giovedì 11 ottobre 2018

Lavoratori di tutto il mondo: unitevi!

Lavoratori di tutto il mondo: unitevi!

Mentre l’ “immigrazione” delle merci ci ha conquistato al punto che siamo piacevolmente circondati da articoli dalla provenienza più disparata, l’immigrazione massiccia di persone da altri paesi ci lascia invece pensierosi e con un giudizio combattuto.
Gli economisti, loro, la fanno facile: poiché la ricchezza globale aumenta quando tutti i fattori produttivi – beni, servizi, capitale, lavoro – sono autorizzati a spostarsi, occorre lasciarli liberi di farlo. Punto e fine del discorso.
Magari fosse così semplice! Tuttavia, sono proprio considerazioni di questo genere a far sorgere spontanea una domanda: cos’ha di così speciale l’immigrazione? Una buona risposta l’ho trovata nel saggio di Eric A. Posner e Glen Weylintitolato “Uniting the World’s Workers”. Lo consiglio a tutti.
UN PO’ DI STORIA
Prima un po’ di storia, che non guasta mai. Il Mediterraneo è stata la culla di quei commerci che hanno fatto prosperare città come Atene, Cartagine e Roma. Più tardi, rotte commerciali come la Via della Seta – attraverso il mondo musulmano e l’ Asia – contribuirono a sostenere la civiltà medievale dell’ Occidente. Poco prima l’ impero romano era collassato in seguito alla migrazione distruttiva di molte tribù nomadi del nord: germani, unni, mongoli, a cui era sempre congiunta la minaccia turca.
Dal ‘500 gran parte del pianeta cominciò ad essere occupato da popolazioni sedentarie dedite all’agricoltura, la questione dei commerci con lo straniero divenne “affare di stato”. La filosofia che ben presto si impose fu quella mercantilista: occorre vendere beni all’estero  importando il meno possibile. Da qui, sussidi alle esportazioni e dazi sulle importazioni. In questa fase a preoccupare non era l’immigrazione ma l’ emigrazione, sempre vista di cattivo occhio: riduceva la forza di lavoro nazionale. Le politiche mercantilistiche gravavano sulle persone comuni ma generavano risparmi per lo stato che i governanti potevano così usare per ottenere cio’ che più agognavano: la supremazia militare (e quindi sempre maggiori colonie). Mercantilismo e imperialismo procedono insieme.
Ma ecco, sul finire del 700, spuntare all’orizzonte la pattuglia agguerrita dei pensatori radicali: Bentham, Smith e David Hume compiono un ribaltone nel mondo delle idee. Costoro spostarono il fuoco dell’analisi economica dall’interesse dei sovrani all’accumulo di ricchezza complessiva e al desiderio della gente comune di godere della prosperità. L’obiettivo diventava “massimizzare il bene comune”, un “bene” senza confini, s’intende. Il mercantilismo venne soppiantato dal libero mercato finendo così tra i ferri vecchi della storia. In realtà, dei fenomeni migratori veniva detto ben poco sebbene la logica delle merci valesse anche per il lavoro.
IL DIBATTITO
Ma perché questo sbilanciamento nell’analisi? Perché occuparsi solo dei beni? Una ragione per porre l’enfasi sul commercio a scapito della migrazione era che nei secoli XVIII e XIX i guadagni dal commercio erano molto più cospicui rispetto a quelli possibili con la migrazione dei popoli. Diamo un semplice dato che la dice lunga: la disuguaglianza – misurata in termini % di scostamento da una distribuzione perfettamente egalitaria – TRA i paesi è aumentata da circa il 7% nel 1820 a circa il 70% nel 1980. D’altra parte, la disuguaglianza media all’interno dei paesi è cambiata molto più gradualmente durante questo periodo: da circa il 35% nel 1820 a circa il 38% nel suo apice poco prima della I guerra mondiale, per poi scendere a un minimo del 27% negli anni ’70. Da allora è scesa ancora fino al 24%. Tradotto: mentre oggi, dopo una grande esplosione, pesa la diseguaglianza internazionale, in passato è sempre stata quella interna a preoccupare. E’ chiaro che mentre il primo nemico (diseguaglianza internazionale) si combatte con la libera migrazione, il secondo si combatte con la lotta ai monopoli e con il mercato liberato da dazi e licenze. Nelle moderne economie sviluppate, una famiglia di reddito medio gode di uno standard di vita simile a quello delle famiglie più ricche dei paesi poveri, in un mondo come il nostro attuale la migrazione è necessariamente la via primaria per il benessere e la prosperità della maggior parte delle persone nel mondo. Ieri, al contrario, era naturale per i “radicali” concentrarsi sulla liberazione dei mercati dai privilegi aristocratici. Spero sia chiaro ora perché il grande dibattito intellettuale sulla migrazione iniziò solo tra la fine del diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo.
