento ancora con brevi letture ad apertura randomizzata ma alla monotonia del random si associa la monotonia dei paragrafi.
Adesso calma e gesso. Mi si conceda qualche riflessione finale affinchè le diottrie lasciate in quel libro non debbano essere considerate completamente perdute.
Ho un po' preso in giro il Pellico eppure, sia chiaro, il suo messaggio è alto, nobile, condivisibile. Ma, per quanto vi aderisca, non mi emoziona sentirmelo riformulare in continue variazioni di cui mi sfugge la sottigliezza e mi investe la monotonia. Smetto presto di cogliere sia il contenuto che le variazioni.
A scuola era abbastanza noioso e, clamoroso!, è noioso anche a distanza di anni, anche dopo averlo "riscoperto".
Purtroppo è così: quello che mi sembrava noioso a scuola mi ammorba ancora oggi, con tutte le esperienze di vita e di lettura attraverso cui sono passato. Sembra un miracolo.
Sono grandi libri che non avevo capito ed ora posso apprezzare per il veritiero messaggio. Però, devo compiacermene, la loro pesantezza inerte l' avevo capita eccome.
Il linguaggio impiegato dista troppo dal mio cuore. Lo comprendo, riesco a "tradurlo" e a giudicarlo positivamente come ho appena fatto. Riesco a dominarlo. E' lui, purtroppo, che non riesce a dominare me, è lui che non riesce a sorprendermi scottandomi: ha ormai la distanza e la tipepidezza dei classici.
Ecco la mia definizione di classico: testo innovativo e che stabilisce un' ascendenza.
Se, nella limitata cerchia delle mie letture, penso ad una stirpe de "Le mie prigioni", penso alle catene della Hillesum, a quanto la naturale spiritualità cristiana di una non cristiana, sia riuscita a farle levitare. Ecco allora che al messaggio di Pellico si affianca la bellezza del buonumore nel Lager. Ma, poichè la bellezza non tollera connubi: sparisce il messaggio, resta la Bellezza. La furia di quella dea mi fa perdere il controllo, proprio quello che cerco aprendo un libro. Etty riscatta per me il debito con Pellico (abbandonato al capo settuagesimonono), mi prende per mano e mi estrae dalla frigida palude dei classici. Noi ce ne andiamo finalmente a leggere. Ciao.
Ora è la volta di Silvio Pellico. Uno dalla scrittura asciutta ed essenziale. Almeno stando alle varie "Introduzioni".
Invece l' effetto insiste. Evidentemente la retorica non è oggettiva ma solo "percepita". Strano, neanche questa scoperta mi sprona nella lettura.
Silvio è personaggio dall' insipida perfezione: si sente mancare come una dama senza ventaglio quando resta esposto ad un' ingiustizia perpetrata contro terzi.
Ma sa andare ben oltre: come un Cristo in croce cerca di considerare ogni giustificazione che sollevi i suoi aguzzini.
Quando pensa alla Libertà e alla Patria, non dico che pianga sempre. Ma come minimo...geme. Sì, geme. Geme di continuo. E' un pianto interiore e silenzioso, tossicchiato fuori, tradito appena da qualche nuova corrugazione nella geografia del volto, da sommovimenti sussultori delle spalle robuste.
Ricopre i suoi cari di tenerezze e li preserva da ogni dispiacere, a costo di sopportare sulla sua persona le aspre conseguenze di tanta magnanimità. Gli piace "pagare" di persona e correre a scriverlo nel diario.
Figuriamoci se c' è speranza che uno così tradisca. Hanno capito tutti la pasta d' uomo e rinunciano da subito alla tortura privandomi di pagine che, nel mio sadismo, lo confesso, pregustavo.
Io, da Silvio, una macchina usata la comprerei di corsa se l' avessero già inventata. Se fossimo circondato da Silvii, i notai farebbero la fame.
Dietro le sbarre s' immonachisce e, anzichè graffitare le pareti con disegnini e motti osceni, trascorre il suo tempo in una mestizia dolce, piena di pace e pensieri religiosi. Il secondino lo rispetta d' istinto, la sua persona emana un carisma inconfondibile.
Solo ogni tanto sopraggiunge qualche malattia. Niente di grave, dice. E intanto atteggia una smorfia con cui comunica al mondo intero l' esatto contrario. Con parole scelte dissimula ogni effetto per non impensierire chi lo circonda e attirare su di sè cure che sarebbero preziose altrove. Con la smorfia attira da ogni dove cure che sarebbero state più preziose altrove.
