Quelle che se la vanno a cercare…
Lo studio della violenza carnale è dominato da un imperativo morale: ridurne la frequenza.
Eppure il pragmatismo sembra spesso cedere all’ideologia di turno.
Nella vita intellettuale moderna l’imperativo morale prevalente nell’analisi di questo fenomeno consiste nel proclamare che la violenza carnale non ha nulla a che vedere con la sessualità quanto piuttosto con una “cultura del possesso” che vittimizzerebbe le donne. Le donne sono un possesso dell’uomo da usare a piacimento come fossero oggetti.
Per molti “… lo stupro è un abuso di potere e di dominio in cui lo stupratore tende a umiliare, coprire di vergogna la vittima…”.
Oppure: “lo stupro non c’entra con il sesso; c’entra con la violenza e con l’uso del sesso per esercitare il potere e il dominio. … La violenza in famiglia e l’aggressione sessuale sono manifestazioni delle stesse potenti forze sociali: il sessismo e l’esaltazione della violenza”.
Questa la visione politically correct.
La teoria ufficiale dello stupro ha origine in “Contro la nostra volontà”, un importante libro scritto nel 1975 da Susan Brownmiller, femminista di genere, secondo la quale gli uomini sono socialmente condizionati da una cultura patriarcale.
E in effetti fino agli anni Settanta il sistema giuridico e la cultura di massa affrontavano lo stupro prestando ben poca attenzione agli interessi delle donne. Le vittime, se non volevano essere giudicate consenzienti, dovevano dimostrare di avere opposto resistenza all’aggressore fino a rischiare la vita. Il loro modo di vestire era considerato un’attenuante per l’imputato, come se gli uomini, a veder passare una bella donna, non fossero in grado di controllarsi. Un’attenuante erano considerati anche i trascorsi sessuali della donna. Nei processi per stupro si esigevano elementi di prova, come la conferma di testimoni oculari, non richiesti per altri crimini violenti.
Ma nella sua teoria la Brownmiller sosteneva che lo stupro non ha nulla a che vedere con il desiderio sessuale degli uomini, ma è una tattica tramite la quale l’intero genere maschile opprime l’intero genere femminile.
E da qui nacque il moderno catechismo: lo stupro non c’entra con il sesso, la nostra cultura sociale condiziona gli uomini a stuprare.
Nel corso degli anni sessanta si è diffusa fra le persone colte l’idea che si deve pensare alla sessualità come a qualcosa di naturale, non di vergognoso o sporco, e poiché lo stupro non è buono, non c’entra nulla con il sesso.
Ma che lo stupro abbia qualcosa a che vedere con la violenza non significa che non abbia nulla a che vedere con il sesso. I malvagi possono usare violenza per ottenere sesso esattamente come usano violenza per ottenere altre cose che desiderano.
Pensiamoci meglio la questione.
Primo dato di fatto sotto gli occhi di tutti: accade spesso che un uomo voglia fare l’amore con una donna che non vuole fare l’amore con lui. E, in questo caso, usa ogni tattica a disposizione degli esseri umani per influire sul comportamento altrui: corteggiare, sedurre, adulare, raggirare, tenere il broncio, pagare.
Secondo dato di fatto evidente: alcuni uomini ricorrono alla violenza per avere quello che vogliono, senza curarsi delle sofferenze che provocano.
Sarebbe straordinario, in contraddizione con tutto ciò che sappiamo degli uomini, che nessuno ricorresse alla violenza per ottenere un rapporto sessuale.
Ora applichiamo il buon senso alla dottrina che vuole che gli uomini si diano allo stupro per gli interessi del genere cui appartengono.
In una società tradizionale costui rischia la tortura, la mutilazione e la morte per mano dei parenti della vittima. Nella società moderna rischia di passare un sacco di tempo in prigione. Davvero gli stupratori, nell’assumersi questi rischi, si sacrificano altruisticamente per il bene dei miliardi di estranei che compongono il genere maschile?
Gli stupratori sono spesso dei poveracci, persone agli ultimi gradini della scala sociale, mentre i principali beneficiari del patriarcato sono presumibilmente i ricchi e i potenti.
Il fatto è che nella stragrande maggioranza delle epoche e dei luoghi, un uomo che stupra una donna della sua comunità è trattato da rifiuto umano.
Un altro elementare dato di fatto che gli uomini hanno madri, figlie, sorelle e mogli che stanno loro più a cuore di quanto stiano loro a cuore la maggior parte degli altri uomini.
Eppure molte femministe non demordono e fanno notare che fino a epoca recente, nei processi per stupro ai giurati veniva ricordato il monito di Lord Matthew Hale, giurista del diciassettesimo secolo, per cui la testimonianza di una donna va valutata con cautela, perché un’accusa di violenza carnale “è facile da muovere e da essa è difficile difendersi, anche se l’accusato è innocente”.
Ma questa preoccupazione è coerente con la presunzione di innocenza, un cardine del nostro sistema giudiziario, per il quale è preferibile lasciare in libertà dieci colpevoli che mettere in galera un solo innocente.
