sabato 20 ottobre 2018

Non avveleniamo il “pasto gratis”! SAGGIO


Non avveleniamo il “pasto gratis”!


Lettera aperta ad un amico ambientalista.
Carissimo, sul tema dell’ambiente abbiamo sempre litigato, tuttavia sappi che riconosco le tue buone intenzioni e so bene che sei mosso da una spinta morale genuina. Ma direi di più, da un vero e proprio desiderio di bellezza! Odi gli economisti che continuano a ripeterti in modo ottuso: “non esistono pasti gratis”. Tu sai invece benissimo che esistono eccome i “pasti gratis”: il nostro pianeta è per noi un dono gratuito, così come è uno spettacolo completamente gratuito quello che offre a tutti il sole mentre cala tra le brume generando mille riflessi che neanche il più geniale artista saprebbe immaginare. Quanto più questi doni vengono apprezzati, tanto più si vorrebbe preservarli, e tu sei tra queste anime sensibili. Ma poiché anch’io aspiro ad essere della compagnia diventa necessario un chiarimento nel merito.
L’OBIEZIONE
Conosco a memoria la tua fondamentale obiezione all’economia del nostro tempo, la riassumerei così, dimmi se sbaglio: la continua crescita della ricchezza richiede massicce emissione di biossido di carbonio, ma, come tutti sappiamo, l’atmosfera si sta riscaldando proprio a causa di questo pernicioso effetto collaterale. Incentivando una crescita continua del benessere materiale dei popoli  e spingendo al massimo i motori dell’economia di mercato globale  finiremo per sacrificare l’ambiente in cui tutti viviamo. Con una formula icastica proposta da quel Papa Francesco che tanto ti piace (tranne quando parla di Cristo) possiamo ben dire che la nostra è, a lungo termine, “un’economia che uccide“: uccide prima il pianeta e poi i suoi abitanti.
Insomma, tu ti rappresenti il rapporto tra ricchezza e qualità dell’ambiente come un compromesso: o uno o l’altro. Ma i miei dubbi che le cose stiano proprio come tu dici sono sempre stati forti, soprattutto quando osservo che la ricchezza: 1) ci difende meglio dai disastri ambientali, 2) agevola la scoperta di soluzioni ai guai ambientale e 3) sensibilizza alla causa verde.
Una disamina articolata del dilemma che prenda in considerazione tutti i feedback tra ambiente ed economia l’ho trovata nel saggio di Bas van der Vossen e Jason Brennan “L’obiezione del cambiamento climatico alla crescita economica”. Te ne raccomando la lettura. I due, sulla base di quanto appena detto, si chiedono se il pericolo ambientale consigli di rettificare o di rafforzare il percorso intrapreso dalla civiltà occidentale da almeno due secoli.
UTOPIA
Da tempo l’ ONU – che tu vedi come un baluardo della scienza-  si è posto su questi temi obbiettivi ambiziosi, come per esempio quello di “stabilizzre le concentrazioni di gas serra nell’atmosfera a un livello tale da prevenire pericolose interferenze antropogeniche con il sistema climatico”.
Peccato che le temperature continueranno a salire per almeno altri 50 anni qualunque cosa si faccia. In altri termini, i livelli di carbonio attualmente nell’atmosfera rendono già oggi tutto quel che si vorrebbe prevenire  inevitabile.
IL VERO DILEMMA
Una volta appurato che la stabilizzazione non basta, la reale domanda  da porsi riguarda il fatto se sia sensato agire con una radicalità sufficiente per abbattere le emissioni. La questione, insomma, è “ come” organizzare la vita su un pianeta più caldo e non “se” il nostro pianeta sarà tale.
Oggi la crescita delle emissioni è da imputare soprattutto ai paesi in via di sviluppo, per questo il dilemma povertà/ambiente è così pressante: cose come infrastrutture, assistenza sanitaria, istruzione, trasporti e tempo libero, così come la disponibilità di frigoriferi, lavatrici e aria condizionata, sono essenziali per risolvere i problemi della povertà nel mondo. Tuttavia, nello stesso tempo,  rischiano di pregiudicare il clima futuro.
LE PROPOSTE VERDI
Sul punto la tua posizione e quella dei tuoi amici, mi è sembrato di capire, non è univoca. Alcuni chiedono che la crescita economica dei paesi in via di sviluppo si fermi. Altri che continui ma sia controbilanciata da una decrescita della nostra. Altri ancora spingono per pesanti investimenti in produzione di energia pulita in modo da avere la botte piena e la moglie ubriaca: meno povertà senza danni per l’ambiente.
Chi paga, quindi? Nel primo e nel secondo caso si mira a imporre i costi a popolazioni diverse, mentre nel terzo caso si lascia aperta la questione.
Tra poco affronterò una per una le varie proposte, purché sia chiara la natura comparativa della scelta. Cioè, non possiamo sostenere una certa politica senza chiederci se i costi che impone (riscaldamento/mancata crescita) siano accettabili alla luce delle alternative disponibili.