Silvio sembra avere un unico messaggio interessante da comunicarci: come alleviare il soggiorno carcerario.
E' l' unico momento in cui i toni altisonanti si smorzano. I grandi ideali ci danno tregua, ora si parlerà di "trucchetti", di bassi espedienti con cui ingannare il proprio spirito nelle lunghe domeniche carcerarie. Lo ascolto con l' attenzione che dedicherei a Silvan qualora il permanentato si decidesse una volta per tutte a tradire la deontologia.
Scopro che per stare bene bisogna affliggersi.
Spiegazione. Poichè il demone più insidioso che visita il detenuto è l' inquietudine, al fine di coprirne gli effetti ed annullarne il maligno lavorio, la cosa migliore consiste nel soffrire, ma, si badi bene, per la sorte altrui.
Nel consegnarsi ostaggio di una compassione universale sempre pronta a scattare, il proprio spirito sega le sbarre e si libera. Dopo aver preso una boccata d' aria, rientra in noi rigenerandoci.
Spirito... devo sempre concentrarmi in modo innaturale per farmi un' idea di cosa intendano con questa parolina questi uomini ottocenteschi che ce l' hanno sempre in bocca e nel calamaio. Dopo un tot di riflessioni a libro ed occhi chiusi mi sembra quasi di averlo capito. Ma mai del tutto. Fa niente, dopo quel tot prevale comunque l' esigenza di procedere ( ho voglia di sbolognare l' affare e sono solo al capitolo quadragesimoquarto).
Altro consiglione: evitare la rabbia e l' ira. Qui le dritte di Silvio convergono con quelle dell' SS di Buchenwald. Io e il quindicenne di "Essere senza destino" troviamo tutto ciò di grande buon senso.
Non un rigo dell' intera memoria puo' dirsi toccato da rinfrescante spirito umoristico. Questo è grave per un lettore del ventesimo secolo. Deprimente per uno del ventunesimo.
Ideale dedicatario di Piazze e Vie, i libri del Silvio sembrano privi di quell' asfalto che ci consenta di scivolarci attraverso altrettanto celermente.
M' impaludo, m' impastoio. Mi preoccupo di essere solo al "capitolo vigesimoottavo".
Sento che devo far uso della mia arma segreta: rinunciare a concludere e andare dove mi porta l' appetito. Prima tento ancora con brevi letture ad apertura randomizzata ma alla monotonia del random si associa la monotonia dei paragrafi.
Adesso calma e gesso. Mi si conceda qualche riflessione finale affinchè le diottrie lasciate in quel libro non debbano essere considerate completamente perdute.
Ho un po' preso in giro il Pellico eppure, sia chiaro, il suo messaggio è alto, nobile, condivisibile. Ma, per quanto vi aderisca, non mi emoziona sentirmelo riformulare in continue variazioni di cui mi sfugge la sottigliezza e mi investe la monotonia. Smetto presto di cogliere sia il contenuto che le variazioni.
A scuola era abbastanza noioso e, clamoroso!, è noioso anche a distanza di anni, anche dopo averlo "riscoperto".
Purtroppo è così: quello che mi sembrava noioso a scuola mi ammorba ancora oggi, con tutte le esperienze di vita e di lettura attraverso cui sono passato. Sembra un miracolo.
Sono grandi libri che non avevo capito ed ora posso apprezzare per il veritiero messaggio. Però, devo compiacermene, la loro pesantezza inerte l' avevo capita eccome.
Il linguaggio impiegato dista troppo dal mio cuore. Lo comprendo, riesco a "tradurlo" e a giudicarlo positivamente come ho appena fatto. Riesco a dominarlo. E' lui, purtroppo, che non riesce a dominare me, è lui che non riesce a sorprendermi scottandomi: ha ormai la distanza e la tipepidezza dei classici.
Ecco la mia definizione di classico: testo innovativo e che stabilisce un' ascendenza.
Se, nella limitata cerchia delle mie letture, penso ad una stirpe de "Le mie prigioni", penso alle catene della Hillesum, a quanto la naturale spiritualità cristiana di una non cristiana, sia riuscita a farle levitare. Ecco allora che al messaggio di Pellico si affianca la bellezza del buonumore nel Lager. Ma, poichè la bellezza non tollera connubi: sparisce il messaggio, resta la Bellezza. La furia di quella dea mi fa perdere il controllo, proprio quello che cerco aprendo un libro. Etty riscatta per me il debito con Pellico (abbandonato al capo settuagesimonono), mi prende per mano e mi estrae dalla frigida palude dei classici. Noi ce ne andiamo finalmente a leggere. Ciao.
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