In questo dibattito le attitudini verso la migrazione erano le più diverse, Karl Marx, ad esempio, temeva che l’uso strategico dell’immigrazione irlandese da parte dei capitalisti britannici dividesse la classe operaia internazionale e minasse il socialismo nascente. Ma in questa fase, a ben vedere, la tecnologia ha ben presto preso il sopravvento sulle idee, all’inizio del XX secolo si verificò un decisivo cambiamento: i transatlantici facilitarono il movimento delle masse lavoratrici, per esempio verso le americhe. L’ascesa di sentimenti etno-nazionalistici nelle popolazioni locali si sviluppò di pari passo. L’emigrato, per quanto alacre  lavoratore, era regolarmente un escluso, considerato come fonte di contaminazione venefica del prezioso patrimonio culturale locale. In questo senso quella istintiva avversione xenofoba che molti provano si pone in continuità con quanto si è sempre visto altrove in passato.
LA SVOLTA INTERNAZUONALISTA
La seconda guerra mondiale segnò il definitivo e catastrofico fallimento pratico dei nazionalismi mercantilisti, cosicché è del tutto naturale che dopo quella guerra i leader occidentali, memori del passato e del patrimonio di idee messo a disposizione dai “radicali”, cercarono di costruire un sistema internazionale. C’è stato così un rinnovato impegno per l’apertura del commercio  e un proliferare di governance più o meno internazionali ma, ancora una volta, mentre importanti risorse intellettuali e politiche furono impiegate  per organizzare un mercato a tutto campo dei beni e dei capitali, la migrazione ricevette scarsa considerazione. L’ UE, per esempio, si è sempre mostrata sensibile alle tematiche del commercio internazionale, della stabilizzazione monetaria e macroeconomica e della finanza per lo sviluppo. Immigrazione, nisba.
Sul finire del XXI secolo alle crescenti disuguaglianze tra paesi ricchi e paesi poveri e ai notevoli progressi nel settore dei trasporti si è unita una tecnologia dell’informazione che ha ulteriormente facilitato gli spostamenti. Le sponde del Rio Grande che separano USA e Messico, nonché il Mediterraneo che separa Europa e Africa, sono diventate campi di battaglia in cui un buon numero di vittime è stato mietuto.
LE SOLUZIONI IMPROVVISATE
Negli USA il messicano è sempre stato visto come un “lavoratore stagionale”: la tolleranza per l’immigrazione clandestina consentiva di coniugare la presenza di una forza lavoro precaria utile ai produttori con il sentimento ostile dei locali che poteva così dirsi giustificato. In Germania, altro esempio, il governo ha permesso ai lavoratori turchi di stabilirsi nel paese, ma non ha concesso loro la cittadinanza. Stando in Europa possiamo ben dire che le prime tensioni si sono già manifestate con la migrazione “interna”, in particolare con il movimento da paesi dell’Europa orientale a bassi salari (come la Polonia) verso  paesi con salari più alti come Francia o Regno Unito. Ulteriori tensioni sono state create nel 2015 e nel 2016, quando l’Europa ha accettato a malincuore un massiccio afflusso di rifugiati dalla Siria dilaniata dalla guerra.
LA NUOVA FRONTIERA DELLA RICCHEZZA
Oggi possiamo ben dire che il guadagno da un’ulteriore apertura degli scambi internazionali di beni è minimo. Abbiamo spremuto il limone, insistere non vale la pena. Allo stesso tempo, i benefici della liberalizzazione migratoria si sono notevolmente ampliati. Facciamo un esempio: un tipico migrante messicano che si trasferisce negli Stati Uniti aumenta i suoi guadagni annuali da circa 4.000 dollari a circa 14.000, e il Messico è un paese abbastanza ricco per gli standard globali. Figuriamoci casi estremi come per esempio Haiti e Francia, che in comune hanno persino la lingua!
Esperimento mentale: supponiamo che il club dei paesi ricchi accetti sul suo territorio un numero di migranti tale da raddoppiare la propria popolazione. Supponiamo poi che ciascun migrante incrementi il suo reddito di 11.000 dollari (stima conservativa, vedi caso messicano). Bè, cio’ significherebbe aumentare in media il reddito di ogni persona sul pianeta di circa di circa 2.200 dollari. Un esito spettacolare: circa il 20% in più nel reddito planetario. E i guadagni andrebbero soprattutto ai più deboli. Coloro che soggiornano nei paesi poveri, infatti, sarebbero notevolmente avvantaggiati dal fatto che la maggior parte dei migranti rimette buona parte di quanto guadagna nei paesi di origine.