L’EQUIVOCO DA DISSIPARE
Tutti, a parole, sembrano abbastanza d’accordo che i maggiori sacrifici non ricadano sui poveri della terra, tuttavia molti – e a volte mi sembra di poterti ricomprendere nel novero – partono da un assunto errato nei loro ragionamenti, non sembra cioè che abbiano molto chiara la relazione complessa tra ricchezza e ambiente. Per costoro la terra, se rispettata, fornisce condizioni climatiche ideali e un ambiente adatto all’uomo. Sotto inteso: è stata l’industrializzazione a rovinare questa armonia.
La realtà è piuttosto diversa: senza tecnologia (e quindi crescita economica) la maggior parte della Terra è un posto inospitale per noi. Senza tecnologia, molti posti risultano troppo freddi e molti altri troppo caldi. Ciò che nella gran parte dei casi rende la Terra vivibile è proprio la tecnologia. La nostra capacità di vivere bene in tutto il mondo deve quasi  tutto alla tecnologia e alla ricchezza che abbiamo saputo ottenere spremendo le risorse del pianeta.
Quando le persone sono povere, non solo hanno maggiori probabilità di soffrire di fame o le malattie, ma la loro capacità di far fronte alle intemperie e ai disastri meteorologici è anche molto indebolita, non è un caso se le morti legate alle condizioni meteorologiche siano diminuite drasticamente nel secolo scorso, e questo nonostante la popolazione sia cresciuta. Tali morti, infatti, sono circa un cinquantesimo rispetto a 80 anni fa. I costi dei disastri naturali sono  aumentati perché siamo più ricchi ma il pedaggio in termini di vite umane si è abbassato. La logica sottostante sembra chiara,  se i paesi sono ricchi, i costi economici dei disastri tendono a salire ma è molto meglio, ovviamente, essere ricchi e avere la villa danneggiata piuttosto che essere poveri e perdere tutto quello che hai, ovvero la tua baracca; questo anche se la baracca si presenta a livello statistico come una perdita economica minore.
Conclusione: la ricchezza ci consente di affrontare meglio tempeste e terremoti. Le persone ricche possono avere consumi strampalati che molti condannano come “mero spreco”, ma sono anche persone più “propense” a sopravvivere ai disastri. Sono meglio attrezzate per evitarli, vivono in case più robuste, hanno sistemi di allarme migliori e ricevono un aiuto migliore nel momento del bisogno, tanto è vero che il rischio di morte per fattori ambientali è molto più alto nei paesi poveri.
Altro vantaggio del mondo ricco: è un mondo in cui più menti possono applicarsi a problemi di alto livello (tipo il riscaldamento globale). Altrove, purtroppo, i bisogni di base assorbono l’intero potenziale cognitivo disponibile in loco.
QUANTUM
Certo, anche procedere sulla solita strada senza  badare all’ambiente produce inconvenienti, su questo hai ragione, nessuno lo nega. Ma come quantificarli? Sentiamo William Nordhaus: “per dare un’idea dei danni nel caso in cui si stia  fermi… fino al 2095 si stimano circa 12 trilioni di dollari, ovvero il  2,8% della produzione globale, per un aumento della temperatura globale di 3,4 ° C sopra i livelli del 1900”. Tradotto: un po’ come sospendere la produzione per sei mesi in un secolo (oggi la crescita media mondiale è oltre il 4% all’anno). In sé non è molto, è come arrivare alla meta secolare sei mesi dopo. Al contrario, fermare la crescita per salvare il clima condannerebbe miliardi di persone a “povertà e malattie per un futuro indefinito” (sempre parole del neo-Nobel).
Ricapitolando: il cambiamento climatico ci fa star peggio, la crescita economica ci fa star meglio. Ciò che dovremmo fare dipende dalla potenza relativa di queste due forze contrapposte, tenendo sempre a mente che se la crescita non viene intralciata dalle tue politiche predilette l’abitante  medio della Terra, entro il 2095, sarà tanto ricco quanto il tedesco medio o il canadese medio di oggi.
Chiuderei questa sezione con un’immagine eloquente: i Paesi Bassi e il Bangladesh sono entrambi in larga parte sotto il livello del mare ma nei Pesi Bassi nessuno teme un innalzamento del livello dei mari come invece accade in Bangladesh. Il medesimo fenomeno che passa inosservato nel primo paese sarebbe funesto  per il secondo. Perché? Perché gli olandesi possono proteggersi: sono ricchi! Ok?
DISTRIBUZIONE
Tuttavia, tu come molti ritieni che un’ulteriore crescita economica – con relativo inquinamento – non sia necessaria nei paesi poveri poiché quanto abbiamo già oggi in tasca, se opportunamente redistribuito, basterebbe a risolvere la piaga sella povertà mondiale. In altri termini, ci serve solo riallocare le risorse che già abbiamo.
Solo qualche osservazione in merito, primo: il congelamento della produzione mondiale ai livelli attuali non fermerà il riscaldamento globale (vedi sopra).