Ma supponiamo, anche in questo caso, che gli uomini che hanno applicato tale politica allo stupro l’abbiano piegata ai loro interessi collettivi. Se fosse questa la tattica degli uomini, perché, tanto per cominciare, avrebbero dovuto fare della violenza carnale un reato?
Questo il punto della situazione a fine millennio.
Pubblicando nel 2000 A Natural History of Rape, il biologo Randy Thornhill e l’antropologo Craig Palmer hanno incrinato un’unanimità che reggeva quasi incontrastata nel mondo della cultura da un quarto di secolo, e attirato sulla psicologia evoluzionistica più condanne di quanto fosse mai avvenuto.
Nella loro ricerca scientifica sulla violenza carnale e il suo rapporto con la natura umana partivano da un’osservazione base: uno stupro può portare a un concepimento che propagherà i geni dello stupratore, inclusi gli eventuali geni che hanno reso più probabile che divenisse uno stupratore. Quindi la selezione potrebbe non avere operato contro, ma a favore di una psicologia maschile comprendente la capacità di stuprare. Tuttavia, considerati i rischi della lotta con la vittima, della punizione per mano dei suoi parenti e dell’ostracismo da parte della comunità, è improbabile, aggiungevano Thornhill e Palmer, che la violenza carnale sia una strategia di accoppiamento tipica. Ma essa potrebbe essere una tattica opportunistica, che diventa più probabile quando l’uomo è incapace di ottenere il consenso della donna, è emarginato da una comunità.
Lo stupro è la strategia dell’emarginato, non della cultura dominante.
I due studiosi proponevano due teorie alternative a quella che lo vede come un residuo del patriarcato. La prima ipotizza che lo stupro opportunistico potrebbe essere un adattamento darwiniano specificamente favorito dalla selezione. La seconda che potrebbe essere un effetto collaterale di altre due caratteristiche della mente maschile, cioè il desiderio di rapporti sessuali e la capacità di ricorrere a una violenza opportunistica per raggiungere un obiettivo.
Nel complesso la questione resta irrisolta, salvo il fatto che stupro e sesso sono legati a doppio filo. E la “cultura maschile” c’entra ben poco.
In definitiva possiamo ben dire che la maggior parte degli uomini ha la capacità di compiere uno stupro e pensarlo va, casomai, nell’interesse delle donne, perché esorta alla vigilanza nei confronti del marito e di conoscenti, o durante sconvolgimenti sociali.
Questa analisi, paradossalmente, concorda con i dati portati dalla stessa Brownmiller, secondo i quali violenze carnali possono essere commesse in guerra da uomini normali, compresi i “bravi” ragazzi americani in Vietnam.
Si potrebbe persino dire che l’ipotesi di Thornhill e Palmer – porre lo stupro nella sfera della sessualità -fa di essi strani alleati delle più radicali femministe del genere, come Catharine MacKinnon e Andrea Dworkin, per le quali “spesso è difficile distinguere la seduzione dallo stupro. Nella seduzione, spesso il violentatore si prende il disturbo di comprare una bottiglia di vino”.
A Natural History of Rape ha già subìto il peggiore destino possibile per un libro di divulgazione scientifica. Come L’origine dell’uomo e The Bell Curve, è diventato una cartina di tornasole ideologica. Chi vuole dimostrare la propria vicinanza alle vittime di violenza carnale e alle donne in generale ha ormai imparato che deve liquidarlo.
E riguardo all’interrogativo più importante, cioè se fra le motivazioni del violentatore vi sia il desiderio sessuale? Le femministe del genere che lo negano richiamano l’attenzione sugli stupratori che prendono di mira donne anziane e infeconde, su quelli che soffrono di disfunzione sessuale durante lo stupro, su quelli che costringono la donna ad atti sessuali non riproduttivi, e su quelli che usano il preservativo.
Sono argomentazioni non convincenti per due ragioni. Primo, questi esempi riguardano una minoranza di stupratori. Inoltre, casi del genere si presentano anche nei rapporti sessuali consensuali, quindi quell’argomentazione porta all’assurdità per cui la sessualità in sé non avrebbe nulla a che fare con la sessualità.
Infine, un caso particolarmente problematico per la teoria “non è sesso” è quello della violenza carnale durante un appuntamento amoroso. Dobbiamo forse credere che la motivazione dello stupratore sia cambiata di punto in bianco?
Che le motivazioni che spingono allo stupro siano di origine sessuale (e non la voglia di esercitare un dominio) è testimoniato anche da un’impressionante quantità di prove passate in rassegna dallo studioso di diritto Owen Jones.
Ma c’è di più: l’accoppiamento coatto è universalmente diffuso fra le specie nel mondo animale, il che fa pensare che la selezione non lo abbia rigettato.
Inoltre, lo stupro è una pratica universale. Tutte le civiltà lo conoscono. Una coincidenza straordinaria.
Lo stupratore non vuole umiliare, in genere impiega quel tanto di forza necessario per costringere la vittima al rapporto, e le vittime di violenza carnale sono perlopiù negli anni di massima riproduttività per le donne, fra i tredici e i trentacinque. Le vittime di violenza carnale restano più traumatizzate quando c’è il rischio che lo stupro porti a un concepimento.