E allora: perché, come dicono gli economisti, non aprire i confini a tutto campo? Mentre l’enorme ondata migratoria ridurrebbe in parte i salari dei lavoratori nei paesi ricchi, il benessere globale aumenterebbe in modo spettacolare. Una teoria non campata in aria ma con applicazioni ben precise: i confini degli Stati Uniti sono stati completamente aperti per più della metà della storia di questo paese e gli effetti, come previsto, sono stati entusiasmanti in termini di prosperità realizzata e potenza acquisita. I problemi sociali causati dalle migrazioni sono stati spesso gravi, compresa una considerevole quantità di conflitti civili, ma tutto sommato gestibili.
IL DITO NELLA PIAGA
Il dito nella piaga lo hanno messo studiosi come Wolfgang Stolper e Paul Samuelson (“Protection and Real Wages”):mentre il commercio tra una coppia di paesi aumenta quasi sempre in modo abbastanza armonioso la ricchezza aggregata di entrambi, l’immigrazione può avere effetti redistributivi pesanti per alcune categorie di persone poiché avvantaggia i capitalisti nei paesi ricchi e i lavoratori nei paesi poveri a spese dei lavoratori dei paesi ricchi e dei capitalisti nei paesi poveri. In altri termini, l’immigrazione riduce gli stipendi dei lavoratori locali il cui background è più simile a quello dei migranti, il tutto a fronte di un cospicuo beneficio per i migranti stessi e i loro datori di lavoro.
In questo senso l’ Europa è messa ancora peggio degli USA (terra di università in grado di attirare la crema): la maggior parte dei migranti che giunge in Europa oggi è non qualificata e proviene per lo più da ex colonie, oppure sono rifugiati accolti principalmente per motivi umanitari piuttosto che economici. E’ chiaro che in un caso del genere i più colpiti da questa immigrazione di bassa lega sono persone già in difficoltà. Senza contare che i paesi europei hanno un insieme più generoso di benefici sociali elargiti. Conclusione: i migranti diretti verso l’Europa – molto più che quelli diretti verso gli USA – sono poco qualificati e in competizione con la classe di cittadini più disagiata,  sia per il lavoro che per il welfare.  Molti europei non sono solo astrattamente consapevoli della possibilità che i migranti competano per i limitati servizi sociali, ma constatano la cosa ogni giorno con i loro occhi. Basta una gita al Pronto Soccorso per verificare di persona. L’impressione generalizzata è che, in buona parte, il lavoratore migrante rappresenti un onere aggiuntivo per i servizi pubblici.
Riassunto: enormi vantaggi ai migranti stessi e alle loro famiglie a casa, ai datori di lavoro, ai capitalisti e ai lavoratori altamente qualificati che possono collaborare con un lavoratore a loro complementare. Svantaggi invece per la manodopera generica, già colpita dalle grandi imprese, dall’automazione e dal potere crescente delle concentrazioni finanziarie. A questo, per completare il quadretto, aggiungiamo l’istinto tribale tipico di ogni gruppo umano.
Le élite che controllavano a quei tempi i governi nei vari paesi e che sostenevano la migrazione riuscirono ad eludere il malcontento generalizzato varando leggi dure che poi però lasciavano nei fatti inapplicate: la presenza di molti clandestini dava comunque l’impressione che bastasse un repulisti deciso per risolvere il problema.
SOLUZIONE
Oggi la migrazione verso i paesi dell’OCSE è controllata da burocrati governativi, ovvero dall’alto. Un sistema decisamente alternativo è quello delle aste proposto da Gary Becker. Si tratta in buona sostanza di vendere all’ asta il permesso di soggiorno al miglior offerente. Il ricavato costituirebbe un dividendo sociale da distribuire ai “danneggiati” di cui sopra.
Primo vantaggio: una gran parte dei guadagni derivanti dalla migrazione viene assegnata alla gente comune piuttosto che alle imprese. Secondo: si ammorbidisce l’opposizione politica. Infine, si riduce il ruolo della burocrazia: un cospicuo numero di ricerche mostra che i sistemi di ingresso basati sull’arbitrio dei burocrati sono destinati a creare insoddisfazione. I sistemi che invece mettono al centro i datori di lavoro sembrano funzionare decisamente meglio.