Secondo è alquanto discutibile se la produzione attuale sia sufficiente per porre fine alla povertà mondiale. Infatti, il prodotto pro capite mondiale nel 2015 è stato di circa 16.000 dollari, ovvero pari alla soglia di povertà in USA.
Ma poi c’è una questione pratica grande come una casa: non tutta la produzione economica si presenta in  forma idonea ad essere convertita in reddito da ridistribuire lontano da dove viene alla luce. La ridistribuzione burocratizzata tra nazioni ha precedenti disastrosi che hanno bruciato ricchezza anziché trasferirla. Agire in quei termini si prospetta come l’ennesimo spreco colossale. Anche perché il programma di povertà che veramente funziona, ovvero la libera migrazione dei popoli, sarebbe poi moralmente più problematico da giustificare in presenza di una grande macchina ridistributiva.
STOP AI RICCHI
Prendo ora in esame l’ ipotesi alternativa che avanzi quando cogli le difficoltà della prima, quella per cui non dovremmo stoppare la crescita economica nei paesi poveri quanto piuttosto  nei paesi ricchi. Si presenta subito un problema non da poco a cui abbiamo già accennato: la relazione perversa tra crescita, danni ambientali e capacità di fronteggiarli. E’ proprio grazie alla spinta innovativa dei paesi di frontiera, ovvero i più ricchi, che noi abbiamo più opportunità di scoprire una soluzione definitiva al riscaldamento globale: quanto più li freniamo, tanto più questo lieto fine si farà improbabile.
Ma c’è di più. Sembra infatti che nella sensibilità su questi temi ci sia un punto di svolta allorché il PIL pro-capite del paese esaminato supera la soglia dei 9.000 dollari, a questo punto, cioè, si comincia ad inquinare meno. Motivo? Un po’ la tecnologia pulita disponibile ma soprattutto la coscienza ambientale ormai pienamente formata. L’esempio USA parla chiaro: le emissioni di carbonio nel 1900 erano 1,8 tonnellate per 1.000 dollari di PIL (anno riferimento valuta 2005). Hanno poi raggiunto un picco negli anni ’30 oscillando intorno alle 2,8 tonnellate per 1.000 dollari di PIL. Da allora sono crollate costantemente, e oggi si aggirano sulle 0,4 tonnellate per 1.000 dollari di PIL.
Potremmo sintetizzare così il concetto di fondo: la cura dell’ambiente è un bene di lusso e come tutti i beni di questo tipo è più richiesto nelle società opulente.
Conclusione: se intervieni sulla crescita dei paesi ricchi: 1) sei poco efficiente poiché i paesi ricchi inquinano già molto poco, 2) impedisci alla coscienza ambientale di formarsi in modo pieno e 3) ridimensioni la probabilità di innovare nel settore delle energie pulite.
TASSARE I RICCHI
Consideriamo ora l’ultima soluzione proposta dal movimento ambientalista di cui fai parte: ridurre la crescita complessiva risarcendo della  perdita sopportata i paesi svantaggiati. Si tratterebbe ancora una volta di tassare i ricchi e trasferire ai poveri.
Questa proposta si scontra con un fenomeno spesso dimenticato ma ben noto agli economisti: i ricchi sono impossibili da tassare. Detto in altri termini, i paesi non sono economie autarchiche, cosicché ciò che accade in uno di loro si ripercuote necessariamente sugli altri. Se un paese ricco sopporta dei costi aggiuntivi non è detto che alla fine sia lui a farsi carico della sofferenza aggiuntiva. Tanto per capirsi, se tasso Paris Hilton lei pagherà l’onere aggiuntivo chiudendo uno dei suoi hotel in Nevada (che non sapeva e non saprà mai nemmeno di avere) e licenziando tutti, non certo rinunciando alla parure di brillanti che tanto agogna.

LE TRE SOLUZIONI DELL’ANTI-AMBIENTALISMO

Tenendo sempre presente il concetto fondamentale per cui ridurre le emissioni e ridurre la crescita sono cose differenti, vediamo ora tre possibili interventi coerenti con quanto detto. Te le sottopongo, fammi sapere cosa ne pensi. 
Primo. Ridurre i sussidi ai combustibili fossili. Sembrerebbe ovvio ma se ne parla poco. Le sovvenzioni per i combustibili fossili in tutto il mondo ammontano a circa 500 miliardi di dollari all’anno. La maggior parte di questi vengono elargiti in via di sviluppo, specialmente in quelli ricchi di petrolio come il Venezuela o l’Arabia Saudita.
Secondo. Carbon Tax a tutto campo. Incentiva l’utilizzo di tecnologie meno inquinanti senza distorcere i processi economici legati al mercato e allo sviluppo.
Terzo. Favorire l’immigrazione dai paesi in via di sviluppo. Oltre ad essere il programma anti-povertà che funziona meglio, consente agli ultimi di diventare produttivi utilizzando le tecnologie più avanzate e meno inquinanti.
L'immagine può contenere: spazio all'aperto
Félix Vallotton Soleil couchant dans la Brume 1911