I violentatori non sono rappresentativi, dal punto di vista demografico, del genere maschile. Sono nella stragrande maggioranza giovani, fra i quali la competitività sessuale raggiunge la massima intensità.
Ergo: chi presume che siano “socialmente condizionati” a violentare deve poi spiegare come si liberino misteriosamente da questo condizionamento invecchiando.
Brownmiller ha scritto che le teorie biologiche dello stupro sono fantasiose perché “in termini di strategia riproduttiva l’eiaculazione singola e d’incerto successo del violentatore è una sorta di roulette russa a confronto del periodico accoppiamento consensuale”. Ma il periodico accoppiamento consensuale non è alla portata di tutti i maschi, e predisposizioni a rapporti sessuali d’incerto successo potrebbero essere, dal punto di vista evoluzionistico, più efficaci di predisposizioni che rischiassero di portare a un’assenza di rapporti sessuali.
Qualcuno ha notato che nei paesi in cui, come in Giappone, i ruoli legati al genere sono molto più rigidi, gli stupri sono percentualmente molto meno numerosi. I sessisti anni Cinquanta erano più sicuri per le donne degli emancipati Settanta e Ottanta.
Ma la correlazione va in gran parte nella direzione opposta. Nella misura in cui le donne, rendendosi indipendenti dagli uomini, conquistano maggiore libertà di movimento, si trovano più spesso in situazioni pericolose.
Certo che se le cose stanno in questi termini anche i vestiti della donna finiscono per contare!
Questo semplice fatto provoca reazioni inconsulte: Mary Koss, definita un’autorità in materia di violenza carnale, vi ha visto un “pensiero assolutamente inaccettabile in una società democratica” (si noti la psicologia del tabù: non si tratta soltanto di suggerimenti sbagliati, è “assolutamente inaccettabile” solo pensarvi). “Poiché lo stupro è un reato di genere” aggiunge Koss “tali raccomandazioni minano l’eguaglianza”.
Che le donne abbiano il diritto di vestire come vogliono è fuori discussione, ma il problema non è quello che le donne hanno il diritto di fare in un mondo perfetto, bensì come possono accrescere la loro sicurezza in questo. Suggerire che le donne, in situazioni pericolose, pensino alle reazioni che possono suscitare o ai segnali che possono inavvertitamente trasmettere è solo buon senso. E’ difficile credere che una qualunque donna adulta possa pensarla diversamente, a meno che non sia indottrinata dai corsi standard di prevenzione dello stupro, in cui s’insegna che l’aggressione sessuale non è un atto di gratificazione sessuale e che aspetto e attrattiva sono irrilevanti.
Il femminismo più accorto non ha più problemi con questa versione dei fatti.
Camille Paglia:
Da un decennio le femministe insegnano alle loro discepole a dire: «Lo stupro è un reato di violenza, non sessuale». Questa sciocchezza, zuccherosa alla Shirley Temple, ha esposto le giovani al disastro. Fuorviate dal femminismo, non si aspettano uno stupro dai bravi ragazzi di buona famiglia che siedono accanto a loro in classe. … Queste ragazze dicono: «Dovrei potere ubriacarmi a una festa studentesca e andare di sopra nella camera di un ragazzo senza che succeda niente». Io rispondo: «Ah sì? E quando vai in macchina a New York ci lasci dentro le chiavi?». Quello che voglio dire è che se ti rubano la macchina dopo che hai fatto una cosa del genere, la polizia, certo, deve dare la caccia al ladro e lui dev’essere punito. Ma nello stesso tempo la polizia, ed io, abbiamo il diritto di dirti: «Che cosa ti aspettavi, idiota?».
Wendy McElroy:
Il fatto che noi donne siamo vulnerabili all’aggressione significa che non possiamo avere tutto. Non possiamo attraversare di notte un campus non illuminato o un vicolo senza correre reali pericoli. Queste sono cose che ogni donna dovrebbe poter fare, ma il «dovrebbe» appartiene a un mondo utopico. Appartiene a un mondo in cui ti cade il portafoglio in mezzo a una folla e ti viene restituito, completo di soldi e carte di credito. Un mondo in cui si lasciano aperte le Porsche in piena città. In cui si possono lasciare i bambini da soli al parco. Non è questa la realtà che abbiamo di fronte, la realtà che ci limita.
Che fare infine di fronte ad un istinto naturale difficile da reprimine?
Aumentare le pene? Se le cose stanno come detto, parliamo di crimini dove la deterrenza è minima.
Rassegnarsi ed indirizzare le proprie energie dove possono fare la differenza? E’ triste ma anche razionale.
Castrazione chimica? Fa scendere di brutto i tassi di recidività. Ma ci sono problemi costituzionale. Non è un po’ troppo?
Educare al self-control? Una terapia comportamentale puo’ essere molto utile al criminale (qui, qui, qui). Senza dire che imparare a contare fino a dieci è utile in tutti i campi!
Io personalmente prego. E’ l’alternativa al fatalismo.