Supponiamo ora che i migranti offrano in media 6.000 dollari all’anno per un visto. Ebbene, Il reddito familiare medio per una famiglia di quattro persone negli Stati Uniti è di circa 50.000 dollari, con le ipotesi fatte in precedenza una tale famiglia guadagnerebbe circa 8.000 dollari con il sistema delle aste. Non male. Ma le aste hanno un punto debole:  il denaro non è l’unica cosa che conta in tema di migrazione, esiste anche l’aspetto culturale.
UNA SOLUZIONE… MIGLIORE
Esiste un modo per far sì che gli “svantaggiati” possano anche avere voce in capitolo sul “tipo” di immigrati in arrivo? Sì. Già oggi, negli USA, il programma H1-B consente al datore di lavoro di farsi “sponsor” del lavoratore straniero. Perché allora non consentire anche alla persona comune di prendersi un immigrato e diventare suo sponsor? Un programma del genere viene denominato “Visas Between Individuals Program” (VIP). Con VIP qualsiasi persona potrebbe sponsorizzare un lavoratore migrante, non ha senso riservare in modo esclusivo questo ruolo al datore di lavoro (o alla famiglia, in caso di ricongiungimenti).
Facciamo un caso. Antonio è un operaio edile recentemente licenziato che vive a Buccinasco vicino a Milano.  Antonio apprende l’esistenza di un progetto della Regione che gli consente di sponsorizzare un lavoratore migrante, cosicché si reca in agenzia e descrive il tipo che vorrebbe “importare”. Allo stesso tempo vorrebbe avviare un’attività in ambito edile in cui potrebbe lavorare il suo sponsorizzato. Il sito mette Antonio in contatto con un nepalese di nome Bishal che risponde ai requisiti. Attraverso un traduttore Antonio prende contatto con il candidato sottoponendolo ad un colloquio. Alla fine ci si accorda affinché Bishal lavori per un anno con Antonio per  12.000 euro risiedendo nella stanza degli ospiti di Antonio. Probabilmente Bishal, una volta qui, otterrà un lavoro ancora migliore sempre nel settore delle costruzioni, magari verranno valorizzate alcune competenze significative ottenute grazie alle sue precedenti esperienze negli Emirati Arabi, e alla fine la paga sarà di 20.000 euro per i restanti undici mesi. Antonio incamera i suoi 8.000 euro di differenza e Bishal si tiene il concordato. E se le cose vanno male? Cosa succede se Bishal non riesce a trovare un lavoro? O se si ammala e ha bisogno di essere ricoverato in ospedale? O cosa succede se commette crimini o semplicemente scompare? E’ necessario rendere Antonio responsabile affinché scelga bene. Già oggi gli sponsor nei ricongiungimenti devono fornire sostegno finanziario ai migranti che non possono sostenersi da soli. Se Bishal non è in grado di trovare lavoro, Antonio deve sostenerlo. Se Bishal commette un crimine, verrà deportato dopo aver scontato la sua pena e Antonio sarà tenuto a pagare una multa. Se Bishal scompare, anche qui Antonio verrà multato. Potrebbe anche essere possibile, per mutuo accordo, che Antonio ceda Bishal a un altro sponsor.
Affinché il sistema funzioni occorre che i lavoratori migranti debbano poter lavorare al di sotto del salario minimo o con alcune regole allentate. In secondo luogo, l’applicazione delle leggi contro l’mmigrazione irregolare dovrebbe essere rafforzata. Il principio di fondo deve essere chiaro: più generosità solo in cambio di più rigore.
Obiezione: la cosa si configura quasi come una servitù a contratto, non c’è rischio di “sfruttamento”? Risposta: i lavoratori stranieri, al netto degli allentamenti di cui sopra, sono comunque tutelati dalle stesse leggi sulla salute, sicurezza, lavoro e impiego di cui gli beneficiano gli italiani.
Il VIP supera le debolezze dell’asta semplice: l’asta di Becker è gestita dal governo, non da individui o comunità. Attirerà i migranti disposti a pagare di più a prescindere dal fatto che determinati tipi di migranti possano essere socialmente e culturalmente problematici. VIP implicherebbe invece contatti personali tra italiani e migranti con una responsabilizzazione dei primi.
Per realizzare al meglio VIP c’è innanzitutto un problema di competenze: Antonio potrebbe essere troppo occupato e mancare delle capacità  manageriali o della conoscenza dell’economia locale necessaria per muoversi al meglio quando decide di “importare” un immigrato. Tuttavia, questo è un problema ubiquo sul mercato: decine di istituzioni sono emerse nel tempo per aiutare le persone a superare simili ostacoli.
Ma Antonio potrebbe anche maltrattare o sfruttare Bishal, potrebbe, per esempio, trattenere illegalmente i salari del nepalese. La cosa non puo’ essere sottovalutata ma va osservato che i lavoratori sono più vulnerabili quando la loro condizione è illegale, nel nostro caso non è così. Quando i potenziali datori di lavoro sono poi costretti a competere, i lavoratori di solito prosperano.
NEL MONDO
Guardiamoci un po’ intorno, alcuni sistemi migratori funzionano bene, altri, magari con meno immigrati, sono sull’orlo del collasso. I sistemi di migrazione negli Emirati Arabi Uniti, Qatar, Kuwait, Bahrain, Oman e Arabia Saudita sembrano non creare malcontento nella popolazione. Anzi! Il Bahrain e l’Oman ospitano all’incirca un migrante per ogni nativo. L’Arabia un migrante per ogni due cittadini. Singapore ospita due migranti per ogni tre nativi. Australia e Nuova Zelanda hanno un residente nato all’estero per ogni due indigeni. Toronto ha numeri simili a quelli dell’Arabia. Ebbene, nessuno di questi paesi (con la possibile eccezione dell’Australia) ha subito una forte reazione popolare contro la migrazione. Perché? Tutti questi paesi hanno sistemi di migrazione progettati affinché i benefici della migrazione siano ampiamente condivisi dai nativi piuttosto che da un piccolo gruppo di imprenditori già ricchi. Nei paesi del Golfo i lavoratori migranti godono poi di pochi diritti civili e vivono in segregati. Sempre lì molti nativi hanno beneficiato della ricchezza prodotta dai migranti attraverso una generosa redistribuzione della ricchezza prodotta. Sempre nel golfo il cittadino può sponsorizzare un migrante. Certo, questi paesi  trascurano i diritti della loro forza lavoro migrante e anche solo per questa sola ragione non possono essere un modello per i paesi dell’OCSE, tuttavia, la lezione resta: una reazione populista  contro le migrazioni massicce non è affatto inevitabile.
UN PRECEDENTE DI SUCCESSO
Pensando agli USA, immaginiamo che 100 milioni di persone sponsorizzino un lavoratore migrante a testa. Il numero di lavoratori migranti aumenterebbe drammaticamente, da 24 milioni a 100 milioni: una rivoluzione dal basso!
L’obbiettivo di fondo è quello di coinvolgere le persone delle classi subalterne  che sarebbero attratte dai benefici finanziari della sponsorizzazione. Nelle dinamiche migratorie, molte delle persone che potrebbero essere colpite duro dalla maggior concorrenza dei nuovi arrivati, troveranno una compensazione guadagnando come  sponsor. Le fabbriche che si sono trasferite all’estero potrebbero anche tornare offrendo nuovi posti di lavoro, questo almeno se fosse disponibile in patria una massa di lavoratori a costi più contenuti. Sarebbe una rivoluzione simile a quella che ha visto l’entrata delle donne nel mondo del lavoro verso la metà del XX secolo. In quel momento, grazie al fatto che la maggior parte degli uomini aveva stretti rapporti con donne coinvolte (padri, mariti, fratelli e figli), si è assistito ad una compensazione che ha riconciliato i “danneggiati” con i cambiamenti in atto. Ecco, il VIP cerca di ricreare una dinamica simile.
DISEGUAGLIANZE
Una preoccupazione avanzata comunemente sostiene che VIP aumenterebbe la disuguaglianza nei paesi ospitanti. Le classi medie e lavoratrici del paese ospitante trarrebbero sì un beneficio, ma una nuova classe di lavoratori migranti molto poveri andrà a formare il nuovo ceto subordinato. Prima risposta: è fondamentale riconoscere che tale migrazione non creerebbe nel complesso più disuguaglianza, la renderebbe  solo  più visibile perché più vicina a noi, nulla di sostanziale. Seconda risposta: mentre la disuguaglianza all’interno dei nostri paesi potrebbe aumentare (rispecchiando i livelli di ricchezza più bassi dei lavoratori stranieri), la disuguaglianza globale diminuirà. Terza risposta: dobbiamo riconoscere che noi  abbiamo già una classe subordinata di lavoratori a basso salario: sono gli stranieri clandestini. Ora, ciò non significa negare che ci sia qualcosa di inquietante nella posizione subordinata in cui il sistema proposto posizionerebbe i lavoratori migranti, tuttavia non si puo’ riconoscere che siamo pur sempre in presenza di un miglioramento morale rispetto all’ipocrisia del sistema attuale.